Non passa giorno senza che qualcuno non annunci una prossima invasione dell’Europa da parte dei russi. I carrarmati di Putin sarebbero dietro l’angolo e gli aerei di Mosca pronti al decollo. A sostegno della tesi di un attacco imminente vengono lanciati moniti dai Paesi che un tempo facevano parte della cortina di ferro. Ma anche l’intelligence dei cosiddetti alleati, cioè di americani e inglesi, non si tira indietro.
Senza dimenticare gli appelli dei generaloni di cui abbiamo dato conto qualche giorno fa, con l’invito dei capi di Stato maggiore francese e britannico a prepararsi a perdere in battaglia i propri figli. Se questo è il clima che precede il Natale, e sul quale non sembrano influire le rassicurazioni del Cremlino che si dice disposto a «confermare legalmente di non voler dichiarare guerra alle Ue o alla Nato» (la dichiarazione è di ieri), la notizia che gli allarmi droni sulle basi militari europee sono spesso infondati contribuisce ad allentare la tensione.
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
Regalo di Natale da parte di Sergio Mattarella a uno scafista: condannato a 30 anni di carcere per il naufragio di un’imbarcazione in cui morirono 49 persone, Abdelkarim Alla F. Hamad è stato graziato. I fatti risalgono a Ferragosto di dieci anni fa: la barca carica di migranti salpò da Sabratha, ma quando arrivò sulle nostre coste nella stiva i soccorritori trovarono 49 cadaveri. Rinchiusi là sotto, molti morirono asfissiati. I sopravvissuti accusarono otto persone di aver organizzato il viaggio e tra questi l’ex giocatore libico Aldelkarim Alla F. Hamad. I giudici lo condannarono insieme ai suoi compagni per concorso in omicidio plurimo e violazione delle norme sull’immigrazione, appioppandogli in tutto 30 anni di carcere. Del suo caso in passato si era occupata anche Rai 3, raccontando la sua storia e quella di chi era partito con lui e dando conto della battaglia per la revisione del processo.
I giudici, a cui i legali si rivolsero, però non hanno trovato una buona ragione per rivedere il giudizio, confermando la sentenza. Il tribunale, infatti, ha ritenuto Abdelkarim colpevole di aver fatto parte dell’equipaggio che governò l’imbarcazione e quindi lo hanno condannato in quanto «sodale della rete criminale che organizzò il viaggio». Insomma, per la legge italiana era ed è uno scafista. Però per Mattarella il giovanotto è da perdonare.
Dunque, ecco arrivare la grazia del Quirinale, con parere favorevole del ministro della Giustizia, «in ragione della giovane età del condannato al momento del fatto e della circostanza che nel lungo periodo di detenzione lo stesso ha dato prova di un proficuo percorso di recupero». Del resto, era la strada indicata perfino dalla Corte d’Appello di Messina che, nel rigettare l’istanza di revisione per ragioni processuali, aveva fatto espressamente cenno al solo modo di ridurre la pena: ovvero l’istituto della grazia. Perché i magistrati, nel confermare una sentenza, debbano indicare la via per ridurre o commutare la pena è un mistero. E misteriosa resta anche la ragione della decisione del Colle.
Dietro le sbarre ci sono persone che hanno commesso reati, anche gravi, in giovane età, ma non sempre, anzi quasi mai, trovano la comprensione del presidente della Repubblica. Può darsi che Abdelkarim Alla F. Hamad abbia davvero intrapreso un percorso di recupero, dando prova di essere cambiato, come recita il comunicato del Quirinale. Tuttavia, per consentire di allentare le misure di detenzione esiste già la legge Gozzini, che ai detenuti che si comportano bene riconosce una serie di benefici, accorciando il periodo in cella e concedendo permessi e lavori all’esterno del carcere. Insomma, in un periodo in cui l’immigrazione desta seria preoccupazione fra gli italiani, in particolare quella in arrivo dall’Africa, c’era proprio bisogno di premiare uno scafista?
Probabilmente in vista del Natale Mattarella avrà sentito l’esigenza di un gesto di misericordia. Ma chissà perché ha scelto proprio un migrante e per di più condannato per concorso nell’omicidio di 49 persone. Ci avesse fatto un fischio avremmo trovato altri detenuti che soffrono e altri condannati che hanno dato segni di ravvedimento e di volersi reinserire nella società dopo aver espiato parte della pena.
Tuttavia, la decisione ormai è presa e non si può certo tornare indietro. Per il futuro però ci permettiamo un suggerimento: la Corte d’Appello ha di recente condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere Mario Roggero, il gioielliere che a Grinzane Cavour reagì uccidendo due rapinatori e ferendone un terzo. Nel suo caso non c’è la giovane età a giocare a favore ma semmai l’età avanzata. Se la condanna venisse confermata in Cassazione, per il commerciante piemontese a 72 anni si aprirebbero le porte del carcere. Posso assicurare che l’uomo ha già pagato il suo debito con la giustizia, perché le sentenze lo hanno spogliato di quasi tutti i suoi averi, consegnando i risparmi di una vita di lavoro ai famigliari dei rapinatori a titolo di risarcimento. Di certo Roggero è persona che, se lasciata in libertà, si reinserirebbe nella società civile, senza dare alcun problema alla comunità dove vive. Dunque, se la grazia deve servire a rimettere ordine e fare un po’ di giustizia, non c’è miglior provvedimento di quello che un domani cancelli la pena inflitta a Roggero. Non è cosa da decidersi ora, perché c’è sempre la Cassazione che potrebbe rimediare all’errore di mandare in galera un brav’uomo. Però, nei panni di Mattarella, ci penserei.
Mentre la famiglia Trevallion rischia di trascorrere il Natale divisa perché aveva il «difetto» di vivere in un casolare isolato con i servizi igienici all’esterno, a una ragazzina è consentita la transizione di genere. Per le toghe il percorso è «consapevole».
Anni fa Vanity Fair, settimanale radical chic che si occupa di moda e celebrity, dedicò la copertina agli adolescenti italiani in attesa di cambiare sesso. La redazione fotografò ragazzini e ragazzine vestendoli con capi firmati: pantaloni di Dolce&Gabbana, abito e maglia Germanier, gioielli Glenda López e Pintrill. Secondo la rivista, quei giovani trattati con la triptorelina, il farmaco che blocca la pubertà, impedendo la produzione di ormoni sessuali, erano eroi. A me quelle immagini posate, scattate in uno studio fotografico di grido, misero solo tristezza, perché i bambini con il volto truccato mi parvero subito vittime di una moda.
Ragazzi con problemi, con difficoltà di relazione e anche di identità che, prima ancora di raggiungere la maturità, venivano considerati affetti da quella che si definisce disforia di genere e per questo avviati a una cura irreversibile. Bloccare la pubertà, impedendo, con l’assunzione di farmaci, la produzione di ormoni e la crescita della barba o del seno, il cambiamento della voce o l’arrotondamento delle forme, la crescita affettiva e la stabilità psicologica non è un gioco. È un passo che può condizionare e rovinare per sempre la vita.
Basta infatti leggere le risultanze della commissione d’inchiesta che indagò sulla clinica Tavistock di Londra, una delle prime in Europa a specializzarsi nel cambio di sesso e nelle cure nei confronti di minorenni con disforia di genere. Per anni nella capitale inglese un gruppo di medici ha somministrato con assoluta facilità e noncuranza la triptorelina ai bambini, con la stessa leggerezza con cui certi dottori suggeriscono di prendere l’aspirina. Ma il cambio di sesso non è un’influenza o un malanno passeggero, bensì una scelta fondamentale, che anche quando non si conclude con un intervento chirurgico per modificare il genere sessuale lascia scompensi profondi e disturbi gravi. Nonostante ciò, per anni la Tavistock ha «curato» i problemi sessuali dei minori in questo modo. Senza capire le ragioni delle difficoltà, senza indagare troppo sulle cause, ma pensando che un farmaco potesse rimettere a posto le cose che la natura aveva sbagliato. Per decenni si è pensato che la pillola del cambio di sesso rappresentasse la felicità per migliaia di adolescenti. Poi, in seguito a denunce, ripensamenti e qualche suicidio, qualcuno ha cominciato a riflettere e pentirsi. Sono stati gli stessi medici a rendersi conto che dare la triptorelina ai ragazzini senza aspettare che fossero adulti e senza comprendere davvero da che cosa originasse il loro disturbo fosse una scelta pericolosa. Oggi, dopo molte contestazioni e altrettanti rimorsi degli stessi medici, la Tavistock è stata chiusa e il servizio sanitario inglese ha avviato una profonda revisione del sistema che consentiva con facilità l’accesso al cambio di sesso per i minorenni.
Purtroppo da noi le mode arrivano con ritardo e dunque ciò che in Gran Bretagna oggi è noto e quindi maneggiato con estrema cautela, in Italia resta ignoto e quindi la novità è che negli ospedali italiani si «curano» i ragazzini affetti da disforia di genere come dieci o vent’anni fa si curavano a Londra, cioè imbottendoli di farmaci, avviandoli verso un percorso di cui più tardi potrebbero pentirsi. Una bambina di 13 anni a La Spezia, dopo il trattamento a suon di farmaci per bloccare la pubertà, è stata autorizzata dal tribunale al cambio di sesso. Avviata verso un futuro incerto. Del resto, se la moda, di Vanity Fair e della comunità Lgbt, ritiene che, anche quando si è minorenni, mutare l’identità sessuale sia un diritto, un passo verso la liberazione sessuale e il futuro, dunque un fenomeno da accogliere positivamente, rivestendo gli adolescenti con capi firmati, si capisce che questi bambini dal sesso indefinito fanno «tendenza». Un po’ come il colore burgundy o le pellicce ecologiche, che quest’anno trionfano sulle passerelle.
Certo, colpisce che ad autorizzare l’assunzione di farmaci che bloccano la pubertà e anche l’intervento chirurgico per trasformare una ragazza in un ragazzo e viceversa sia un tribunale, mentre un altro tribunale non autorizza tre bambini a ritornare a casa con i propri genitori solo perché la casetta nel bosco dove hanno vissuto finora non ha la luce e l’acqua corrente. I minori sono liberi di decidere di cambiare sesso, ma non sono liberi di vivere facendo il bagno nella tinozza. Se diventano transgender vanno bene a giudici, giornalisti e stilisti. Se si divertono a giocare in un prato, senza seguire le mode, compresa quella per cui l’identità sessuale è una convenzione che si può cambiare a piacimento, allora vanno tolti ai legittimi genitori affinché imparino come si sta al mondo.





