Maurizio Landini tace. Da quando alcuni dirigenti della Uil hanno denunciato di essere stati aggrediti da una squadraccia della Cgil, il segretario della principale confederazione sindacale si è inabissato.
Sempre pronto a denunciare i pericoli di un ritorno del fascismo, sempre in prima linea per manifestare nei confronti di qualsiasi popolo oppresso, cominciando ovviamente dai lavoratori sfruttati e maltrattati da un governo di centrodestra, Landini, all’improvviso, è scomparso dai radar. Un gruppo di attivisti della Fiom ha assaltato e picchiato i colleghi della Uilm (due sono finiti in ospedale) che non condividevano la protesta indetta dal sindacato guidato dal leader arrabbiato e il segretario della Confederazione generale italiana del lavoro è entrato in modalità «silenzio stampa».
Al capo della Uil non è giunta neppure una lettera di scuse. Agli aggrediti neppure una manifestazione di solidarietà dai sindacalisti rossi. Ufficialmente è come se l’aggressione nei confronti dei colleghi sindacalisti da parte di quelli dei metalmeccanici della Cgil non fosse mai avvenuta. Eppure, molti giornali ne hanno parlato anche perché gli aggrediti sono finiti in ospedale ed è anche stata presentata una denuncia, affinché il caso non finisca nel dimenticatoio.
Tuttavia, nonostante quanto accaduto sia assai grave e riguardi la vertenza per la sopravvivenza dell’Ilva, ovvero della più grande acciaieria italiana che - grazie all’inchiesta della magistratura - rischia di fallire, Landini di fatto non ha trovato il tempo di commentare. E neppure di prendere le distanze dai suoi. Il che significa solo una cosa, ovvero che il leader del principale sindacato italiano, per convenienza politica, ha imboccato una deriva pericolosa, che rischia di consegnare alcune frange della Cgil all’estremismo più violento.
Su queste pagine abbiamo più volte criticato il linguaggio radicale del segretario della Cgil. Non parliamo solo delle parole usate contro Giorgia Meloni, che venne definita una «cortigiana» di Donald Trump. Tempo fa Landini chiamò gli italiani alla «rivolta sociale», che in un Paese devastato da un terrorismo che ha provocato centinaia di morti non può certo essere lasciato passare come un invito a un pranzo di gala. «Rivolta» è un sostantivo femminile che sintetizza un «moto collettivo e violento di ribellione contro l’ordine costituito». Il significato non lascia dubbi: si parla di insurrezione, sommossa, rivoluzione. Insomma, si tratta di una chiamata se non alle armi quantomeno alla ribellione. Landini in pratica reclama una sollevazione popolare, con le conseguenze che si possono immaginare. Dunque, vedere un manipolo di squadristi rossi che dà la caccia a sindacalisti che su una vertenza la pensano in maniera diversa, suscita preoccupazione.
Pierpaolo Bombardieri, capo della Uil, ha parlato di metodi «terroristici», una definizione che mette i brividi soprattutto in un momento in cui l’Italia è percorsa da manifestazioni ed espressioni che proprio non si possono definire pacifiche. Mentre alla fiera di Roma dedicata ai libri si discute della presenza di un singolo editore non allineato con il pensiero di sinistra (per questo lo si vorrebbe cacciare), a Pietrasanta è comparso un invito a sparare a Giorgia, con la stella a 5 punte delle Br, e ovviamente non si parlava della cantante. Si capisce che sia nel linguaggio sia nelle manifestazioni è in atto un cambiamento e un inasprimento della lotta politica.
A questo punto Landini deve solo decidere da che parte stare. Se di qua o di là. Se con chi difende la democrazia e la diversità di opinione o con chi usa metodi violenti per affermare le proprie idee. Il silenzio non si addice a chi denuncia ogni giorno il ritorno del fascismo. Qui l’unico pericolo viene da sinistra. È a sinistra che si invoca la rivolta. Se Landini non vuole finire nella schiera dei cattivi maestri ha il dovere di parlare e di denunciare chi riesuma lo squadrismo. Con i compagni che sbagliano sappiamo tutti come è finita.
Caro Gianfranco Fini, le scrivo questa cartolina per festeggiare un avvenimento importante: il suo ritorno ad Atreju, la grande festa nazionale del mainstream meloniano. L’altro giorno quando ho letto sulla Stampa che lei si «è commosso per l’invito» perché viene da «giovani che vogliono capire il passato», mi sono commosso per la sua commozione.
«C’è una continuità in una comunità che si percepisce tale», ha chiosato con quel suo tono da vergine sapientina che è tornato ad esibire pure nelle sortite in tv. Poi ha aggiunto: «Il tempo è sempre galantuomo». E come darle torto? Il tempo è galantuomo. Infatti non lo si può svendere come fosse una casa a Montecarlo.
Ad Atreju lei sarà protagonista di un duello amarcord con Francesco Rutelli, una riedizione del confronto per le comunali di Roma del 1993, che, a suo dire, segnò la fine del «lungo dopoguerra» e l’inizio di «una destra con cultura di governo». Insomma, uno dei momenti più importanti per l’umanità dopo la scoperta del fuoco. Comunque, ci si creda o no, sarà bello vedervi sul ring come due anziani pugili che ricordano quando ancora riuscivano a saltare la corda e non avevano la testa suonata dai troppi knockout. Uno spettacolo imperdibile in una kermesse che fra Mara Venier e Luigi Di Maio, Gianluigi Buffon e Raoul Bova, Giuseppe Conte e Ezio Greggio, promette ricchi premi e cotillons per tutti. Figuriamoci se poteva mancare il siparietto delle vecchie glorie. Glorie, si fa per dire, ovviamente.
Comunque è giusto che i ragazzi giovani la conoscano. Gianfranco Fini, bolognese, 73 anni, già uomo di fiducia di Giorgio Almirante e poi di Giorgio Napolitano (un Giorgio vale l’altro evidentemente), prima segretario del Fronte della Gioventù, poi leader del Msi, poi fondatore e affondatore di Alleanza nazionale, alla fine decise di staccarsi dalla sua storia per fondare Futuro e Libertà, un partito senza futuro e con la libertà un po’ condizionata dai suoi procedimenti giudiziari, relativi alla casa di Montecarlo, una proprietà del partito finita a prezzi di favore nelle mani del cognato. Per quella vicenda s’è beccato una condanna per concorso in riciclaggio. Trent’anni parlamentare, europarlamentare, già ministro degli Esteri, vicepremier e presidente della Camera, ora s’atteggia a nuovo guru della destra. Evidentemente deve averci preso gusto: dopo aver riciclato i soldi, tenta di riciclare sé stesso.
«La destra è un albero che ha radici profonde», dice ancora, ispirato e commosso nel celebrare il suo ritorno ad Atreju. E chi se ne importa se quelle radici lei ha fatto di tutto per reciderle strizzando l’occhio ai salotti chic, cedendo sui temi etici, su quelli dell’immigrazione, spingendo per lo ius soli, appoggiando Monti, vagheggiando «la grande lista civica nazionale», inciuciando con Napolitano, tramando contro il centrodestra e svendendo un pezzo di patrimonio del partito per arricchire la famiglia della sua compagna Elisabetta Tulliani, una specie di Boccia che ce l’ha fatta. Che importa? Tutto questo sul palco di Atreju verrà dimenticato: lo show può iniziare, e lei potrà pavoneggiarsi come Buffalo Bill al circo Barnum senza che nessuno abbia il coraggio di dirle la verità. Che in realtà sta già scritta nel suo nome: c’era una volta Gianfranco. Poi Finì.
L’ostacolato e imbrogliato non si è sentito né ostacolato né imbrogliato. L’inchiesta della Procura di Milano per aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza nella scalata a Mediobanca riserva un colpo di scena davvero incredibile. La Consob, in un documento della divisione vigilanza, sostiene che «non sussiste il patto occulto» fra i soci Delfin e Caltagirone e neppure «sussiste il concerto» con Siena. Un’unità di intenti con la quale gli indagati avrebbero invece dovuto lanciare una costosa Opa obbligatoria su Piazzetta Cuccia. Il documento in cui la Consob esclude di essere vittima dei «concertisti» porta la data del 15 settembre scorso. Visto che il decreto di perquisizione degli indagati è del 15 novembre, ci sono due ipotesi: o la Procura ha in mano elementi di prova molto forti e che le sono «entrati» dopo il 15 settembre, oppure questi due pezzi dello Stato non si sono molto parlati, nonostante le norme sui reati finanziari prevedano ampia collaborazione.
Il documento della Consob è uscito ieri sul Sole 24 Ore e sembra, almeno per il momento, ribaltare il senso delle prime carte dell’inchiesta, è costata al Monte dei Paschi di Siena una perdita di 3,5 miliardi in Borsa in soli dieci giorni. Anche se in serata Consob e Procura hanno fatto trapelare sulle agenzie di stampa che continuano a collaborare, ciascuna nei propri ambiti di competenza.
Tutto inizia il 5 marzo, quando l’allora amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, firma una serie di esposti contro l’Ops lanciata da Monte Paschi su Piazzetta Cuccia. Nagel sottolineava quello che in fondo già era uscito su larga parte dei media come retroscena, ovvero che Delfin e Caltagirone «non essendo riusciti a mutare gli assetti di controllo e di governance né di Mediobanca né di Generali (controllata con solo il 13%, ndr) negli ultimi tre anni», aveva messo in campo «un’azione concertata con e su Mps». È appena il caso di ricordare che il Tesoro, che non è indagato a Milano, è ancora il primo azionista di Rocca Salimbeni dopo che per risanare l’ex banca dei «compagni» sono stati spesi oltre 10 miliardi dei contribuenti.
Consob si prende sei mesi per fare le sue verifiche e alla fine mette nero su bianco che non ci sono anomalie o violazioni di legge. In un passaggio del documento finale, si legge che «nessuna delle condotte riferite da Mediobanca - per altro non supportate da evidenze probatorie di alcun genere - è parsa essere caratterizzata da profili di criticità o allarme». E in assenza di indizi «gravi, precisi e concordanti» che possano provare un’azione di concerto tra Delfin, Caltagirone e il Mef «attuata anche tramite Mps», Consob respinge l’accusa di Mediobanca che gli sfidanti abbiano operato in pieno accordo. Se, appunto, alla Consob non è sfuggito qualcosa che invece la Procura sa, come potrebbero essere testimonianze dirette e intercettazioni telefoniche dei manager coinvolti ancora coperte da segreto, risulta complicato andare a un processo in cui la stessa Consob oggi faticherebbe a considerarsi parte lesa. Oltre al fatto che al 15 settembre Consob non avesse in mano tutte le notizie che aveva la Guardia di finanza, non si può neppure escludere, almeno astrattamente, che la Consob in questi due mesi e mezzo abbia cambiato idea.
Certo, dopo le rivelazioni apparse sul Sole 24 Ore si apre anche un piccolo giallo sui tempi dell’inchiesta penale. Per quel che è noto, l’indagine che ha colpito Mps e i presunti «concertisti» sarebbe nata da un editoriale di Osvaldo De Paolini pubblicato sul Giornale del 23 gennaio 2025 intitolato Il voto di scambio in Mediobanca, schierato sulle posizioni di Francesco Gaetano Caltagirone e degli eredi Del Vecchio. Nelle settimane seguenti, Nagel presenta denuncia per diffamazione aggravata contro quell’articolo. È il cavallo di Troia atteso da mesi per portare la difesa di Piazzetta Cuccia in mano ai pm. Solo che i tempi della giustizia sono più lenti di quelli del mercato.
L’offerta su Mediobanca si conclude a settembre con l’86,3% di adesioni. Siamo ben oltre le quote possedute dagli odierni indagati ed evidentemente il famoso mercato non deve essersi commosso più di tanto per l’improvvisa battaglia «di libertà» di chi aveva comandato per anni su mezza Piazza Affari con patti di sindacato bizantini, costruiti su pacchetti dello zero virgola.
Il calendario della disfida intorno a Piazzetta Cuccia va quindi riscritto: a febbraio inizia l’inchiesta dei pm milanesi (il 25 febbraio ricevono la prima informativa della Finanza); il 5 marzo la Consob indaga sull’esposto di Mediobanca; il 14 luglio inizia regolarmente l’Ops di Monte Paschi, che si conclude il 15 settembre; quello stesso giorno la Consob esclude che ci siano irregolarità; il 22 settembre, dopo una settimana supplementare di adesioni, si conclude l’Ops. Due mesi dopo, arrivano le perquisizioni e il sequestro di computer e telefoni cellulari.
In realtà, forse un po’ tutta la storia del risiko bancario andrebbe riscritta, cominciando dalla variabile Unicredit.
Nel documento della Consob c’è un passaggio in cui si sposano le spiegazioni offerte da Luigi Lovaglio, amministratore delegato di Mps, che racconta come la prima opzione della sua banca fosse l’alleanza con Banco Bpm. Solo che a fine novembre 2024, quando l’Unicredit di Andrea Orcel tagliò la strada alla nascita del terzo polo bancario, come ricorda Lovaglio, «divenne praticamente obbligata, in quel contesto, la scelta di perseguire l’unica opzione alternativa possibile, ossia l’integrazione con Mediobanca». Insomma, ognuno aveva le sue motivazioni, per marciare su Piazzetta Cuccia.
Non a caso, la Consob ha ricostruito i desiderata di Mps nel corso del tempo. Prima, ha pensato all’opzione stand alone, con vendite progressive di quote sul mercato da parte del Tesoro (che partiva dal 64%). Poi ha pensato a fusioni tra simili come Bper o Bpm. Quindi ha ripiegato su Mediobanca, nonostante fosse una banca molto diversa. Lovaglio ha rivelato alla Consob che quest’ultima operazione è stata prospettata allo stesso Nagel già nell’estate del 2024, a riprova che era un’operazione «industriale».
Salvatore Priola, presbitero della chiesa di Palermo dal 1996, ha insegnato antropologia filosofica e antropologia della religione alla pontificia facoltà teologica di Sicilia, e per le edizioni Pozzo di Giacobbe ha pubblicato un libro molto potente intitolato La consegna, una profonda riflessione sul ruolo dei cristiani nella vita pubblica.
Il suo saggio sembra prendere le mosse da una affermazione di Divo Barsotti che dice in sostanza: sembra che i cristiani si vergognino di rendere testimonianza della loro fede.
«Don Divo lo diceva già un po’ di anni fa, da un po’ di tempo ci metteva in guardia dal rischio di vivere un cristianesimo talmente anonimo da non essere più nemmeno percepito, nemmeno più colto in nessuna delle sue espressioni. Nelle sue forme non tanto religiose - questo in molte parti d’Italia e in giro per l’Europa ancora è possibile - quanto culturali. Quell’avvertimento dato da don Divo a me oggi pare molto attuale».
Più che un rischio è una certezza. Certe posizioni oggi appaiono insostenibili, indicibili.
«Oggi sembra quasi che nell’agorà culturale chi si presenta con l’etichetta di cristiano, cattolico in modo particolare, abbia una sorta di aggravio in partenza nel farsi accettare per ciò che esprime, per quello che sostiene, per il pensiero che vuole portare quale contributo al dialogo sul piano sociale, culturale, civile. Insomma, c’è una sorta di aggravio in partenza per potersi accreditare al pari di tutte le altre voci».
Nei mesi scorsi abbiamo parlato molto di Charlie Kirk, uno che certo non si vergognava delle sue idee. Eppure oggi se un politico italiano parlasse come lui avrebbe probabilmente molte difficoltà persino in ambito conservatore.
«Sì, penso che questo sia vero, ma la fatica la fa anche oggi la Chiesa quando si tratta di uscire un pochino più allo scoperto e dare forza a quelle figure coraggiose che giustamente richiedono legittimo spazio per poter portare il proprio contributo di idee, che poi sono idee maturate alla scuola del Vangelo, maturate nell’orizzonte di fede. Io credo che da Kirk, qualcosa da imparare l’abbiamo: nel metodo e nel merito. Quantomeno il coraggio di osare, di varcare certe soglie, di attraversare certe porte, che anche nel recente passato sono state chiuse. Voglio ricordare quello che capitò persino al grande pontefice Benedetto XVI, all’Università La Sapienza di Roma, e si trattava giusto della punta dell’iceberg. Situazioni del genere oggi se ne registrano un po’ dovunque. Ecco: osare, andare oltre il proprio giardino per provare a intavolare una discussione, un confronto nel cortile di qualcun altro credo ci aiuterebbe a crescere, a migliorare, a mettere a fuoco nuovi orizzonti».
La sensazione è che la Chiesa oggi venga accettata quando si comporta da grande associazione umanitaria. Ma appena c’è la fede di mezzo sorgono i problemi.
«Se la Chiesa si esprime dal punto di vista sociale, umanitario, è chiaro che trova un terreno più semplice, più disponibilità. Nel momento in cui la Chiesa assolve pienamente alla sua missione, che è quella di annunciare il Vangelo, di testimoniare Gesù Cristo, di offrire il bene della salvezza a ogni uomo e ogni donna che intercetta nel percorso della propria missione, lì cominciano a sorgere le difficoltà, le obiezioni, le ostilità, le inimicizie. E si ripresentano sotto nuove vesti, a volte anche molto subdole, forme di persecuzione, di rifiuto e di pregiudizi che vogliono silenziarla e metterla da parte. La Chiesa, io credo, oggi deve avere la capacità e il coraggio non solo di conservare la fede ma di fare la differenza, senza paure, senza tentennamenti, anche a costo di rischiare qualcosa».
C’è forse chi pensa che adeguarsi un po’ all’onda mediatica e culturale prevalente - in sostanza stare un po’ di più in sintonia col mondo - possa pagare.
«Beh sì, questo probabilmente ha un ritorno. Ma sono quelle forme di ritorno in linea con la logica del mondo, che oggi paga e domani non paga. Oggi c’è una linea, c’è un vento che ti gonfia le vele, domani quel vento finisce. Le vele della barca della Chiesa, per usare un’immagine molto antica e sempre attuale, le gonfia lo spirito di Dio, non le gonfiano le correnti ideologiche, di pensiero, culturali e i fattori sociali che possono in questo momento offrire un ritorno e un credito. Le vele della Chiesa le gonfia lo spirito di Dio e la Chiesa deve restare in ascolto dello spirito per restare fedele a Cristo e al Vangelo, perché è l’unica fedeltà che gli è richiesta dentro le pieghe della storia di questo mondo. Gesù ai suoi ha detto chiaramente che sarebbero stati nel mondo ma non del mondo e questa preposizione articolata ogni tanto bisogna distinguerla più chiaramente, perché a far confusione ci vuole poco»
Nel libro lei sostiene che ci vorrebbe un wokismo cristiano. Che cosa intende? Il termine wokismo non evoca belle sensazioni...
«È il titolo di un paragrafo che ho voluto chiamare così provocatoriamente. Parlo di un wokismo delle famiglie cristiane in realtà. Questa è la spinta che mi piacerebbe dare alle famiglie che ancora si definiscono cristiane cattoliche: la spinta a svegliarsi, nel senso proprio del termine, e a riappropriarsi del loro ruolo pedagogico, educativo, culturale, formativo, prendendo in mano la vita della famiglia e dei figli in modo particolare, perché non finiscano nelle mani di chi li vorrebbe invece “svegliati” ma in un modo totalmente inaccettabile per noi cristiani. Usare quel termine per me è stato risignificarlo in ambito e in chiave cristiana: bisogna risvegliarsi per riappropriarsi di quelle che sono le specificità della formazione cristiana che le famiglie devono dare ai propri figli. Senza delegarle e lasciarle nelle mani di chi poi interviene a modificare persino le radici culturali delle persone».
Sa che oggi questo tema è molto dibattuto. Si parla di educazione sentimentale nelle scuole, e poi c’è stato il caso della famiglia del bosco.
«Dobbiamo stare molto attenti. Esistono casi di famiglie inadeguate - pericolosamente inadeguate - a garantire i diritti dei minori e quindi la sicurezza, la salute, l’istruzione, la formazione, la cronaca ce lo testimonia in tante circostanze. Tuttavia io sono dell’idea che nessuno abbia il diritto di prevaricare le scelte che ogni famiglia fa nel formarsi dal punto di vista sociale, civile, culturale. E su questo nessuna delega, secondo me, va data ad alcuno in maniera cieca. Per questo motivo io sottolineo l’importanza del fatto che le famiglie svolgano appieno il loro ruolo educativo. Se si delega questo ruolo ad altri, il rischio è che intervengano con pregiudiziali ideologiche e orientino le nuove generazioni in una direzione altra, a volte addirittura opposta, a quella che sta alla matrice della genesi della famiglia stessa. Per cui, o che sia cristiana, che sia musulmana, che sia atea, agnostica, quale che siano le ragioni che hanno visto nascere una famiglia, io credo che quella famiglia abbia il diritto di educare e formare i figli secondo le ragioni che l’hanno fatta venire alla luce. È chiaro che poi ci vuole una vigilanza da parte delle istituzioni laddove si riscontrino oggettivi elementi che possono compromettere l’equilibrio soprattutto dei minori».
Oggi però le influenze esterne sono tante e forti. Si comincia ad accanirsi con la famiglia nel bosco, poi magari si passa ad altri anche apparentemente meno strambi.
«A volte il passaggio è molto semplice da fare. Laddove la valutazione, il giudizio è pregiudicato da visioni ideologiche, è chiaro che tutto quello che non si confà al modo di vedere o di sentire della maggioranza rischia di diventare tra strano, anomalo, inaccettabile. Il pericolo è che l’omologazione allo stile della maggioranza finisca per mortificare le specificità, le caratteristiche che sono proprie di chi magari ha un altro progetto di vita. Differente, forse, ma non per questo di per sé negativo».
Nel suo libro lei parla spesso di combattimento. A che si riferisce?
«Tutta la prima parte è dedicata al combattimento. Come mi premuro di chiarire, il combattimento non è mai contro gli altri ma è sempre in sé stessi. Noi siamo chiamati a fare guerra al nemico peggiore che abbiamo nella nostra vita, che è il nostro ego autoreferenziale, autocentrato, superbo, arrogante, che rischia di condizionare tutto e tutti. Dobbiamo tornare a padroneggiare le nostre esistenze. Cristianamente noi diciamo che è la Signoria di Cristo, la Regalità di Cristo che deve aiutarci, sostenerci, guidarci, illuminarci nell’essere padroni di noi stesso, nel dominarci. Il combattimento spirituale mira a riappropriarsi della propria autentica libertà di figlio di Dio. Per questo bisogna battagliare contro tutto ciò che in un modo o nell’altro ti vuole incatenare a un vizio, una debolezza. Contro tutto quello che ti vuole fare arrendere, alzare bandiera bianca di fronte alle fragilità che sperimenti nel cammino della tua vita. Per dire che la vita cristiana non è una passeggiata al Luna Park per nessuno, né per il Papa, né per i Vescovi, né per un prete come me, né per un laico. Gesù lo ha detto: la vita cristiana è combattimento, chi vuol venire dietro a me, dice Cristo, rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Questa è vita cristiana».






