Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…
John Elkann sta smantellando pezzo dopo pezzo quello che era il più grande impero industriale privato del Paese, portando le produzioni automobilistiche all’estero. Mentre a Pomigliano d’Arco si sospende la produzione della Panda e della Tonale, Stellantis - questo il nome assunto dopo la fusione con Peugeot e di cui l’erede di casa Agnelli è presidente - produce veicoli a marchi Fiat in Marocco, Serbia, Algeria, Polonia, per non parlare delle Jeep negli Usa. Ieri sera ha pure ricevuto un’offerta miliardaria per la Juve. Tuttavia, di fronte a questa fuga dall’Italia, la sinistra pare indifferente. Né il Pd né la Cgil hanno fatto un plissé leggendo il racconto dell’operaio che ha dovuto trasferirsi da Pomigliano a Kragujevac, 140 km da Belgrado ovvero 1.600 km da casa, per non finire in cassa integrazione. Eppure, sono un centinaio i dipendenti che hanno scelto di accettare l’offerta dell’azienda pur di poter contare su uno stipendio pieno. E zero commenti si sono registrati a sinistra quando la stessa Stellantis ha inviato una lettera ai fornitori italiani invitandoli a traslocare le loro aziende in Marocco, dove il gruppo ha avviato una fiorente attività producendo, tra le altre, la Topolino.
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
È ufficiale: Maurizio Landini, ossia colui che da tempo prova a paralizzare l’Italia rivendicando fantasiose scelte di politica economica, parla di tasse e redditi senza sapere nulla di tasse e redditi.
Pur di giustificare l’ennesima manifestazione a ridosso del fine settimana (senza weekend i cortei andrebbero deserti), in un’intervista concessa a Repubblica il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero di oggi con una serie di balle, inventando di sana pianta numeri a sostegno delle sue tesi. Cominciamo dalla magica soluzione con cui lui risolverebbe il problema delle risorse finanziarie per aumentare i redditi di lavoratori e pensionati. L’idea è la solita vecchia trovata della patrimoniale, che però Landini non applicherebbe sulla proprietà, ma sui redditi. «Chiediamo al governo di introdurre un contributo di solidarietà (meglio non chiamarla tassa, è poco carino, ndr) dell’1,3 per cento su 500.000 italiani con redditi netti annui sopra i due milioni: vale 26 miliardi».
Immagino che il segretario della Cgil abbia fatto i conti prevedendo redditi lordi intorno ai quattro milioni, perché un prelievo dell’1,3 per cento su redditi netti da due milioni applicato a 500.000 italiani dà esattamente la metà di quel che stima Landini. Ma il tema non è se il leader del principale sindacato abbia calcolato il contributo di solidarietà al netto o al lordo dello stipendio. Il problema è che in Italia non esistono 500.000 italiani che percepiscano né due né quattro milioni l’anno. Non so chi abbia raccontato questa balla al segretario, ma basta consultare le tabelle ministeriali per fasce di contribuenti per scoprire che nel nostro Paese a dichiarare più di 300.000 euro lordi (ossia meno di un decimo di quanto Landini vorrebbe tassare) sono 59.533 italiani, ovvero all’incirca un ottavo dei 500.000 a cui il leader Cgil vorrebbe prelevare l’1,3 per cento. Le statistiche del ministero non rivelano quanti siano i contribuenti che percepiscono quattro milioni lordi l’anno, ma basta girare la domanda a Chatgpt per vedersi rispondere che la fascia di chi si mette in tasca ogni anno due milioni netti è «una sottoclasse molto piccola di quella già piccolissima dei redditi molto elevati». Vado al sodo: se gli italiani che guadagnano 300.000 euro lordi sono meno di 60.000, a incassare quattro milioni saranno, forse, centinaia di persone. Dunque, la mirabolante soluzione di Landini è una «supercazzola» che, se introdotta, sarebbe un super flop, perché non porterebbe mai agli introiti da lui immaginati.
Ma Landini inanella anche altre sciocchezze degne di nota. Innanzitutto intima al governo di restituire 25 miliardi di tasse pagate da 38 milioni di lavoratori negli ultimi tre anni (guarda caso sono proprio gli anni in cui governa Giorgia Meloni: si vede che prima, pensionati e lavoratori non erano soggetti a scippi). Come spiega spesso numeri alla mano Alberto Brambilla, fondatore di «Itinerari previdenziali», centro di ricerca che si occupa di pensioni e redditi, il 43 per cento degli italiani non paga l’Irpef e il 12 per cento versa 26 euro. Dunque, dove stanno questi 38 milioni (i contribuenti in Italia sono 42 milioni) a cui sono stati scippati 25 miliardi? Nella fantasia del segretario. Il quale parla degli effetti del drenaggio fiscale, ma, come ha ben spiegato giorni fa il nostro Giuseppe Liturri, una recente ricerca della Bce ha dimostrato come le riforme fiscali del 2022-2023, unitamente alla riduzione dei contributi sociali, hanno quasi completamente azzerato il prelievo fiscale sui salari che viene applicato per effetto dell’aumento delle retribuzioni, con l’applicazione di aliquote più elevate. Anche qui lo dicono i numeri, quindi le decine di miliardi che sarebbero state sottratte a pensionati e lavoratori e di cui Landini chiede la restituzione sono un’altra super balla, perché dal 2022 l’aumento dei salari reali ha superato l’inflazione cumulata nello stesso periodo. Insomma, niente di quel che il segretario rivendica corrisponde al vero. Dunque, perché cerca di trascinare in piazza pensionati e lavoratori? Per difendere il suo salario prossimo venturo. Cioè per garantirsi una rendita di posizione quando non sarà più alla guida della Cgil.





