Carlo Cottarelli ha aspettato un po’ a intervenire sulla questione della proprietà dell’oro di Banca d’Italia. Ma credo che se avesse atteso ancora un altro po’, prima di scrivere l’editoriale sul Corriere della Sera, sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per il rispetto della logica. Che dice l’ex funzionario del Fondo monetario ed ex senatore del Pd a proposito della questione che vede opporsi il governo italiano alla Bce? Faccio una breve sintesi del pensiero del professore. Punto primo. Le riserve auree sono di proprietà della Banca d’Italia perché lo dice la Banca d’Italia. Del resto, annota Cottarelli, i lingotti sono iscritti nell’attivo del bilancio dell’istituto di emissione e se non fossero di proprietà non potrebbero starci, a meno di una legge ad hoc che stabilisse diversamente.
Punto secondo. I trattati europei prevedono che l’oro debba essere posseduto dalla banca centrale di ogni singolo Paese? No, basta che sia gestito dall’istituto, prova ne sia che in Francia è di proprietà dello Stato ma la Banque de France è autorizzata a inserirlo per legge nel proprio attivo.
Già qui si capisce che il punto numero uno non è un dogma, ma una scelta politica. Infatti, se a Parigi è stabilito che i lingotti custoditi nei caveau della banca centrale sono dello Stato e non dell’istituto, il quale può iscriverli a bilancio nello stato patrimoniale, è evidente che ciò che sta chiedendo il governo italiano non è affatto una cosa strana, ma si tratta di un chiarimento necessario a stabilire che l’oro non è di Bruxelles o di Francoforte e neppure di via Nazionale, dove ha sede la nostra banca centrale, ma degli italiani.
È così difficile da comprendere? La Bce, scrive Cottarelli, non capisce perché l’Italia voglia specificare che le riserve sono dello Stato e «solo» affidate in gestione alla Banca d’Italia. E si chiede: quali vantaggi ci sarebbero per il popolo italiano se diventasse proprietario dell’oro? «Gli effetti pratici», si risponde il professore, «almeno nell’immediato, sarebbero nulli». Provo a ribaltare la domanda di Cottarelli: quali svantaggi ci sarebbero se all’improvviso il popolo italiano scoprisse che l’oro non è suo ma della Banca d’Italia e un giorno la Bce decidesse di annettersi le riserve auree degli istituti centrali? La risposta mi sembra facile: gli effetti pratici non sarebbero affatto nulli per il nostro Paese, che all’improvviso si troverebbe privato di un capitale del valore di circa 280 miliardi di euro.
Cottarelli chiarisce che il timore della Bce è dovuto al fatto che l’emendamento alla legge di Bilancio, con cui si vuole sancire che la proprietà dell’oro è del popolo italiano, in teoria potrebbe consentire al governo, al Parlamento o al popolo italiano la vendita dei lingotti. «Sarebbe demenziale», sentenzia il professore, perché l’oro «è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze». È vero ciò che sostiene l’ex senatore del Pd. Peccato che nessuno abbia mai parlato di vendere le riserve auree (anzi, nel passato ne parlò Romano Prodi, che mi risulta stia dalla stessa parte politica di Cottarelli), ma soltanto di stabilire di chi siano, se della Banca d’Italia, e dunque vigilate dalla Bce, o del popolo italiano.
Il professore però fa anche un’altra affermazione assolutamente vera: l’oro è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze. Ma chi stabilisce quando è gravissima un’emergenza? E, soprattutto, chi può decidere di usare quella riserva strategica? Il governo, il Parlamento, il popolo italiano o la Banca d’Italia su ordine della Bce? È tutto qui il nocciolo del problema: se l’oro è nostro ogni decisione - giusta o sbagliata - spetta a noi. Se l’oro è della Banca d’Italia o della Bce, a stabilire che cosa fare della riserva strategica sarà l’istituto centrale, italiano o europeo. In altre parole: dobbiamo lasciare i lingotti italiani in mano alla Lagarde, che magari di fronte a un’emergenza decide di darli in garanzia per comprare armi da destinare agli ucraini?
Tanto per chiarire che cosa significherebbe tutto ciò, va detto che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree. Il primo sono gli Stati Uniti, poi c’è la Germania, quindi noi. La Francia ne ha meno, la Spagna quasi un decimo, Grecia, Ungheria e Romania hanno 100 tonnellate o poco più, contro le nostre 2.400. Guardando i numeri è facile capire che il nostro oro fa gola a molti e metterci le mani, sottraendolo a quelle legittime degli italiani, sarebbe un affarone. Per la Bce, ovviamente, non certo per noi. Quanto al debito pubblico, che Cottarelli rammenta dicendo che se siamo proprietari dei lingotti lo siamo anche dell’esposizione dello Stato per 3.000 miliardi, è vero. Siamo tra i più indebitati al mondo: quinti in valore assoluto. Ma avere debiti non è una buona ragione per regalare 280 miliardi alla Lagarde, considerando soprattutto che circa il 70 per cento dei nostri titoli di Stato sono nelle mani di famiglie e istituzioni italiane, non della Bce.
Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…
Non è vero che la Ue non serve a niente. E neppure che di questo passo, se non cambia qualche cosa, fila dritta verso il crac, come peraltro ha spiegato perfino Mario Draghi prima di Donald Trump. L’Unione europea serve a fare ricchi i suoi funzionari, i quali non corrono certo il pericolo di andare in bancarotta. Anzi, secondo quanto rivelato dal quotidiano tedesco Bild (di proprietà del gruppo Springer, è il giornale più venduto e letto d’Europa) anche questo Natale i burocrati di Bruxelles hanno motivo per fregarsi le mani, rallegrandosi per aver ottenuto l’ottavo aumento di stipendio in tre anni. Ne beneficeranno tutti i 67.000 dipendenti dell’Unione, sia quelli in servizio che quelli in pensione, i quali si vedranno riconosciuti retroattivamente, con calcolo dal 1° luglio, un aumento di stipendio del 3%. In totale, dal 2022 a oggi, fa il 22,8% in più, per un costo aggiuntivo del solo ultimo incremento di 365 milioni di euro all’anno.
Mica male, considerando che la maggior parte dei lavoratori italiani deve invece fare i conti con una perdita del potere d’acquisto del proprio stipendio che non è affatto compensata da incrementi salariali. Nel 2024, i dipendenti della Ue avrebbero dovuto ricevere aumenti dell’8,5%, ma il «regalo» era sembrato fin troppo generoso, al punto che anche la Commissione guidata da Ursula von der Leyen aveva invitato a moderare le pretese, contenendo la crescita degli emolumenti nel 7,3%. Ma poi, ad aprile scorso, ecco il conguaglio, con un riconoscimento supplementare per tutto il 2024 di un 1,2%.
La causa di questi continui aggiornamenti di stipendio è la temutissima inflazione, che da noi, e più in generale in tutta Europa, si vuole tenere bassa a colpi di aumento dei tassi d’interesse. Ma a Bruxelles è rincorsa da una specie di scala mobile, che consente di tenere il passo con il carovita. L’ufficio statistico europeo, noto come Eurostat, infatti, tiene d’occhio i rincari tra Bruxelles e il Lussemburgo e poi aggiorna gli stipendi, affinché il potere d’acquisto degli euroburocrati non subisca alcun calo. Per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, anche appunto raffreddando i consumi con una decrescita infelice degli stipendi, ma se si tratta dei funzionari della Ue il discorso non vale: per loro scatta il salvagente dell’adeguamento salariale, affinché non debbano tirare troppo la cinghia come fanno tutti i comuni mortali che, risiedendo in Europa, sono tenuti a fare i conti con le politiche demenziali dell’Unione in materia di transizione ambientale, riarmo e burocrazia.
Vi state chiedendo che cosa guadagni un funzionario della Ue? La Bild ha provveduto a calcolare quanto incassino i dipendenti in servizio a palazzo Berlaymont e negli uffici connessi. Al gradino più basso, escluse le indennità esentasse, un commesso si metterà in tasca 3.750 euro, 110 dei quali sono frutto dell’ultimo aumento. Per chi invece ricopre funzioni più elevate, gli emolumenti sono ancor più generosi e si può arrivare anche a 25.986 euro, 760 dei quali si aggiungeranno con lo stipendio di dicembre ma moltiplicati per sei per consentire al burocrate di percepire pure gli arretrati accumulati da luglio in poi.
A questo punto immagino che molti di voi si stiano chiedendo quanto diamo a Ursula von der Leyen, se chi le sta intorno nell’olimpo di Bruxelles sfiora i 26.000 euro al mese. La risposta l’ha data sempre la Bild, calcolando che, grazie all’ultimo aumento di 1.000 euro al mese, la presidente della Ue è giunta a sfiorare i 36.000 euro: 35.800 per l’esattezza. E i commissari? Anche con loro l’Unione è generosa: 850 euro di «aggiornamento» per un totale 29.250 euro.
Riepilogando, l’Europa dei parametri di Maastricht, che fissa paletti inviolabili circa la spesa pubblica, funziona solo per i sudditi della Ue, mentre per i signori di Bruxelles non conta e questo fa capire che, se non si inverte la rotta, la barca dell’Unione prima o poi finirà per schiantarsi sugli scogli della realtà.
Dimenticavo: come dicevo, gli aumenti di cui sopra andranno a beneficio anche di 30.000 pensionati. Tanto per farvi capire su che razza di bomba siamo seduti, oggi il costo dei funzionari Ue a riposo è pari a 2,4 miliardi l’anno, ma nel 2045 questi signori ci costeranno 3,2 miliardi. Sempre che Eurostat non adegui al rialzo gli stipendi del 22% come ha fatto nell’ultimo triennio.




