Le mosse di Pignatone e dei suoi «utili idioti». Così hanno affossato i dossier mafia-appalti
Inchieste costruite come scatole cinesi, indagini che procedono a compartimenti stagni, atti mandati al macero, magistrati che mal si sopportano e carte che spuntano oggi, ma che nessuno aveva mai visto. C’è anche questo nel fascicolo della Procura di Caltanissetta che sta ricercando i moventi occulti della morte di Paolo Borsellino. E più si scava e più aumentano le ombre sulla condotta di Giuseppe Pignatone, un magistrato che ha sfiorato la beatificazione da vivo e che adesso è caduto in disgrazia. Attualmente è indagato con infamanti accuse di vicinanza alle cosche e dalle agiografie che lo aspergevano d’incenso si è passati agli atti giudiziari che, in fase preliminare, hanno sempre il sentore dello zolfo.
Ma per capire bene di cosa stiamo parlando bisogna immergersi nella Palermo dei primi anni Novanta, quando la Procura di Gian Carlo Caselli aveva iniziato una guerra di trincea contro la mafia dopo le stragi del 1992-‘93.
Un fortino che mal sopportava le interferenze dall’esterno. L’ex procuratore generale di Cagliari e Catania, Roberto Saieva, venne spedito a lavorare con Pignatone & c. dall’allora procuratore Antimafia, Bruno Siclari, per occuparsi di criminalità economica mafiosa. Ma Saieva e la collega Ilda Boccassini, spedita anche lei a Palermo come rinforzo, ricevettero un’accoglienza piuttosto fredda. «Caselli non era molto d’accordo su questa iniziativa […] non fece mistero del fatto che questa applicazione era sgradita al suo ufficio, perché tutti i magistrati della Procura di Palermo ritenevano che l’iniziativa del dottor Siclari fosse un atto di interferenza» ha dichiarato a verbale Saieva lo scorso 5 giugno. E ha aggiunto: «I rapporti con i colleghi sono stati minimi, ridotti all’essenziale. Rapporti assolutamente formali, ma sicuramente del tutto sporadici. Io non ricordo che di essermi seduto con il dottor Pignatone o con altri colleghi».
Nei pochi mesi in cui Saieva e Boccassini resistettero in città si videro affidare due procedimenti. Uno riguardava una rogatoria in Svizzera e l’altro, più importante, scandagliava gli affari di alcuni mafiosi con la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in particolare all’interno delle cave di marmo di Massa Carrara.
Un fascicolo che il procuratore nisseno Salvo De Luca ha definito a più riprese «tecnicamente morto». E il «dottor Morte» dell’inchiesta sarebbe stato Pignatone, il quale, insieme con i suoi famigliari, dai boss in affari con la Calcestruzzi, aveva comprato decine di immobili negli anni Ottanta. Ciò non gli avrebbe impedito di occuparsi dell’indagine, commettendo, a detta dei testimoni, madornali errori procedurali, che portarono l’inchiesta su un binario morto, con conseguente rapida archiviazione di tre dei quattro manager indagati del gruppo Ferruzzi.
A verbale, De Luca obietta che, però, a chiedere il proscioglimento non era stato Pignatone, che non risultava nemmeno «co-assegnatario» del procedimento, bensì lo stesso Saieva, la Boccassini e ad altri due colleghi che Caselli gli aveva affiancato. L’ex pm della Dna ribatte che «quegli atti furono compiuti dal dottor Pignatone […] che era il principale pubblico ministero che si occupava del procedimento». Ma, forse, senza comparire ufficialmente.
Quello strano fascicolo, denominato Calcestruzzi, a parere di Saieva, «aveva delle evidenti criticità». Quali? «Secondo la nostra valutazione, per la maggior parte degli indagati i termini di indagine erano scaduti ed erano scaduti da tempo prima dell’arrivo mio e della dottoressa Boccassini». Ma non ci sarebbe stato solo questo problema a rendere «inutilizzabili» gli atti. Pignatone avrebbe interrogato i manager della Ferruzzi con l’assistenza di un difensore, «anche se sarebbero stati iscritti molto tempo dopo» puntualizza Saieva. Che in un altro passaggio ribadisce: «Quegli atti di interrogatorio sono stati compiuti, che io ricordi, dal dottore Pignatone, cioè gli interrogatori di Panzavolta, Bini e… Pironi».
E questi errori da matita blu avrebbero affossato l’inchiesta.
Tali sbagli sono stati commessi per incompetenza o con dolo? Nella testa degli inquirenti la risposta pare abbastanza chiara.
Per gli inquirenti c’è da registrare un’altra anomalia: l’inchiesta era stata affidata al Servizio centrale operativo della polizia di Stato e alla Guardia di finanza, ma non ai carabinieri del Ros che, per primi, si erano occupati dei rapporti tra mafia e imprenditoria.
All’epoca Saieva aveva interloquito con il futuro capo della Polizia, Alessandro Pansa, anche «sulla possibilità di una rivitalizzazione di questo procedimento Calcestruzzi dopo l’archiviazione di tre indagati su quattro».
L’ex pm della Dna ha riferito a De Luca che il super poliziotto gli avrebbe raccontato di avere «constatato che esistevano diverse trascrizioni nei registri immobiliari dai quali risultava che dal gruppo Piazza erano stati venduti molti appartamenti alla famiglia Pignatone» e, per questo, avrebbe «ravvisato una qualche difficoltà» a procedere con le investigazioni, «riferite subito al dottor Caselli». Quest’ultimo avrebbe rassicurato il poliziotto, promettendo di occuparsi personalmente della cosa. In realtà lo Sco, a detta di Saieva, avrebbe trovato un muro: ai poliziotti sarebbero state negate intercettazioni, perquisizioni e una rogatoria internazionale per ottenere informazioni sull’attentato subito ad Atene dall’ex governatore della Banca Nazionale greca, Michalis Vranopoulos, un omicidio che gli investigatori italiani collegavano a un affare portato avanti dal gruppo Ferruzzi unitamente a Cosa nostra nella Penisola ellenica.
L’ex magistrato ha anche detto: «Quando abbiamo conferito con Pansa emerse in modo plastico ed evidente che c’era stata una difficoltà di interlocuzione tra l’ufficio di polizia procedente e l’ufficio del pubblico ministero». Saieva ha anche confermato che dagli atti risultava «che molte richieste della polizia giudiziaria erano state rigettate».
Per il testimone, Pignatone «avrebbe potuto valutare le ragioni di convenienza di una sua astensione e non l’aveva fatto, avrebbe potuto farlo il capo dell’ufficio (Caselli, ndr), ma anche lui aveva ritenuto che questa ragione di astensione non ci fosse».
Pure Pansa è stato sentito a Caltanissetta, ma il suo verbale è infarcito di non ricordo.
Durante il verbale di sommarie informazioni, De Luca ha mostrato a Saieva un documento in quattro punti, datato 20 maggio 1995, che sarebbe stato a lui inviato da Pignatone nell’ambito del procedimento Calcestruzzi e che è stato prodotto dalla difesa dell’ex procuratore di Roma. Una lettera di cui, però, gli inquirenti non hanno trovato traccia negli atti.
Il documento quasi scagiona Pignatone e il collega Gioacchino Natoli dalla primigenia accusa di favoreggiamento alla mafia, contestata per il discusso ordine di «smagnetizzazione delle bobine» e «la distruzione dei brogliacci» delle intercettazioni captate nel procedimento sugli affari del gruppo Ferruzzi con la mafia.
Una storia che per due anni ha tenuto Pignatone e Natoli sul banco degli imputati anche a livello mediatico. Ma adesso l’ex procuratore di Roma estrae dal cilindro una carta che rimette tutto in discussione. Ecco il testo che Pignatone avrebbe firmato nel 1995: «L’ufficio Intercettazioni mi ha comunicato, salvo l’esito di ulteriori verifiche, che i nastri e i brogliacci relativi alle intercettazioni telefoniche disposte nell’ambito del procedimento originariamente iscritto al numero 3589/91 non sono stati ancora distrutti». E non sarebbero stati cancellati «in ossequio a una prassi instaurata a quel tempo dalla dirigenza dell’ufficio e per la quale si ritardava l’esecuzione della distruzione di tale materiale nei procedimenti relativi alla criminalità di tipo mafioso; successivamente è stato deciso di non ordinare più la distruzione di nastri e brogliacci».
Quindi se oggi la Procura di De Luca è riuscita a trovare le bobine il merito sarebbe, in parte, dello stesso Pignatone.
Saieva è spiazzato: «Purtroppo non ricordo nulla». De Luca chiosa: «Il documento non risulta, però, pervenuto a lei». Per il procuratore di Caltanissetta «è un po’ strano» che non sia stato indirizzato, per esempio, anche alla Boccassini o agli altri titolari del fascicolo Calcestruzzi.
Saieva concorda: «Anch’io mi sorprendo perché tutti gli atti sono stati compiuti da me e dalla dottoressa Boccassini». Pure «Ilda la rossa», a verbale, ha espresso dubbi sull’arma segreta di Pignatone: «Non ricordo la nota che mi mostrate. Non so se il collega Saieva ne abbia avuto conoscenza, ma debbo dire che entrambi avevamo l’abitudine di mettere su ogni atto il “pervenuto” nelle rispettive segreterie, con data e orario».
Dunque il documento depositato dalla difesa di Pignatone è un fantasma che aleggia sull’inchiesta.
Ma sulle iniziative originali dell’ex giudice di papa Francesco nei fascicoli che riguardavano i mafiosi che gli avevano venduto casa è stato sentito anche il suo ex collega ed amico Guido Lo Forte.
Per esempio De Luca contesta che in un’istanza di arresto firmata da lui e dall’ex presidente del Tribunale vaticano «alcune parti considerevoli riguardanti indagati completamente non toccati dalla richiesta cautelare come ad esempio Antonino Buscemi non vennero omissate compresi gli intrecci societari». In pratica, uno dei due fratelli Buscemi (il capo mandamento Salvatore ha venduto casa a Pignatone) venne indirettamente informato delle indagini che lo riguardavano.
De Luca ricorda che su uno dei due Buscemi vengono iscritti due procedimenti gemelli che «viaggiano separati da una muraglia cinese», che vengono «riaperti e gestiti separatamente», ma «da qualunque ricerca di segreteria emergeva la doppia iscrizione di Buscemi». Stranezze.
Il procuratore chiede lumi a Lo Forte anche su un altro fascicolo, il 1500/93, che riguardava i soliti noti. De Luca osserva: «Avete riaperto il procedimento di Natoli. Siccome la prima volta avete mandato a Natoli, stavolta vi tenete il procedimento, fate indagini , archiviate. Come mai?». Il teste dice di non ricordare.
Il procuratore di Caltanisetta sottopone al pm una delega inviata allo Sco e Lo Forte si smarca nuovamente, quasi fosse stato un passante: «Non ho seguito personalmente, mi sono limitato a mettere una firma».
Il testimone ribadisce che del fascicolo 1550/93 non ricorda nulla. E allora De Luca gli fa notare che l’attuale pg di Cagliari, Luigi Patronaggio, cui era stato coassegnato il fascicolo, ha dichiarato: «Hanno fatto tutto Lo Forte e Pignatone. Io sono stato solo un utile idiota». Pure in questo caso il teste non sa darsi una spiegazione. Resta la sensazione che a Palermo, trent’anni fa, gli «utili idioti» a disposizione di Pignatone fossero più d’uno.
Ha parlato circa due ore e tre quarti. E ha scritto un pezzo di storia di questo Paese. Il procuratore di Caltanissetta Salvo De Luca, in commissione Antimafia, ha ricostruito l’indagine monstre che sta portando avanti con i suoi pm sulle cause della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui persero la vita l’allora procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e la sua scorta.
E ha confermato ciò che le indiscrezioni giornalistiche (soprattutto di questo giornale) aveva già fatto in parte trapelare: il dossier mafia e appalti dei carabinieri del Ros è stata una concausa delle stragi, dal momento che per la Piovra andava affossato. Chi ci credeva è morto, chi ha alzato «una muraglia cinese» intorno a esso si è salvato. Ma le accuse più gravi sono state rivolte all’ex procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, e all’ex pm Giuseppe Pignatone (successivamente destinato a una folgorante carriera). De Luca ha spiegato che le precondizioni dell’uccisione di Falcone e Borsellino erano state il loro isolamento e la loro sovraesposizione. E come si era arrivati a questa situazione? Semplicemente affidando le leve della Procura a un uomo come Giammanco con parenti mafiosi, compreso un cugino «accoscato» di Bagheria, la terra di Bernardo Provenzano, e un nipote imprenditore che si spartiva gli appalti con le cosche. De Luca contesta a Giammanco anche l’«ostentata» amicizia con il politico in odore di mafia Mario D’Acquisto e la pazza idea di presenziare insieme con i suoi pm ai funerali di Salvo Lima. Non sono mancate le stoccate all’ex fedele collaboratore di Giammanco, Pignatone, che ha vissuto dai 14 ai 27 anni, quando era già entrato in magistratura, in un condominio infestato da mafiosi, la palazzina di via Uditore 7 C. Qui c’erano 14 appartamenti: 8 occupati dalla famiglia di don Vincenzo Piazza e 4 dai Pignatone.
L’ex presidente del Tribunale del Vaticano ha assicurato che i rapporti tra i due gruppi erano solo «formali» per «le differenze sociali e culturali». Ma De Luca ha pescato nei suoi ricordi e ha sostenuto che in quegli anni, nei condomini, i rapporti erano improntati alla massima condivisione. Nella stessa via viveva anche un altro personaggio che è stato condannato definitivamente per mafia, Francesco Bonura, a sua volta cognato dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, il primo dei quali diventerà capo mandamento.
E proprio Piazza, Bonura e Buscemi costituiranno l’immobiliare Raffaello, da cui, tra il 1978 e il 1983 i Pignatone acquisteranno 26 immobili, tra appartamenti, box, cantine e negozi. Comprano da «un capo mandamento, un capo famiglia e un associato», ha evidenziato De Luca, aggiungendo che poche altre ditte a Palermo avevano una compagine così compromessa: «Una riunione di questa società poteva comportare un arresto in flagranza per associazione mafiosa». Il procuratore ha citato anche un’intercettazione che i nostri lettori già conoscono. Risale al 22 ottobre 2024 e in essa il boss Bonura (tuttora in carcere) afferma: «A Pignatone gli abbiamo venduto le case. Io mi ricordo la madre di Pignatone, mi prendeva a braccetto: andiamo a vedere qua, andiamo là; sì signora, sì signora...».
Quando De Luca gli ha letto queste parole, durante il suo interrogatorio, Pignatone ha protestato: «Mia madre, buonanima, era una persona cordiale». L’audito ha anche ricordato che l’ex procuratore di Roma, quando Bonura viene arrestato per un duplice omicidio di mafia, anziché interrompere gli acquisti dalla Raffaello, si astiene nel procedimento. Ma il capo degli inquirenti nisseni ha rimarcato come Pignatone non abbia fatto la stessa prudente scelta quando c’è stato da indagare, agli arbori del dossier del Ros, sugli affari della Sirap, un ente pubblico chiamato a gestire mille miliardi di lire in appalti, una diligenza assaltata dalla mafia. La Sirap era partecipata dalla Espi presieduta da babbo Pignatone, chiacchierato politico dc e, secondo De Luca, «era probabile» che in quell’indagine, «emergessero fatti sul padre». Ma ciò non avrebbe sconsigliato Pignatone dal trattare quel fascicolo.
Tali intrecci pericolosi, secondo gli inquirenti nisseni, rendevano incompatibile Pignatone con la Procura di Palermo, o «quanto meno avrebbero dovuto impedirgli di avvicinarsi a qualunque procedimento riguardasse mafia e appalti, i Buscemi, Bonura e Piazza». De Luca ha anche ricordato che già nella relazione di opposizione del 1976 in Antimafia erano citati Bonura e Piazza e in quella del 1988 si spiegava che Pignatone senior «avrebbe tenuto un comizio voluto da Calogero dall’onorevole Calogero Vizzini in cui si esaltava la virtù della mafia diversa dalla delinquenza». Di fronte a un simile quadro, De Luca ha scandito: «Questa situazione di assoluta inopportunità in cui hanno esercitato le loro funzioni Giammanco e Pignatone ha contribuito grandemente a sovraesporre Falcone e Borsellino».
Il procuratore è stato tranciante, seppur negando di essere guidato da «mero moralismo», anche sul fatto che Pignatone abbia confessato di avere versato in nero circa 20 milioni per l’acquisto della casa, «rendendosi conto della pochezza del prezzo pagato». Il magistrato siciliano ha sintetizzato il suo lavoro: «Dobbiamo vedere in che situazione di inopportunità si va a ficcare una persona». Un approfondimento che ha portato a queste conclusioni: «Pignatone afferma di avere pagato 20 milioni in nero al capo mandamento Salvatore Buscemi. Non è un reato perché si tratta di un pagamento sottosoglia, è un illecito amministrativo […], ma è un’evasione fiscale fatta con il capo mandamento di Passo di Rigano Boccadifalco».
Diversi collaboratori di giustizia hanno citato Giammanco e Pignatone come magistrati vicini alle cosche, se non addirittura a disposizione. Lo stragista pentito Giovanni Brusca, a giugno ha detto ai magistrati nisseni: «Ho sentito della famiglia Pignatone, Salvatore Riina diceva che erano vicini ai Buscemi... ho saputo da Pino Lipari o da Totò Riina che i Buscemi avevano a disposizione il magistrato Pignatone, si diceva anche che il dottor Pignatone fosse stato trattato bene dai Buscemi in occasione di un acquisto di un appartamento».
Pignatone ha liquidato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come semplice «chiacchiericcio». Ma De Luca ha deciso di scoprire se lui e Giammanco «abbiano offerto un’immagine all’esterno che ha dato luogo a queste v sa nostra».E in commissione ha illustrato quanto certi comportamenti disinvolti di magistrati come Pignatone e Giammanco potrebbero avere danneggiato Falcone e Borsellino: se qualcuno si è «posto in una posizione assolutamente inopportuna», dando alla mafia l’impressione che in Procura ci fosse «una dirigenza debole, malleabile o addirittura corrotta», ebbene, quelle persone avrebbero, come detto, sovraesposto «enormemente chi, invece, veniva ritenuto incorruttibile, inflessibile». De Luca ha riportato quello che potrebbero avere pensato i boss: «Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non c’è niente da fare. Fermiamoli, tanto con gli altri non abbiamo problemi».
A questo punto De Luca ha passato in rassegna le posizioni di Giammanco (morto nel 2017), Pignatone (indagato) e di Guido Lo Forte, che, però, nonostante abbia comperato casa dalla Raffaello e lavorato gomito a gomito con Pignatone non è stato iscritto sul registro delle notizie di reato perché non è stato chiamato in causa dai collaboratori di giustizia e, dopo l’addio di Giammanco, ha chiesto l’arresto di Antonino Buscemi. Una mossa che a giudizio del procuratore dimostrerebbe che «non aveva interesse personale a proteggerlo».
Diversa la gestione, sotto la regia di Pignatone, di fascicoli fondamentali sugli affari dei Buscemi con il gruppo Ferruzzi nelle cave di marmo di Carrara.
De Luca ha ricordato un dogma di Falcone (mega indagini, piccoli processi), completamente tradito da queste inchieste, in cui le investigazioni procedevano a compartimenti stagni e non c’era reale condivisione delle informazioni. De Luca non si spiega come il fascicolo «doppione» sui Buscemi, aperto grazie alle carte arrivate dalla Procura di Massa Carrara, sia rimasto praticamente «occulto». Il titolare ufficiale era Gioacchino Natoli, il quale, pur appartenendo a una corrente progressista, era perfettamente allineato con il moderato Pignatone e avrebbe nascosto al Csm quanto di sua conoscenza sui rapporti conflittuali tra Giammanco e Falcone, da quest’ultimo denunciati anche in una riunione di corrente.
Quanto alla sottovalutazione del dossier mafia appalti e all’archiviazione del filone principale, chiesta da Roberto Scarpinato e Lo Forte, De Luca non è stato tenero: «In due anni non è stata fatta una sola indagine su Antonino Buscemi».
Il procuratore ha giudicato «singolare» il fatto che l’attuale senatore del Movimento 5 stelle e membro della commissione Antimafia «si sia rimesso alle valutazioni di Lo Forte» su Buscemi e alla sua decisione di chiedere l’archiviazione asserendo che sul boss «non c’era assolutamente nulla» (una motivazione bollata da De Luca come «inaccettabile»), mentre contemporaneamente portava avanti una richiesta di misura di prevenzione nei confronti dello stesso soggetto e in tale fascicolo «diligentemente» aveva raccolto le carte di Massa e le dichiarazioni dei pentiti nei suoi confronti. Ma con quel tipo di proscioglimento «come puoi portare avanti la misura di prevenzione?», si è chiesto l’audito. «Un’affermazione del genere fatta dalla Procura rende inidonea la prosecuzione di un procedimento per una misura di prevenzione». Per De Luca, Scarpinato o doveva mandare in archivio entrambi i procedimenti o, viste le sue conoscenze, portare avanti anche il fascicolo penale. «La diligenza del senatore Scarpinato è molto apprezzabile in sede di misura di prevenzione, però, è in contraddizione con l'atteggiamento mantenuto in sede penale».
Il procuratore ha bocciato anche la pista nera seguita dal parlamentare grillino quando era pg di Palermo. Lo ha accusato di «essersi fatto un’indagine sulle stragi» alla vigilia del congedo per pensionamento, senza coordinarsi con Caltanissetta («l’unica procura che aveva la competenza sulle stragi»), violando così l’articolo 11 del codice di procedura penale.
Ma al contrario di quanto accaduto per mafia e appalti, quando Scarpinato «ha prospettato questo filone», De Luca & c. avrebbero iniziato a indagare con entusiasmo, salvo «rendersi conto» che quell’indagine «valeva zero tagliato», come ha confermato un gip non appiattito sulle posizioni della Procura. Ma questo non significa che «Stefano Delle Chiaie (l’estremista chiamato in causa da Scarpinato, ndr) non possa avere avuto un ruolo […] visto che uno stragismo di destra storicamente in Italia c’è stato», ha concesso De Luca, annunciando che c’è «un’ulteriore pista nera che stiamo approfondendo e che potrebbe dare esiti».
Da mesi la Procura di Caltanissetta sta indagando sui moventi e i mandanti occulti dell’omicidio di Paolo Borsellino e sul presunto favoreggiamento alla mafia di pezzi da novanta della magistratura come Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli, sospettati di avere insabbiato un procedimento sui rapporti tra le cosche e il gruppo Ferruzzi di Ravenna. Per questo negli uffici degli inquirenti nisseni stanno sfilando numerosi testimoni eccellenti che hanno lavorato a Palermo negli anni Novanta.
Una di questi è Ilda Boccassini, per anni star della Procura di Milano e per pochi mesi, a partire dal marzo del 1995, pm a Palermo. «Ilda la rossa» nel suo verbale di sommarie informazioni ha descritto l’esperienza nel capoluogo siciliano come traumatica. Erano gli anni immediatamente successivi all’uccisione di Borsellino e di Giovanni Falcone, con cui lei stessa ha raccontato di avere avuto una relazione.
All’epoca la Procura era guidata da un monumento della magistratura progressista come Gian Carlo Caselli.
Ma la lotta alla mafia non era svolta con la trasparenza e la determinazione che la Boccassini si sarebbe aspettata.
Lo dice in modo chiaro, nel suo verbale del 18 giugno 2025, al procuratore Salvo De Luca, che oggi sarà audito dalla commissione Antimafia.
Agli atti è finito pure un appunto riepilogativo (intitolato «cronistoria e consistenza del procedimento 6613/94»), firmato dalla stessa Boccassini e dal collega Roberto Saieva, su un fascicolo sensibile che riguardava alcuni colletti bianchi in odore di mafia e in cui erano «confluiti» i procedimenti 1500/93 e il 3589/91. In quest’ultimo era stata disposta da Natoli, in accordo con Pignatone, la discussa «smagnetizzazione delle bobine» e «la distruzione dei brogliacci» relativi a conversazioni telefoniche di boss del livello di Antonino e Salvatore Buscemi e Francesco Bonura, i quali, nel 1980, con la loro Immobiliare Raffaello, avevano venduto a prezzo vantaggioso diversi immobili alla famiglia dello stesso Pignatone.
Le tre inchieste gemelle, alla fine, non portarono praticamente a nulla.
Ma perché esattamente trent’anni fa la Boccassini e Saieva compilarono un dettagliato elenco degli atti più importanti contenuti nei succitati faldoni? Il loro era un tentativo di mettere ordine in una storia che era stata affrontata in più fascicoli che si intersecavano tra loro come matrioske o scatole cinesi.
«Diversi procedimenti furono assegnati anche a me e a Saieva, però, gli atti e le scelte strategiche e investigative erano sottratte alla nostra gestione, tanto è vero che io mi lamentai varie volte con il procuratore Caselli», premette la Boccassini a Caltanissetta.
E, a proposito della sua cronistoria, datata maggio 1995, la toga specifica: «Redigemmo una relazione scritta su ciò che mancava nei fascicoli o non era stato fatto, circostanza che scontentò i colleghi. Devo precisare che, durante la mia permanenza a Palermo, ebbi la percezione di essere considerata “una nemica”. Ho saputo che, prima del mio arrivo, un collega, durante una riunione, disse: “Macchine blindate non ce ne sono, verrà con il ciuccio”. Addirittura Roberto Saieva voleva andarsene subito. Probabilmente abbiamo redatto una relazione così dettagliata perché abbiamo rilevato una serie di anomalie che non ci avevano convinto».
Quest’ultimo giudizio è ripetuto anche quando De Luca le chiede di spiegare perché nella cronistoria si faccia «menzione del provvedimento di smagnetizzazione emesso dal dottore Natoli».
La testimone sulla «cronistoria» puntualizza: «Certamente se io e il collega Saieva abbiamo redatto una così dettagliata relazione, lo abbiamo fatto perché abbiamo rilevato importanti anomalie. Già il fatto che gli indagati siano stati interrogati senza essere stati precedentemente iscritti la trovo una gravissima irregolarità».
Ma i problemi non riguardavano solo il fascicolo 6613/94: «Ci fu una riunione della Dda nel corso della quale noi appuntammo, di tutta una serie di procedimenti che ci erano stati assegnati, le anomalie che avevamo rilevato secondo i nostri parametri di valutazione. Le anomalie le rilevammo in diversi procedimenti, incluso Sistemi criminali (avviato da Roberto Scarpinato, ndr) del quale non ci fu neppure, però, consentito di vedere tutti gli atti».
Si tratta di una dichiarazione molto importante poiché questa è stata la prima inchiesta sui mandanti politici delle stragi mafiose del 1992.
In quel calderone, che è stato lasciato in cottura sino a dopo il 2000, quando venne archiviato, finirono l’ex fondatore della P2 Licio Gelli, l’estremista di destra Stefano Delle Chiaie, alcuni personaggi legati alla massoneria e alle cosiddette Leghe meridionali già finite sotto inchiesta ad Aosta, nel procedimento Phoney money. Partito a modello 45, il procedimento è rimasto per un lungo periodo senza indagati. Da una sua costola è nata l’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia.
La Boccassini contesta l’indagine originale anche in un altro passaggio del verbale: «Ricordo moltissime anomalie anche nel procedimento Sistemi criminali. Ad esempio, Marcello Dell’Utri non era iscritto, ma furono acquisiti i tabulati dei suoi telefoni cellulari».
Secondo la Boccassini, alla Procura di Palermo, nel 1995, tirava una brutta aria: «Il clima era pessimo, i colleghi non ci salutavano neppure. Ad esempio, Scarpinato, quando passava nei corridoi, non mi salutava. Solo in occasione della mia imminente partenza venne a dirmi che dovevo rimanere a Palermo perché doveva essere portato a termine il processo Andreotti».
Ma se la Boccassini è molto severa con Scarpinato, lo è meno con Pignatone, che ai tempi di Caselli era stato un po’ emarginato: «Era l’unico con il quale, all’epoca, avevo rapporti cordiali […], intendo dire che era l’unico con cui parlavo e scambiavo il saluto. Del resto, ai tempi di Duomo connection, fu proprio Giovanni Falcone a dirmi che avrei lavorato con il miglior sostituto che aveva».
Mentre risponde alle domande, nella mente di Ilda, come un flash, affiora un passaggio nevralgico del fascicolo 6613/94, la richiesta di arresto dell’ingegner Giovanni Bini, un manager del gruppo Ferruzzi in Sicilia che sarebbe stato certamente più proficuo sentire come testimone: «Ricordo che, una volta, ho letto una richiesta di misura cautelare e ho pensato che si trattasse di una richiesta suicida. Non rammento chi la avesse predisposta». La Procura gli mostra l’istanza nei confronti di Bini e la Boccassini si ritrova: «Non ricordo il contenuto esatto, ma rammento che effettivamente la misura cautelare era nei confronti di Bini».
Le ultime parole sono dedicate alla scelta di lasciare la Sicilia: «Io e Saieva decidemmo di andarcene perché non ci veniva consentito di lavorare, poiché tutto veniva concentrato sul processo Andreotti e su Sistemi criminali. Dovevo rimanere per un anno, ma sono tornata a Milano dopo sei mesi e anche Roberto Saieva tornò a Roma. Ho certamente sempre pensato che il fulcro delle indagini sulla Calcestruzzi (società del gruppo Ferruzzi in affari con i Buscemi, ndr) dovesse essere Palermo». Ma i pm di Palermo preferivano occuparsi dei fantomatici baci di Andreotti ai mafiosi e di andare a caccia di massoni e neofascisti, lasciando appassire il filone sui rapporti della mafia con le grandi aziende del Nord.
Sulla vicenda della richiesta di smagnetizzazione delle bobine e di distruzione dei brogliacci è stato sentito come testimone anche Guido Lo Forte, che con Pignatone e Natoli si è occupato delle indagini sui Buscemi e su Bonura, personaggi da cui, pure lui, aveva acquistato un appartamento. E anche in questa occasione è spuntato il nome di Scarpinato. De Luca ha contestato al teste un’intercettazione con il senatore grillino, il quale era già stato pizzicato a preparare con Natoli l’audizione di quest’ultimo in commissione Antimafia.
Insomma sembra che fare domande in autonomia sulle vicende palermitane sia un vizio del parlamentare del Movimento 5 stelle.
Lo Forte ha affermato che la smagnetizzazione avveniva «per una serie di motivi legati al budget, alla possibilità di riutilizzare le bobine» e ha ammesso di non essersi posto il problema della legittimità di quell’operazione: «La trovai come una prassi già instaurata da qualche tempo» ha sostenuto. De Luca smonta quest’asserzione. Infatti dal 1990 al 1996, su 60 pubblici ministeri in forza alla Procura, solo quattro (Pignatone, Natoli, Sergio Barbiera e Michele Prestipino) avrebbero fatto ricorso al modulo incriminato, utilizzandolo appena 24 volte.
A questo punto De Luca segnala a Lo Forte che molti colleghi della Dda hanno dichiarato di non avere «la più pallida idea di che cosa fosse questo prestampato» e, tra questi, Scarpinato, il quale, scaricando Natoli e Pignatone, avrebbe aggiunto, che comunque «non avrebbe mai firmato un documento del genere». Ed eccoci al disvelamento dell’intercettazione. De Luca spiega a Lo Forte: «Nel corso di una conversazione telefonica con lei il senatore Scarpinato ha manifestato un certo stupore per la locuzione “la distruzione dei brogliacci”». Quindi il procuratore rinfaccia a Lo Forte «tutti i particolari che sta fornendo oggi»: «Nel corso della conversazione con il senatore Scarpinato lei non ne ha parlato perché inizialmente lei non ricordava assolutamente nulla di questa faccenda, poi il senatore Scarpinato le dice che gli sembra strana ’sta vicenda dei brogliacci e le parla…». Lo Forte prova a resistere: «Ma io ricordo questi provvedimenti di smagnetizzazione…». E De Luca lo infilza: «Però nel corso della conversazione telefonica lei non ha mai detto di avere visto questi provvedimenti… a un certo punto non ricordava nulla… di avere visto questo prestampato, di averne firmato qualcuno, tutte queste cose non le dice nelle conversazioni che ha avuto con Scarpinato e con Natoli… cioè sta aggiungendo qui tutta una serie di particolari…».
In Procura Lo Forte ha dovuto spiegare anche come mai abbia acquistato pure lui un appartamento dall’immobiliare Raffaello: «Non mi diede un suggerimento Pignatone, (sono arrivato all’acquisto, ndr) autonomamente… è un caso, è stata una coincidenza», ha assicurato il magistrato in pensione.
E se, a Caltanissetta, Pignatone ha ammesso di avere corrisposto una parte del pagamento sottobanco, Lo Forte ha negato, sebbene il prezzo che aveva spuntato, secondo il consulente della Procura, fosse particolarmente conveniente (53 milioni di lire). Sul punto il testimone non sembra ricordare molto: «L’importo? 50 milioni o 70 milioni». Ma sul presunto «black» pare avere le idee più chiare: «No, in nero non credo… non c’è stata una parte pagata in nero».
Ma, come fa notare De Luca, nel rogito si legge che il pagamento sarebbe stato effettuato in contanti. Lo Forte ribatte che il notaio era di sua fiducia e che, tuttavia, aveva saldato in modo tracciabile: «Penso con assegni, anzi ricordo con assegni...». Il testimone non spiega, però, per quale ragione sia stata indicata nell’atto notarile una circostanza non veritiera e perché lui stesso abbia sottoscritto un documento che conteneva un dato falso che rappresentava, per un magistrato, l’aspetto più delicato.





