Maurizio Belpietro
Nato a Castenedolo (Brescia) nel 1958, ha lavorato per le principali testate italiane; è stato vicedirettore dell'Indipendente e del Quotidiano Nazionale, ha diretto Il Tempo, Il GiornalePanorama e Libero. Oggi dirige il quotidiano indipendente "La Verità", che ha fondato nel 2016 e "Panorama". Punto di riferimento nel dibattito politico dei principali talkshow, ha condotto su Rete4 "Dalla vostra Parte"

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In Danimarca lo Stato leva già la prole se la madre non passa un «test». Non è più un’ipotesi così assurda neppure qui, dopo le scelte del tribunale dei minori dell’Aquila. C’è da abbattere il Grande fratello in famiglia.
Gran parte della stampa non risponde alle logiche dell’informazione ma a quelle del potere. Prendete ad esempio il cosiddetto Garofani-gate. Invece di domandarsi se sia opportuno che una persona chiaramente schierata da una parte continui a ricoprire un ruolo super partes come quello di segretario del Consiglio supremo di Difesa, i giornali si sono scatenati alla ricerca della talpa che ha passato l’informazione.
Chi ha parlato della cena a Terrazza Borromini? Chi ha tradito la fiducia dei commensali? Sono state passate in rassegna tutte le ipotesi, radiografando i profili dei partecipanti. Si sono immaginate interferenze russe e perfino americane, barbe finte e corazzieri sotto i tavoli. E poi, come se non bastasse, i cronisti hanno letto e riletto le frasi riportate nei nostri articoli, discutendo di virgolette e chiedendosi se il «provvidenziale scossone» fosse testuale oppure no. Nessuno in compenso ha vagliato la balbettante intervista al Corriere della Sera che il consigliere di Mattarella per le questioni della Difesa e della Sicurezza nazionale ha concesso il giorno dopo l’articolo della Verità. Già il titolo apposto dalla redazione del giornale di via Solferino diceva tutto: «Sono amareggiato. Le mie erano soltanto chiacchiere tra amici».
Nel colloquio, Garofani non nega di aver pronunciato le frasi che gli sono state attribuite. Al contrario spiega che la conversazione non solo era tra amici (alcuni dei quali evidentemente nemmeno conosceva, vista la disparata provenienza delle persone attovagliate) ma dice di «non aver mai fatto dichiarazioni fuori posto, mai esibito protagonismo». Chiunque di noi si vedesse messe in bocca parole che non riconosce come proprie reagirebbe negando di averle dette. Garofani non lo fa. Spiega di non aver pronunciato frasi fuori posto. Di più: al Corriere aggiunge di «aver letto e riletto Belpietro, senza capire in che cosa consisterebbe il complotto». Cioè, per lui discutere in un ristorante, con una ventina di persone e con altri tavoli attorno, di come battere Giorgia Meloni, auspicando un «provvidenziale scossone», non è un piano per fermare l’attuale maggioranza e impedirle di vincere alle prossime elezioni. Anche se il discorso verte proprio su come organizzare le cose e gli schieramenti in vista del voto. Anche se a dire tutto ciò non è un privato cittadino ma uno stretto collaboratore di Mattarella, che per di più siede al fianco del presidente e del premier nel Consiglio supremo di Difesa, l’organismo che si occupa di sicurezza nazionale e di cui fa parte mezzo governo. Per Garofani - e purtroppo a questo punto anche per gran parte della stampa che evita di interrogarsi se il suo ruolo sia compatibile con ciò che ha detto - è normale discutere di come battere l’attuale governo stando in un organismo in cui siede il governo. Il consigliere è talmente inconsapevole del conflitto di interessi di cui è protagonista che, al cronista del Corriere che gli chiede quale tessera di partito abbia in tasca, risponde: «Non faccio politica dal 2018, non sono più iscritto da quando sono uscito dal Parlamento».
Cioè, Garofani parlava di schieramenti e scossoni, ma respinge l’idea di aver fatto politica. In pratica, un politico ma a sua insaputa. Non importa che in tutta la sua vita abbia militato nei partiti, prima nei giornali della Dc, cioè la Discussione e il Popolo, poi nella Margherita e quindi nel Pd, di cui per tre legislature è stato parlamentare. Se nel 2018 Matteo Renzi lo avesse ricandidato, invece di escluderlo dalle liste, probabilmente sarebbe ancora lì, a Montecitorio o a Palazzo Madama. Una volta privato del seggio però non rimase neppure un giorno disoccupato, perché fu immediatamente chiamato al Quirinale da Sergio Mattarella e, successivamente, nominato segretario del Consiglio supremo di Difesa. Un incarico tecnico, da sempre ricoperto da militari, ovvero da ex capi di stato maggiore. E però anche se lui non era un alto ufficiale si fece un’eccezione. Risultato? Eccolo attovagliato come se le questioni istituzionali fossero roba da quattro amici al bar, a parlare di grandi coalizioni di sinistra e di provvidenziali scossoni. Con la grande stampa che quando scoppia il Garofani gate va a caccia di talpe e non della volpe che ha scambiato il Quirinale per un bar.
Piero Tatafiore si è dimesso. Il portavoce del ministro della Cultura ha lasciato per aver inviato, dal suo account ufficiale, un link riguardante la partecipazione di Alessandro Giuli a un’iniziativa politica per le elezioni in Campania. Appena la mail è arrivata ai giornalisti, il Pd ha sollevato la questione, accusando Tatafiore e di conseguenza il suo capo di fare campagna elettorale per il candidato di centrodestra a spese della collettività. Nonostante l’accusa fosse evidentemente falsa, il portavoce credo non abbia impiegato nemmeno un minuto a decidere di fare un passo indietro. E infatti, già nella serata di ieri, sul tavolo del ministro c’era la sua lettera di dimissioni. Credo che una qualsiasi persona onesta colga la differenza fra il comportamento di Tatafiore e quella di Francesco Saverio Garofani.




