Chissà che fine hanno fatto gli amici di Mohammad Hannoun, quelli che amavano partecipare alle sue manifestazioni e scattarsi selfie al suo fianco. Ieri, dopo l’arresto del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia, ho trascorso ore passando in rassegna le agenzie di stampa alla ricerca di una dichiarazione in favore di colui che, secondo gli inquirenti, era a capo di un’organizzazione che finanziava i terroristi di Hamas. Con la scusa di raccogliere fondi per la popolazione di Gaza, Hannoun e i suoi complici (in totale a finire in manette sono state nove persone) avrebbero dirottato nelle casse del partito armato più di 7 milioni di euro.
Soldi ottenuti promettendo di usarli in aiuti ai palestinesi, per realizzare desalinizzatori che consentissero di far arrivare acqua potabile nei campi profughi. In realtà, le donazioni servivano a pagare gli stipendi dei miliziani, oppure a sostenere le famiglie degli attentatori o dei detenuti. Dare soldi ad Hannoun, in pratica, significava darli ai terroristi ed è per questo che ieri all’alba i militari della Guardia di finanza, su disposizione della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo, hanno provveduto ad arrestare lui e i suoi principali collaboratori.
Nei mesi passati, dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano a caccia delle centinaia di persone sequestrate nel raid di Hamas, molti avevano imparato a riconoscere il volto di Hannoun come uno dei più rappresentativi della causa palestinese. Sempre in prima fila, sempre pronto rilasciare dichiarazioni negando qualsiasi collegamento con il movimento terroristico, l’architetto giordano da anni trapiantato in Italia, a Genova, era tenuto in grande considerazione. Da Laura Boldrini ad Alessandro Di Battista, da Nicola Fratoianni a Francesca Albanese, sono molti i compagni che nel tempo hanno marciato al suo fianco, prestando volentieri la propria immagine per la causa palestinese incarnata da Hannoun.
Eppure si sapeva che il presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era una figura controversa, da tempo chiacchierata per una sospetta vicinanza al movimento terroristico autore della strage del 7 ottobre. Il nostro Giacomo Amadori sulla Verità se n’è occupato spesso. E Fausto Biloslavo su Panorama ha scritto almeno una decina di articoli, segnalando le accuse che gli venivano rivolte di essere un collettore di fondi pro Hamas. Curiosamente, nonostante i molti dubbi sulle sue attività non fossero ristretti ai soli inquirenti, nessuno tra chi allegramente prestava il proprio volto per le campagne pro Pal si è fatto troppi problemi nell’averlo a fianco. Nessuno si è chiesto se esistessero elementi in grado di far sospettare che tra il filo palestinese Hannoun e certi ambienti anarco-insurrezionalisti ci fosse un pericoloso collegamento.
Eppure era evidente che alcune manifestazioni pro Pal non fossero proprio spontanee. Si capiva che i numerosi scontri con la polizia non erano casuali, ma apparivano coordinati da una specie di regia. Ma a sinistra hanno preferito non vedere, ignorando non soltanto numerose evidenze, ma anche chiudendo gli occhi sulle sempre più dettagliate inchieste giornalistiche. Hannoun era un testimone della tragedia palestinese da portare in palmo di mano. Anzi, da sostenere a pugno chiuso. Così siamo arrivati agli arresti di ieri, ma soprattutto ai silenzi di oggi di chi fino a ieri, come Francesca Albanese, si faceva ritrarre al suo fianco, felice di combattere per la causa comune di Gaza.
Papa Leone ieri all’Angelus ha detto che chi parla di pace rischia di fare la figura del fesso. Purtroppo, aggiungo io, chi invoca la tregua non corre soltanto il pericolo di essere trattato come lo scemo del villaggio, perifrasi meno carina però più efficace di quella usata dal pontefice, bensì di essere anche considerato un servo di Putin, ovvero un ignobile figuro che per soldi o per ambizioni di carriera è disposto a mettere la propria dignità al servizio di un regime dittatoriale. Sono quasi quattro anni, cioè da quando le truppe di Mosca hanno invaso l’Ucraina, che chiunque lanci un appello alla pace che non includa un richiamo alla vittoria totale di Kiev sull’invasore viene considerato un traditore. Sostenere la necessità di un cessate il fuoco, anche a costo di qualche concessione, è ritenuta una bestemmia.
Anzi, un’offesa al buonsenso e all’onore. Dire che sia necessario trattare invece che morire è infatti considerato un cedimento all’aggressore. Più o meno come una resa di fronte al prepotente di turno, con annessi richiami storici alla famosa occupazione della Cecoslovacchia da parte di Hitler nel 1939. Chi sollecita la pace e non la vittoria contro Putin sarebbe insomma un codardo, al pari di quelli che di fronte ai nazisti si voltarono dall’altra parte facendo finta di non vedere.
In realtà, la storia è molto diversa e i richiami di chi si appella al passato non hanno alcun fondamento. Innanzitutto, il rifiuto di ogni trattativa al momento ha prodotto solo centinaia di migliaia di morti e feriti da entrambi le parti. E probabilmente nei mesi a venire, se non si troverà la via per un armistizio, conteremo altre centinaia di migliaia di vittime, anche in Europa. Niente di questo accadde nel 1939, quando con la scusa di difendere le ragioni gli abitanti dei Sudeti, popolazione di origine germanica insediata tra la Boemia e la Slesia, i tedeschi occuparono la Cecoslovacchia. Nel nostro caso i richiami storici c’entrano come i cavoli a merenda, perché gli abitanti del Donbass non sono quelli dei Sudeti e le potenze occidentali, invece di voltarsi dall’altra parte, sono pienamente coinvolte in una guerra di cui non si intravede la fine.
Nonostante si combatta da quasi quattro anni e la scia di sangue si allunghi giorno dopo giorno, c’è ancora chi sostiene che è necessario continuare a combattere. Anzi, dato che molti ucraini per evitare di finire al fronte e perdere la vita si sono dati alla macchia, a fare la guerra dovrebbero essere gli stessi europei. I capi di stato maggiore inglese e francese già invitano i propri concittadini a prepararsi a perdere i figli in battaglia. E uno dei comandanti della Nato, l’ammiraglio Cavo Dragone, addirittura invoca un attacco preventivo alla Russia, che sebbene venga definito ibrido altro non vuol dire che iniziare un conflitto.
Sì, mentre il papa parla di pace, in Europa c’è tanta voglia di guerra. Di solito, attaccare serve a far dimenticare la crisi economica, consentendo alle industrie in difficoltà di riciclarsi con la produzione di armamenti. È ciò che accade in Germania e anche in Francia. Dove un’industria alla canna del gas si attacca ai cannoni e ai carri armati pur di risollevarsi.
Ciò detto, chi parla di pace non rischia solo di venire ridicolizzato, come dice il Papa, ma anche di finire nelle liste di proscrizione. Quando nei primi mesi di guerra qualche commentatore invitò a far sedere al tavolo della trattativa ucraini e russi, descrivendo i pericoli di un conflitto che poteva destabilizzare l’Europa, il Corriere della Sera si incaricò di comporre l’elenco dei putiniani d’Italia, colonna infame da porre al bando. Se fra qualche anno si ripercorrerà la storia dell’invasione dell’Ucraina, dell’arroganza di Putin e degli errori dell’Occidente, ma anche dei molti tentativi di raggiungere un cessate il fuoco, credo che sarà utile ripercorrere anche i tentativi di tappare la bocca, con accuse ingiuste e sgradevoli, a tutti coloro che invece delle armi avrebbero voluto far parlare il buonsenso. Ma purtroppo, come in molte guerre, il ragionamento non ha diritto di cittadinanza e dunque si è preferito dividere il mondo in due: i buoni di qua, i cattivi di là. Con il risultato che in nome della pace giusta si sono mandati a morire migliaia di persone e si è impedita a chi la sosteneva l’unica pace possibile.
Papa Leone ieri all’Angelus ha detto che chi parla di pace rischia di fare la figura del fesso. Purtroppo, aggiungo io, chi invoca la tregua non corre soltanto il pericolo di essere trattato come lo scemo del villaggio, perifrasi meno carina però più efficace di quella usata dal pontefice, bensì di essere anche considerato un servo di Putin, ovvero un ignobile figuro che per soldi o per ambizioni di carriera è disposto a mettere la propria dignità al servizio di un regime dittatoriale. Sono quasi quattro anni, cioè da quando le truppe di Mosca hanno invaso l’Ucraina, che chiunque lanci un appello alla pace che non includa un richiamo alla vittoria totale di Kiev sull’invasore viene considerato un traditore. Sostenere la necessità di un cessate il fuoco, anche a costo di qualche concessione, è ritenuta una bestemmia.
Anzi, un’offesa al buonsenso e all’onore. Dire che sia necessario trattare invece che morire è infatti considerato un cedimento all’aggressore. Più o meno come una resa di fronte al prepotente di turno, con annessi richiami storici alla famosa occupazione della Cecoslovacchia da parte di Hitler nel 1939. Chi sollecita la pace e non la vittoria contro Putin sarebbe insomma un codardo, al pari di quelli che di fronte ai nazisti si voltarono dall’altra parte facendo finta di non vedere.
In realtà, la storia è molto diversa e i richiami di chi si appella al passato non hanno alcun fondamento. Innanzitutto, il rifiuto di ogni trattativa al momento ha prodotto solo centinaia di migliaia di morti e feriti da entrambi le parti. E probabilmente nei mesi a venire, se non si troverà la via per un armistizio, conteremo altre centinaia di migliaia di vittime, anche in Europa. Niente di questo accadde nel 1939, quando con la scusa di difendere le ragioni gli abitanti dei Sudeti, popolazione di origine germanica insediata tra la Boemia e la Slesia, i tedeschi occuparono la Cecoslovacchia. Nel nostro caso i richiami storici c’entrano come i cavoli a merenda, perché gli abitanti del Donbass non sono quelli dei Sudeti e le potenze occidentali, invece di voltarsi dall’altra parte, sono pienamente coinvolte in una guerra di cui non si intravede la fine.
Nonostante si combatta da quasi quattro anni e la scia di sangue si allunghi giorno dopo giorno, c’è ancora chi sostiene che è necessario continuare a combattere. Anzi, dato che molti ucraini per evitare di finire al fronte e perdere la vita si sono dati alla macchia, a fare la guerra dovrebbero essere gli stessi europei. I capi di stato maggiore inglese e francese già invitano i propri concittadini a prepararsi a perdere i figli in battaglia. E uno dei comandanti della Nato, l’ammiraglio Cavo Dragone, addirittura invoca un attacco preventivo alla Russia, che sebbene venga definito ibrido altro non vuol dire che iniziare un conflitto.
Sì, mentre il papa parla di pace, in Europa c’è tanta voglia di guerra. Di solito, attaccare serve a far dimenticare la crisi economica, consentendo alle industrie in difficoltà di riciclarsi con la produzione di armamenti. È ciò che accade in Germania e anche in Francia. Dove un’industria alla canna del gas si attacca ai cannoni e ai carri armati pur di risollevarsi.
Ciò detto, chi parla di pace non rischia solo di venire ridicolizzato, come dice il Papa, ma anche di finire nelle liste di proscrizione. Quando nei primi mesi di guerra qualche commentatore invitò a far sedere al tavolo della trattativa ucraini e russi, descrivendo i pericoli di un conflitto che poteva destabilizzare l’Europa, il Corriere della Sera si incaricò di comporre l’elenco dei putiniani d’Italia, colonna infame da porre al bando. Se fra qualche anno si ripercorrerà la storia dell’invasione dell’Ucraina, dell’arroganza di Putin e degli errori dell’Occidente, ma anche dei molti tentativi di raggiungere un cessate il fuoco, credo che sarà utile ripercorrere anche i tentativi di tappare la bocca, con accuse ingiuste e sgradevoli, a tutti coloro che invece delle armi avrebbero voluto far parlare il buonsenso. Ma purtroppo, come in molte guerre, il ragionamento non ha diritto di cittadinanza e dunque si è preferito dividere il mondo in due: i buoni di qua, i cattivi di là. Con il risultato che in nome della pace giusta si sono mandati a morire migliaia di persone e si è impedita a chi la sosteneva l’unica pace possibile.




