
Da mesi la Procura di Caltanissetta sta indagando sui moventi e i mandanti occulti dell’omicidio di Paolo Borsellino e sul presunto favoreggiamento alla mafia di pezzi da novanta della magistratura come Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli, sospettati di avere insabbiato un procedimento sui rapporti tra le cosche e il gruppo Ferruzzi di Ravenna. Per questo negli uffici degli inquirenti nisseni stanno sfilando numerosi testimoni eccellenti che hanno lavorato a Palermo negli anni Novanta.
Una di questi è Ilda Boccassini, per anni star della Procura di Milano e per pochi mesi, a partire dal marzo del 1995, pm a Palermo. «Ilda la rossa» nel suo verbale di sommarie informazioni ha descritto l’esperienza nel capoluogo siciliano come traumatica. Erano gli anni immediatamente successivi all’uccisione di Borsellino e di Giovanni Falcone, con cui lei stessa ha raccontato di avere avuto una relazione.
All’epoca la Procura era guidata da un monumento della magistratura progressista come Gian Carlo Caselli.
Ma la lotta alla mafia non era svolta con la trasparenza e la determinazione che la Boccassini si sarebbe aspettata.
Lo dice in modo chiaro, nel suo verbale del 18 giugno 2025, al procuratore Salvo De Luca, che oggi sarà audito dalla commissione Antimafia.
Agli atti è finito pure un appunto riepilogativo (intitolato «cronistoria e consistenza del procedimento 6613/94»), firmato dalla stessa Boccassini e dal collega Roberto Saieva, su un fascicolo sensibile che riguardava alcuni colletti bianchi in odore di mafia e in cui erano «confluiti» i procedimenti 1500/93 e il 3589/91. In quest’ultimo era stata disposta da Natoli, in accordo con Pignatone, la discussa «smagnetizzazione delle bobine» e «la distruzione dei brogliacci» relativi a conversazioni telefoniche di boss del livello di Antonino e Salvatore Buscemi e Francesco Bonura, i quali, nel 1980, con la loro Immobiliare Raffaello, avevano venduto a prezzo vantaggioso diversi immobili alla famiglia dello stesso Pignatone.
Le tre inchieste gemelle, alla fine, non portarono praticamente a nulla.
Ma perché esattamente trent’anni fa la Boccassini e Saieva compilarono un dettagliato elenco degli atti più importanti contenuti nei succitati faldoni? Il loro era un tentativo di mettere ordine in una storia che era stata affrontata in più fascicoli che si intersecavano tra loro come matrioske o scatole cinesi.
«Diversi procedimenti furono assegnati anche a me e a Saieva, però, gli atti e le scelte strategiche e investigative erano sottratte alla nostra gestione, tanto è vero che io mi lamentai varie volte con il procuratore Caselli», premette la Boccassini a Caltanissetta.
E, a proposito della sua cronistoria, datata maggio 1995, la toga specifica: «Redigemmo una relazione scritta su ciò che mancava nei fascicoli o non era stato fatto, circostanza che scontentò i colleghi. Devo precisare che, durante la mia permanenza a Palermo, ebbi la percezione di essere considerata “una nemica”. Ho saputo che, prima del mio arrivo, un collega, durante una riunione, disse: “Macchine blindate non ce ne sono, verrà con il ciuccio”. Addirittura Roberto Saieva voleva andarsene subito. Probabilmente abbiamo redatto una relazione così dettagliata perché abbiamo rilevato una serie di anomalie che non ci avevano convinto».
Quest’ultimo giudizio è ripetuto anche quando De Luca le chiede di spiegare perché nella cronistoria si faccia «menzione del provvedimento di smagnetizzazione emesso dal dottore Natoli».
La testimone sulla «cronistoria» puntualizza: «Certamente se io e il collega Saieva abbiamo redatto una così dettagliata relazione, lo abbiamo fatto perché abbiamo rilevato importanti anomalie. Già il fatto che gli indagati siano stati interrogati senza essere stati precedentemente iscritti la trovo una gravissima irregolarità».
Ma i problemi non riguardavano solo il fascicolo 6613/94: «Ci fu una riunione della Dda nel corso della quale noi appuntammo, di tutta una serie di procedimenti che ci erano stati assegnati, le anomalie che avevamo rilevato secondo i nostri parametri di valutazione. Le anomalie le rilevammo in diversi procedimenti, incluso Sistemi criminali (avviato da Roberto Scarpinato, ndr) del quale non ci fu neppure, però, consentito di vedere tutti gli atti».
Si tratta di una dichiarazione molto importante poiché questa è stata la prima inchiesta sui mandanti politici delle stragi mafiose del 1992.
In quel calderone, che è stato lasciato in cottura sino a dopo il 2000, quando venne archiviato, finirono l’ex fondatore della P2 Licio Gelli, l’estremista di destra Stefano Delle Chiaie, alcuni personaggi legati alla massoneria e alle cosiddette Leghe meridionali già finite sotto inchiesta ad Aosta, nel procedimento Phoney money. Partito a modello 45, il procedimento è rimasto per un lungo periodo senza indagati. Da una sua costola è nata l’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia.
La Boccassini contesta l’indagine originale anche in un altro passaggio del verbale: «Ricordo moltissime anomalie anche nel procedimento Sistemi criminali. Ad esempio, Marcello Dell’Utri non era iscritto, ma furono acquisiti i tabulati dei suoi telefoni cellulari».
Secondo la Boccassini, alla Procura di Palermo, nel 1995, tirava una brutta aria: «Il clima era pessimo, i colleghi non ci salutavano neppure. Ad esempio, Scarpinato, quando passava nei corridoi, non mi salutava. Solo in occasione della mia imminente partenza venne a dirmi che dovevo rimanere a Palermo perché doveva essere portato a termine il processo Andreotti».
Ma se la Boccassini è molto severa con Scarpinato, lo è meno con Pignatone, che ai tempi di Caselli era stato un po’ emarginato: «Era l’unico con il quale, all’epoca, avevo rapporti cordiali […], intendo dire che era l’unico con cui parlavo e scambiavo il saluto. Del resto, ai tempi di Duomo connection, fu proprio Giovanni Falcone a dirmi che avrei lavorato con il miglior sostituto che aveva».
Mentre risponde alle domande, nella mente di Ilda, come un flash, affiora un passaggio nevralgico del fascicolo 6613/94, la richiesta di arresto dell’ingegner Giovanni Bini, un manager del gruppo Ferruzzi in Sicilia che sarebbe stato certamente più proficuo sentire come testimone: «Ricordo che, una volta, ho letto una richiesta di misura cautelare e ho pensato che si trattasse di una richiesta suicida. Non rammento chi la avesse predisposta». La Procura gli mostra l’istanza nei confronti di Bini e la Boccassini si ritrova: «Non ricordo il contenuto esatto, ma rammento che effettivamente la misura cautelare era nei confronti di Bini».
Le ultime parole sono dedicate alla scelta di lasciare la Sicilia: «Io e Saieva decidemmo di andarcene perché non ci veniva consentito di lavorare, poiché tutto veniva concentrato sul processo Andreotti e su Sistemi criminali. Dovevo rimanere per un anno, ma sono tornata a Milano dopo sei mesi e anche Roberto Saieva tornò a Roma. Ho certamente sempre pensato che il fulcro delle indagini sulla Calcestruzzi (società del gruppo Ferruzzi in affari con i Buscemi, ndr) dovesse essere Palermo». Ma i pm di Palermo preferivano occuparsi dei fantomatici baci di Andreotti ai mafiosi e di andare a caccia di massoni e neofascisti, lasciando appassire il filone sui rapporti della mafia con le grandi aziende del Nord.
Sulla vicenda della richiesta di smagnetizzazione delle bobine e di distruzione dei brogliacci è stato sentito come testimone anche Guido Lo Forte, che con Pignatone e Natoli si è occupato delle indagini sui Buscemi e su Bonura, personaggi da cui, pure lui, aveva acquistato un appartamento. E anche in questa occasione è spuntato il nome di Scarpinato. De Luca ha contestato al teste un’intercettazione con il senatore grillino, il quale era già stato pizzicato a preparare con Natoli l’audizione di quest’ultimo in commissione Antimafia.
Insomma sembra che fare domande in autonomia sulle vicende palermitane sia un vizio del parlamentare del Movimento 5 stelle.
Lo Forte ha affermato che la smagnetizzazione avveniva «per una serie di motivi legati al budget, alla possibilità di riutilizzare le bobine» e ha ammesso di non essersi posto il problema della legittimità di quell’operazione: «La trovai come una prassi già instaurata da qualche tempo» ha sostenuto. De Luca smonta quest’asserzione. Infatti dal 1990 al 1996, su 60 pubblici ministeri in forza alla Procura, solo quattro (Pignatone, Natoli, Sergio Barbiera e Michele Prestipino) avrebbero fatto ricorso al modulo incriminato, utilizzandolo appena 24 volte.
A questo punto De Luca segnala a Lo Forte che molti colleghi della Dda hanno dichiarato di non avere «la più pallida idea di che cosa fosse questo prestampato» e, tra questi, Scarpinato, il quale, scaricando Natoli e Pignatone, avrebbe aggiunto, che comunque «non avrebbe mai firmato un documento del genere». Ed eccoci al disvelamento dell’intercettazione. De Luca spiega a Lo Forte: «Nel corso di una conversazione telefonica con lei il senatore Scarpinato ha manifestato un certo stupore per la locuzione “la distruzione dei brogliacci”». Quindi il procuratore rinfaccia a Lo Forte «tutti i particolari che sta fornendo oggi»: «Nel corso della conversazione con il senatore Scarpinato lei non ne ha parlato perché inizialmente lei non ricordava assolutamente nulla di questa faccenda, poi il senatore Scarpinato le dice che gli sembra strana ’sta vicenda dei brogliacci e le parla…». Lo Forte prova a resistere: «Ma io ricordo questi provvedimenti di smagnetizzazione…». E De Luca lo infilza: «Però nel corso della conversazione telefonica lei non ha mai detto di avere visto questi provvedimenti… a un certo punto non ricordava nulla… di avere visto questo prestampato, di averne firmato qualcuno, tutte queste cose non le dice nelle conversazioni che ha avuto con Scarpinato e con Natoli… cioè sta aggiungendo qui tutta una serie di particolari…».
In Procura Lo Forte ha dovuto spiegare anche come mai abbia acquistato pure lui un appartamento dall’immobiliare Raffaello: «Non mi diede un suggerimento Pignatone, (sono arrivato all’acquisto, ndr) autonomamente… è un caso, è stata una coincidenza», ha assicurato il magistrato in pensione.
E se, a Caltanissetta, Pignatone ha ammesso di avere corrisposto una parte del pagamento sottobanco, Lo Forte ha negato, sebbene il prezzo che aveva spuntato, secondo il consulente della Procura, fosse particolarmente conveniente (53 milioni di lire). Sul punto il testimone non sembra ricordare molto: «L’importo? 50 milioni o 70 milioni». Ma sul presunto «black» pare avere le idee più chiare: «No, in nero non credo… non c’è stata una parte pagata in nero».
Ma, come fa notare De Luca, nel rogito si legge che il pagamento sarebbe stato effettuato in contanti. Lo Forte ribatte che il notaio era di sua fiducia e che, tuttavia, aveva saldato in modo tracciabile: «Penso con assegni, anzi ricordo con assegni...». Il testimone non spiega, però, per quale ragione sia stata indicata nell’atto notarile una circostanza non veritiera e perché lui stesso abbia sottoscritto un documento che conteneva un dato falso che rappresentava, per un magistrato, l’aspetto più delicato.





