Il Viminale aveva espulso Mohamed Shahin, considerato un «pericolo per lo Stato»: disse di «essere d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre in Israele». La Corte d’Appello di Torino lo fa uscire dal Centro di rimpatrio e gli dà un permesso... premio.
In Germania hanno appena sgominato una cellula che pianificava un attentato tipo quello ai mercatini di Natale di Berlino, quando nel 2016 un tunisino giunto in Italia sui barconi fece secche 16 persone e ne ferì 56 zigzagando con un Tir in mezzo alla folla. A Sydney invece domenica altri due islamici hanno fatto tirassegno sulla spiaggia, ammazzando 15 ebrei che celebravano la festa delle luci. Tuttavia, nonostante questi episodi inquietanti, la Corte d’Appello ha deciso di rimettere in libertà l’imam di Torino che si dichiarava d’accordo con la strage del 7 ottobre del 2023 e che a proposito del massacro di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 da parte di Hamas ritiene che non si debba parlare di «violenza». Mohammad Shahin secondo i giudici non può essere trattenuto nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta, perché le sue frasi sarebbero protette dalla libertà di parola e poi perché nel Cpr le condizioni sarebbero pessime. Tutto ciò mentre il Global Terrorism Index 2025 segnala che in Europa si concentra il 50 per cento delle vittime a livello mondiale, con attacchi raddoppiati in Germania, Svezia, Paesi Bassi, Svizzera e Finlandia, la maggior parte dei quali collegati allo Stato islamico, organizzazione che, benché non se ne parli, è tutt’ora viva e in attività.
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
Secondo un sondaggio condotto da Youtrend per Skytg24, solo il sette per cento degli italiani è disposto a un maggior sostegno dell’Ucraina, considerando anche l’invio di truppe. Il 26 per cento sarebbe orientato a continuare a mandare armi e fondi, ma escludendo la partecipazione al conflitto dei nostri militari. In totale, un italiano su tre si dichiara determinato ad aiutare Kiev contro l’invasione russa. Il problema è che il 38 per cento pensa che il nostro Paese invece dovrebbe assumere un atteggiamento neutrale, interrompendo sia il flusso di finanziamenti che l’invio di materiale bellico. E gli altri italiani che cosa pensano? Una parte, cioè il 12 per cento, non sa e non si sbilancia, ma il 17 per cento ritiene che si debba continuare a fornire un aiuto economico alla popolazione, ma senza mandare altre armi. Se si somma la percentuale di chi vorrebbe un’Italia che si chiama fuori con quanti invece pensano che sia ora di interrompere le forniture belliche, si capisce che più del 50 per cento delle persone non è disposta né a morire per Kiev ma neppure a combattere, soprattutto dopo che le recenti inchieste per corruzione hanno intaccato l’immagine dello stesso Volodymyr Zelensky e del suo cerchio magico.
Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
I commissari europei per gli Affari esteri sono sempre state figure irrilevanti nello scenario globale. Pur rappresentando quasi mezzo miliardo di persone e 27 Paesi, tra cui alcune delle principali economie mondiali, il loro parere conta meno di zero.
Non parlo di Federica Mogherini, un peso piuma dei rapporti internazionali che solo ora - a causa dell’inchiesta che ha portato al suo fermo giudiziario - è riemersa dal limbo in cui era confinata dopo la fine della sua carriera politica. No, penso anche a Lady Ashton o Josep Borrell, il predecessore dell’attuale commissario Kaja Kallas: di loro, del loro ruolo nelle diverse crisi che si sono succedute, non resta traccia.
Tuttavia, credo che in fatto di ininfluenza, e soprattutto di incapacità di guardare in faccia la realtà, la donna che oggi si occupa delle relazioni Ue nel mondo superi chiunque l’ha preceduta. Figlia d’arte, perché il padre fu un politico che traghettò l’Estonia dal comunismo all’ingresso nella Ue, lei stessa in passato alla guida del suo Paese, la Kallas è stata indicata da Tallin nella Commissione europea, con l’incarico di rappresentare la Ue nel mondo. Peccato che spesso dimostri di non capire molto di diplomazia e neppure di equilibri internazionali. Ne ha dato prova più volte, anche durante il periodo più complicato dei rapporti tra Ue e Stati Uniti, quando Donald Trump impose i dazi. Tuttavia, la Kallas si supera quando parla di Russia, come ha fatto in questi giorni concedendo un’intervista al Corriere della Sera. Volendo inserirsi nel dibattito sulla difficile trattativa per giungere a un cessate il fuoco in Ucraina, l’alto rappresentante per la politica estera e per la sicurezza comune dell’Unione europea, ha spiegato che per garantire la pace occorre limitare l’esercito russo e contenere il budget militare di Mosca. Ovvio, se vuoi impedire a un Paese di minacciare quelli che lo circondano devi proibirgli di armarsi fino ai denti. È quello che è successo alla fine della Seconda guerra mondiale con la Germania e il Giappone. A entrambi i Paesi fu negata la possibilità di avere un esercito organizzato e anche di possedere la bomba atomica. Ma si dà il caso che sia Berlino che Tokyo fossero stati sconfitti e dunque, insieme alle sanzioni di guerra alle due ex superpotenze economiche e militari, i vincitori imposero misure ferree.
Peccato che la Russia non sia stata sconfitta. Non dico che abbia vinto la guerra, ma di certo non l’ha persa. Dunque, come si fa a imporre delle sanzioni a chi in questo momento si sente forte e a cui si chiede di cessare il fuoco? Come si può ottenere di limitare esercito o budget militare di un Paese che ritiene di essere in grado di continuare la guerra e raggiungere i suoi scopi? Anche un bambino capirebbe che non ci sono le condizioni per pretendere di sedersi a un tavolo di pace imponendo delle sanzioni. Siccome io non penso che Kaja Kallas non sia in grado di comprendere ciò che è chiaro a un ragazzino di prima media, penso che l’alto rappresentante degli Affari esteri della Ue semplicemente non voglia raggiungere alcuna intesa con Mosca. E la capisco anche. Tutti i Paesi baltici, Estonia dunque compresa, hanno una fifa blu di Putin. Avendo conosciuto il comunismo, sanno che non ci si può fidare e soprattutto vorrebbero che la Russia fosse sconfitta una volta per tutte per consentire a loro di vivere tranquilli. Ma sconfiggere una potenza nucleare, per quanto indebolita, non è la cosa più semplice del mondo e anzi si rischia di far scoppiare una guerra peggiore di quella che i Paesi baltici vorrebbero evitare. I politici lituani, estoni, lettoni, insieme a quelli polacchi e ucraini non vogliono tornare sotto il tallone di Mosca e si comprende il perché. Però capisco anche la maggioranza degli italiani che non vuole finire nel mezzo di una guerra con la Russia. Hai voglia a dirgli che si deve scegliere tra libertà e aria condizionata, come spiegò Mario Draghi o, come di recente ha chiarito Sergio Mattarella al corpo diplomatico, che «c’è bisogno di una pace equa, giusta e duratura, rispettosa del diritto internazionale, dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Se questo significa armarsi e partire, credo che gran parte dei cittadini del nostro Paese non sia né pronto né d’accordo.
Gli ucraini, con gli estoni, i lettoni, i lituani, i polacchi e i finlandesi vorrebbero che la Nato, ma soprattutto l’Europa, sconfiggesse la Russia, così da renderla inoffensiva. Però questo, appunto, vorrebbe dire entrare in guerra, con ciò che consegue. Sono gli ex Paesi dell’Est, rappresentati da politici tipo la Kallas, insieme ad alcuni «volenterosi» in crisi di consenso, a spingerci verso un conflitto. Uno scontro tra Europa e Russia significherebbe l’inizio di una nuova guerra mondiale, che coinvolgerebbe giocoforza gli alleati di Putin. Un rischio che non è così lontano, perché a forza di giocare con il fuoco, come dimostra la storia passata, un conflitto può scoppiare senza che quasi nessuno lo abbia deciso. È quello che è successo nel 1915 e a innescare la guerra bastò un casus belli come l’omicidio dell’erede al trono austro-ungarico. Dunque, io andrei piano con l’idea di battere la Russia e minacciare un intervento della Nato o dell’Europa. Così come ci penserei bene prima di usare i fondi congelati di Mosca per finanziare Kiev e acquistare altre armi. Perché di un conflitto si conosce l’inizio, ma quando si entra in guerra nessuno sa quale sarà la fine. Soprattutto, è impossibile prevedere se vinceranno gli aggrediti o gli aggressori, i buoni o i cattivi.





