Secondo un sondaggio condotto da Youtrend per Skytg24, solo il sette per cento degli italiani è disposto a un maggior sostegno dell’Ucraina, considerando anche l’invio di truppe. Il 26 per cento sarebbe orientato a continuare a mandare armi e fondi, ma escludendo la partecipazione al conflitto dei nostri militari. In totale, un italiano su tre si dichiara determinato ad aiutare Kiev contro l’invasione russa. Il problema è che il 38 per cento pensa che il nostro Paese invece dovrebbe assumere un atteggiamento neutrale, interrompendo sia il flusso di finanziamenti che l’invio di materiale bellico. E gli altri italiani che cosa pensano? Una parte, cioè il 12 per cento, non sa e non si sbilancia, ma il 17 per cento ritiene che si debba continuare a fornire un aiuto economico alla popolazione, ma senza mandare altre armi. Se si somma la percentuale di chi vorrebbe un’Italia che si chiama fuori con quanti invece pensano che sia ora di interrompere le forniture belliche, si capisce che più del 50 per cento delle persone non è disposta né a morire per Kiev ma neppure a combattere, soprattutto dopo che le recenti inchieste per corruzione hanno intaccato l’immagine dello stesso Volodymyr Zelensky e del suo cerchio magico.
Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
I commissari europei per gli Affari esteri sono sempre state figure irrilevanti nello scenario globale. Pur rappresentando quasi mezzo miliardo di persone e 27 Paesi, tra cui alcune delle principali economie mondiali, il loro parere conta meno di zero.
Non parlo di Federica Mogherini, un peso piuma dei rapporti internazionali che solo ora - a causa dell’inchiesta che ha portato al suo fermo giudiziario - è riemersa dal limbo in cui era confinata dopo la fine della sua carriera politica. No, penso anche a Lady Ashton o Josep Borrell, il predecessore dell’attuale commissario Kaja Kallas: di loro, del loro ruolo nelle diverse crisi che si sono succedute, non resta traccia.
Tuttavia, credo che in fatto di ininfluenza, e soprattutto di incapacità di guardare in faccia la realtà, la donna che oggi si occupa delle relazioni Ue nel mondo superi chiunque l’ha preceduta. Figlia d’arte, perché il padre fu un politico che traghettò l’Estonia dal comunismo all’ingresso nella Ue, lei stessa in passato alla guida del suo Paese, la Kallas è stata indicata da Tallin nella Commissione europea, con l’incarico di rappresentare la Ue nel mondo. Peccato che spesso dimostri di non capire molto di diplomazia e neppure di equilibri internazionali. Ne ha dato prova più volte, anche durante il periodo più complicato dei rapporti tra Ue e Stati Uniti, quando Donald Trump impose i dazi. Tuttavia, la Kallas si supera quando parla di Russia, come ha fatto in questi giorni concedendo un’intervista al Corriere della Sera. Volendo inserirsi nel dibattito sulla difficile trattativa per giungere a un cessate il fuoco in Ucraina, l’alto rappresentante per la politica estera e per la sicurezza comune dell’Unione europea, ha spiegato che per garantire la pace occorre limitare l’esercito russo e contenere il budget militare di Mosca. Ovvio, se vuoi impedire a un Paese di minacciare quelli che lo circondano devi proibirgli di armarsi fino ai denti. È quello che è successo alla fine della Seconda guerra mondiale con la Germania e il Giappone. A entrambi i Paesi fu negata la possibilità di avere un esercito organizzato e anche di possedere la bomba atomica. Ma si dà il caso che sia Berlino che Tokyo fossero stati sconfitti e dunque, insieme alle sanzioni di guerra alle due ex superpotenze economiche e militari, i vincitori imposero misure ferree.
Peccato che la Russia non sia stata sconfitta. Non dico che abbia vinto la guerra, ma di certo non l’ha persa. Dunque, come si fa a imporre delle sanzioni a chi in questo momento si sente forte e a cui si chiede di cessare il fuoco? Come si può ottenere di limitare esercito o budget militare di un Paese che ritiene di essere in grado di continuare la guerra e raggiungere i suoi scopi? Anche un bambino capirebbe che non ci sono le condizioni per pretendere di sedersi a un tavolo di pace imponendo delle sanzioni. Siccome io non penso che Kaja Kallas non sia in grado di comprendere ciò che è chiaro a un ragazzino di prima media, penso che l’alto rappresentante degli Affari esteri della Ue semplicemente non voglia raggiungere alcuna intesa con Mosca. E la capisco anche. Tutti i Paesi baltici, Estonia dunque compresa, hanno una fifa blu di Putin. Avendo conosciuto il comunismo, sanno che non ci si può fidare e soprattutto vorrebbero che la Russia fosse sconfitta una volta per tutte per consentire a loro di vivere tranquilli. Ma sconfiggere una potenza nucleare, per quanto indebolita, non è la cosa più semplice del mondo e anzi si rischia di far scoppiare una guerra peggiore di quella che i Paesi baltici vorrebbero evitare. I politici lituani, estoni, lettoni, insieme a quelli polacchi e ucraini non vogliono tornare sotto il tallone di Mosca e si comprende il perché. Però capisco anche la maggioranza degli italiani che non vuole finire nel mezzo di una guerra con la Russia. Hai voglia a dirgli che si deve scegliere tra libertà e aria condizionata, come spiegò Mario Draghi o, come di recente ha chiarito Sergio Mattarella al corpo diplomatico, che «c’è bisogno di una pace equa, giusta e duratura, rispettosa del diritto internazionale, dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Se questo significa armarsi e partire, credo che gran parte dei cittadini del nostro Paese non sia né pronto né d’accordo.
Gli ucraini, con gli estoni, i lettoni, i lituani, i polacchi e i finlandesi vorrebbero che la Nato, ma soprattutto l’Europa, sconfiggesse la Russia, così da renderla inoffensiva. Però questo, appunto, vorrebbe dire entrare in guerra, con ciò che consegue. Sono gli ex Paesi dell’Est, rappresentati da politici tipo la Kallas, insieme ad alcuni «volenterosi» in crisi di consenso, a spingerci verso un conflitto. Uno scontro tra Europa e Russia significherebbe l’inizio di una nuova guerra mondiale, che coinvolgerebbe giocoforza gli alleati di Putin. Un rischio che non è così lontano, perché a forza di giocare con il fuoco, come dimostra la storia passata, un conflitto può scoppiare senza che quasi nessuno lo abbia deciso. È quello che è successo nel 1915 e a innescare la guerra bastò un casus belli come l’omicidio dell’erede al trono austro-ungarico. Dunque, io andrei piano con l’idea di battere la Russia e minacciare un intervento della Nato o dell’Europa. Così come ci penserei bene prima di usare i fondi congelati di Mosca per finanziare Kiev e acquistare altre armi. Perché di un conflitto si conosce l’inizio, ma quando si entra in guerra nessuno sa quale sarà la fine. Soprattutto, è impossibile prevedere se vinceranno gli aggrediti o gli aggressori, i buoni o i cattivi.
John Elkann sta smantellando pezzo dopo pezzo quello che era il più grande impero industriale privato del Paese, portando le produzioni automobilistiche all’estero. Mentre a Pomigliano d’Arco si sospende la produzione della Panda e della Tonale, Stellantis - questo il nome assunto dopo la fusione con Peugeot e di cui l’erede di casa Agnelli è presidente - produce veicoli a marchi Fiat in Marocco, Serbia, Algeria, Polonia, per non parlare delle Jeep negli Usa. Ieri sera ha pure ricevuto un’offerta miliardaria per la Juve. Tuttavia, di fronte a questa fuga dall’Italia, la sinistra pare indifferente. Né il Pd né la Cgil hanno fatto un plissé leggendo il racconto dell’operaio che ha dovuto trasferirsi da Pomigliano a Kragujevac, 140 km da Belgrado ovvero 1.600 km da casa, per non finire in cassa integrazione. Eppure, sono un centinaio i dipendenti che hanno scelto di accettare l’offerta dell’azienda pur di poter contare su uno stipendio pieno. E zero commenti si sono registrati a sinistra quando la stessa Stellantis ha inviato una lettera ai fornitori italiani invitandoli a traslocare le loro aziende in Marocco, dove il gruppo ha avviato una fiorente attività producendo, tra le altre, la Topolino.
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.





