Siete convinti che la legge tuteli le persone oneste? Beh, vi sbagliate, perché la legge sta dalla parte di ladri e rapinatori, per lo meno se si dà retta a certe sentenze. A Perugia, infatti, la Corte d’appello non ha riconosciuto le aggravanti a carico di un uomo che aveva cercato di sottrarre uno smartphone a una donna, strappandoglielo dalle mani mentre questa era all’interno della sua vettura. Nonostante la colluttazione nata tra il malvivente - che voleva appropriarsi del cellulare - e la vittima, per i giudici non si può parlare di rapina, ma soltanto di furto aggravato e dunque il delinquente è stato condannato alla pena minima di due anni e non a quella dai cinque in su prevista nel caso in cui il tribunale avesse deciso di riqualificare l’accusa.
La faccenda potrà sembrare una sottigliezza da azzeccagarbugli abituati a interpretare codice e norme. Invece si tratta di una questione dirimente, perché sottende un concetto, ovvero che se la donna vittima del tentativo di rubarle il telefono non si fosse opposta, tutto si sarebbe concluso con un semplice furto. Invece la poveretta, mentre era nella sua macchina, ha tentato di reagire, cercando di fermare il fuorilegge, con la conseguente colluttazione. Insomma, colpa della vittima se un banale furto, per quanto aggravato, abbia fatto pensare a una rapina. Se la signora non avesse fatto resistenza le cose sarebbero andate via lisce, cioè con il telefonino nella tasca del farabutto.
A voler seguire il ragionamento dei giudici, l’uomo si è trovato nelle condizioni di dover reagire di fronte a una tizia che non voleva mollare l’osso, pardon, il telefono. Che diamine! Non si fa! Se un ladro cerca di derubarti non ci si deve opporre: si consegna il portafogli senza fiatare, così la posizione del bandito non si aggrava. E se invece qualcuno proprio non ce la fa a non opporsi alla rapina, beh bisogna considerare tra le attenuanti che il ladro è stato indotto a usare la forza da chi non intendeva cedere il maltolto. Insomma, non è colpa sua se poi c’è scappata una colluttazione: fosse stata ferma la vittima, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, cioè con il ladro in fuga insieme con il telefonino.
Siete stupiti? Sbagliate. Del resto, non è la stessa filosofia che ha portato alla condanna di un orefice a cui hanno legato la figlia e minacciato la moglie con una pistola? Lo sciagurato ha avuto l’ardire di reagire, perdendo la testa e inseguendo i rapinatori per poi scaricare loro addosso l’arma che teneva nel cassetto del negozio dopo una serie di assalti dei malviventi. I giudici gli hanno appioppato l’omicidio volontario, condannandolo a quasi 15 anni di carcere. In vita sua l’uomo non aveva mai fatto male a una mosca e la sola colpa che gli si poteva attribuire era di essersi sempre fatto gli affari suoi, lavorando come un ciuco. Ma poi, invece di alzare le mani di fronte ai rapinatori che gli puntavano la pistola, al posto di dire ai malviventi: prego, accomodatevi, prendete pure ciò che desiderate, Mario Roggero li ha inseguiti e ha sparato.
Errore, errore grave, anzi gravissimo, che oltre alla pena detentiva gli è già costato quasi 1 milione tra spese legali e risarcimenti, perché i famigliari dei rapinatori ovviamente vanno indennizzati per la perdita dei loro cari. Ai famigliari delle vittime dei malviventi, se ci scappa il morto, vanno poche migliaia di euro, anche perché chi le ha colpite di regola non ha un soldo alla luce del sole. A quelli dei delinquenti invece bisogna concederne centinaia di migliaia.
Se non fosse ormai diventata una frase banale, dopo che il generale Roberto Vannacci ci ha scritto un libro, diremmo che è il mondo al contrario. Dunque, per non scadere nel già detto, diremo che la nostra sta lentamente diventando la Repubblica dei ladri. E, purtroppo, dei giudici.
Più passano le ore, anzi i giorni, e più diventa imbarazzante il silenzio degli amici di Mohammad Hannoun. Ma come? Fino all’altro ieri erano sempre pronti a sposarne la causa, facendosi fotografare al suo fianco, ben lieti di abbracciarne la lotta per la Palestina libera, invocando una soluzione per Gaza e una condanna per genocidio nei confronti di Israele. E ora che l’architetto giordano è finito in manette, con l’accusa di aver finanziato i terroristi di Hamas e di essere a capo di un’associazione che agiva da collettore di fondi per il movimento armato dei fondamentalisti islamici, i compagni di piazza e piazzate che fanno? Si voltano dall’altra parte, facendo finta di niente, anzi di non conoscerlo?
Da molti anni l’attività del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era oggetto di indagini della magistratura, alcune delle quali erano note. E da molto tempo era oggetto di inchieste giornalistiche, per le sue dichiarazioni estreme e per le sue discutibili frequentazioni. Già ieri ricordavo gli articoli apparsi su questo giornale a firma del nostro Giacomo Amadori. E Fausto Biloslavo l’altro ieri mi ricordava almeno una decina di servizi pubblicati su Panorama da quando ne sono direttore. Insomma, si sapeva o per lo meno di sospettava, che Hannoun avesse forti collegamenti con Hamas. E ci si immaginava che alcune delle associazioni di beneficenza da lui fondate per sostenere la causa palestinese non servissero a finanziare le famiglie in difficoltà, la costruzione di scuole, ospedali, acquedotti, come sarebbe stato giusto che fosse e come avrebbe dovuto essere se le promesse di Hannoun e dei suoi compagni fossero state veritiere. In realtà, da tempo si riteneva che quel denaro venisse usato per cause ben meno nobili, ovvero per armare i terroristi e pagare le famiglie dei miliziani finiti in carcere o al cimitero dopo gli attentati contro gli israeliani. In altre parole, quei fondi erano fondi investiti non per ragioni umanitarie, ma destinati a scopi bellici, compresa la strage del 7 ottobre 2023.
Di fronte a tutto ciò, al fiume di quattrini passato nelle mani di Hannoun e della holding immobiliare di Hamas (solo in Italia sarebbero una novantina gli edifici comprati allo scopo di impiegare la liquidità prima di consegnarla ai miliziani di Hamas), ci saremmo aspettati una presa di distanza e almeno qualche mea culpa da parte di chi, in questi anni, ha sposato la causa del «profugo» giordano-palestinese senza andare troppo per il sottile.
Invece, approfittando delle vacanze di Natale, da Laura Boldrini a Nicola Fratoianni, da Francesca Albanese ad Alessandro Di Battista paiono tutti in silenzio stampa. Desaparecidos. Tanto erano loquaci fino all’altro ieri, tanto sono silenziosi ora, forse annichiliti per aver abbondato con il panettone o intorpiditi per aver ecceduto nei brindisi. Alzare i calici a volte annebbia la mente, ma forse nel caso di Hannoun la mente dei compagni che con lui amavano scattarsi selfie era già annebbiata.
Anzi, su certi argomenti probabilmente lo è sempre stata. Al punto che oggi, di fronte agli arresti, non sanno che dire e preferiscono nascondersi, sperando che la Befana insieme alle feste si porti via anche la memoria degli italiani. Ma dimenticarsi di chi ha scambiato dei finanziatori di terroristi per nuovi rivoluzionari è difficile, se non impossibile.
Chissà che fine hanno fatto gli amici di Mohammad Hannoun, quelli che amavano partecipare alle sue manifestazioni e scattarsi selfie al suo fianco. Ieri, dopo l’arresto del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia, ho trascorso ore passando in rassegna le agenzie di stampa alla ricerca di una dichiarazione in favore di colui che, secondo gli inquirenti, era a capo di un’organizzazione che finanziava i terroristi di Hamas. Con la scusa di raccogliere fondi per la popolazione di Gaza, Hannoun e i suoi complici (in totale a finire in manette sono state nove persone) avrebbero dirottato nelle casse del partito armato più di 7 milioni di euro.
Soldi ottenuti promettendo di usarli in aiuti ai palestinesi, per realizzare desalinizzatori che consentissero di far arrivare acqua potabile nei campi profughi. In realtà, le donazioni servivano a pagare gli stipendi dei miliziani, oppure a sostenere le famiglie degli attentatori o dei detenuti. Dare soldi ad Hannoun, in pratica, significava darli ai terroristi ed è per questo che ieri all’alba i militari della Guardia di finanza, su disposizione della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo, hanno provveduto ad arrestare lui e i suoi principali collaboratori.
Nei mesi passati, dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano a caccia delle centinaia di persone sequestrate nel raid di Hamas, molti avevano imparato a riconoscere il volto di Hannoun come uno dei più rappresentativi della causa palestinese. Sempre in prima fila, sempre pronto rilasciare dichiarazioni negando qualsiasi collegamento con il movimento terroristico, l’architetto giordano da anni trapiantato in Italia, a Genova, era tenuto in grande considerazione. Da Laura Boldrini ad Alessandro Di Battista, da Nicola Fratoianni a Francesca Albanese, sono molti i compagni che nel tempo hanno marciato al suo fianco, prestando volentieri la propria immagine per la causa palestinese incarnata da Hannoun.
Eppure si sapeva che il presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era una figura controversa, da tempo chiacchierata per una sospetta vicinanza al movimento terroristico autore della strage del 7 ottobre. Il nostro Giacomo Amadori sulla Verità se n’è occupato spesso. E Fausto Biloslavo su Panorama ha scritto almeno una decina di articoli, segnalando le accuse che gli venivano rivolte di essere un collettore di fondi pro Hamas. Curiosamente, nonostante i molti dubbi sulle sue attività non fossero ristretti ai soli inquirenti, nessuno tra chi allegramente prestava il proprio volto per le campagne pro Pal si è fatto troppi problemi nell’averlo a fianco. Nessuno si è chiesto se esistessero elementi in grado di far sospettare che tra il filo palestinese Hannoun e certi ambienti anarco-insurrezionalisti ci fosse un pericoloso collegamento.
Eppure era evidente che alcune manifestazioni pro Pal non fossero proprio spontanee. Si capiva che i numerosi scontri con la polizia non erano casuali, ma apparivano coordinati da una specie di regia. Ma a sinistra hanno preferito non vedere, ignorando non soltanto numerose evidenze, ma anche chiudendo gli occhi sulle sempre più dettagliate inchieste giornalistiche. Hannoun era un testimone della tragedia palestinese da portare in palmo di mano. Anzi, da sostenere a pugno chiuso. Così siamo arrivati agli arresti di ieri, ma soprattutto ai silenzi di oggi di chi fino a ieri, come Francesca Albanese, si faceva ritrarre al suo fianco, felice di combattere per la causa comune di Gaza.





