È ufficiale: Maurizio Landini, ossia colui che da tempo prova a paralizzare l’Italia rivendicando fantasiose scelte di politica economica, parla di tasse e redditi senza sapere nulla di tasse e redditi.
Pur di giustificare l’ennesima manifestazione a ridosso del fine settimana (senza weekend i cortei andrebbero deserti), in un’intervista concessa a Repubblica il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero di oggi con una serie di balle, inventando di sana pianta numeri a sostegno delle sue tesi. Cominciamo dalla magica soluzione con cui lui risolverebbe il problema delle risorse finanziarie per aumentare i redditi di lavoratori e pensionati. L’idea è la solita vecchia trovata della patrimoniale, che però Landini non applicherebbe sulla proprietà, ma sui redditi. «Chiediamo al governo di introdurre un contributo di solidarietà (meglio non chiamarla tassa, è poco carino, ndr) dell’1,3 per cento su 500.000 italiani con redditi netti annui sopra i due milioni: vale 26 miliardi».
Immagino che il segretario della Cgil abbia fatto i conti prevedendo redditi lordi intorno ai quattro milioni, perché un prelievo dell’1,3 per cento su redditi netti da due milioni applicato a 500.000 italiani dà esattamente la metà di quel che stima Landini. Ma il tema non è se il leader del principale sindacato abbia calcolato il contributo di solidarietà al netto o al lordo dello stipendio. Il problema è che in Italia non esistono 500.000 italiani che percepiscano né due né quattro milioni l’anno. Non so chi abbia raccontato questa balla al segretario, ma basta consultare le tabelle ministeriali per fasce di contribuenti per scoprire che nel nostro Paese a dichiarare più di 300.000 euro lordi (ossia meno di un decimo di quanto Landini vorrebbe tassare) sono 59.533 italiani, ovvero all’incirca un ottavo dei 500.000 a cui il leader Cgil vorrebbe prelevare l’1,3 per cento. Le statistiche del ministero non rivelano quanti siano i contribuenti che percepiscono quattro milioni lordi l’anno, ma basta girare la domanda a Chatgpt per vedersi rispondere che la fascia di chi si mette in tasca ogni anno due milioni netti è «una sottoclasse molto piccola di quella già piccolissima dei redditi molto elevati». Vado al sodo: se gli italiani che guadagnano 300.000 euro lordi sono meno di 60.000, a incassare quattro milioni saranno, forse, centinaia di persone. Dunque, la mirabolante soluzione di Landini è una «supercazzola» che, se introdotta, sarebbe un super flop, perché non porterebbe mai agli introiti da lui immaginati.
Ma Landini inanella anche altre sciocchezze degne di nota. Innanzitutto intima al governo di restituire 25 miliardi di tasse pagate da 38 milioni di lavoratori negli ultimi tre anni (guarda caso sono proprio gli anni in cui governa Giorgia Meloni: si vede che prima, pensionati e lavoratori non erano soggetti a scippi). Come spiega spesso numeri alla mano Alberto Brambilla, fondatore di «Itinerari previdenziali», centro di ricerca che si occupa di pensioni e redditi, il 43 per cento degli italiani non paga l’Irpef e il 12 per cento versa 26 euro. Dunque, dove stanno questi 38 milioni (i contribuenti in Italia sono 42 milioni) a cui sono stati scippati 25 miliardi? Nella fantasia del segretario. Il quale parla degli effetti del drenaggio fiscale, ma, come ha ben spiegato giorni fa il nostro Giuseppe Liturri, una recente ricerca della Bce ha dimostrato come le riforme fiscali del 2022-2023, unitamente alla riduzione dei contributi sociali, hanno quasi completamente azzerato il prelievo fiscale sui salari che viene applicato per effetto dell’aumento delle retribuzioni, con l’applicazione di aliquote più elevate. Anche qui lo dicono i numeri, quindi le decine di miliardi che sarebbero state sottratte a pensionati e lavoratori e di cui Landini chiede la restituzione sono un’altra super balla, perché dal 2022 l’aumento dei salari reali ha superato l’inflazione cumulata nello stesso periodo. Insomma, niente di quel che il segretario rivendica corrisponde al vero. Dunque, perché cerca di trascinare in piazza pensionati e lavoratori? Per difendere il suo salario prossimo venturo. Cioè per garantirsi una rendita di posizione quando non sarà più alla guida della Cgil.
Carlo Cottarelli ha aspettato un po’ a intervenire sulla questione della proprietà dell’oro di Banca d’Italia. Ma credo che se avesse atteso ancora un altro po’, prima di scrivere l’editoriale sul Corriere della Sera, sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per il rispetto della logica. Che dice l’ex funzionario del Fondo monetario ed ex senatore del Pd a proposito della questione che vede opporsi il governo italiano alla Bce? Faccio una breve sintesi del pensiero del professore. Punto primo. Le riserve auree sono di proprietà della Banca d’Italia perché lo dice la Banca d’Italia. Del resto, annota Cottarelli, i lingotti sono iscritti nell’attivo del bilancio dell’istituto di emissione e se non fossero di proprietà non potrebbero starci, a meno di una legge ad hoc che stabilisse diversamente.
Punto secondo. I trattati europei prevedono che l’oro debba essere posseduto dalla banca centrale di ogni singolo Paese? No, basta che sia gestito dall’istituto, prova ne sia che in Francia è di proprietà dello Stato ma la Banque de France è autorizzata a inserirlo per legge nel proprio attivo.
Già qui si capisce che il punto numero uno non è un dogma, ma una scelta politica. Infatti, se a Parigi è stabilito che i lingotti custoditi nei caveau della banca centrale sono dello Stato e non dell’istituto, il quale può iscriverli a bilancio nello stato patrimoniale, è evidente che ciò che sta chiedendo il governo italiano non è affatto una cosa strana, ma si tratta di un chiarimento necessario a stabilire che l’oro non è di Bruxelles o di Francoforte e neppure di via Nazionale, dove ha sede la nostra banca centrale, ma degli italiani.
È così difficile da comprendere? La Bce, scrive Cottarelli, non capisce perché l’Italia voglia specificare che le riserve sono dello Stato e «solo» affidate in gestione alla Banca d’Italia. E si chiede: quali vantaggi ci sarebbero per il popolo italiano se diventasse proprietario dell’oro? «Gli effetti pratici», si risponde il professore, «almeno nell’immediato, sarebbero nulli». Provo a ribaltare la domanda di Cottarelli: quali svantaggi ci sarebbero se all’improvviso il popolo italiano scoprisse che l’oro non è suo ma della Banca d’Italia e un giorno la Bce decidesse di annettersi le riserve auree degli istituti centrali? La risposta mi sembra facile: gli effetti pratici non sarebbero affatto nulli per il nostro Paese, che all’improvviso si troverebbe privato di un capitale del valore di circa 280 miliardi di euro.
Cottarelli chiarisce che il timore della Bce è dovuto al fatto che l’emendamento alla legge di Bilancio, con cui si vuole sancire che la proprietà dell’oro è del popolo italiano, in teoria potrebbe consentire al governo, al Parlamento o al popolo italiano la vendita dei lingotti. «Sarebbe demenziale», sentenzia il professore, perché l’oro «è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze». È vero ciò che sostiene l’ex senatore del Pd. Peccato che nessuno abbia mai parlato di vendere le riserve auree (anzi, nel passato ne parlò Romano Prodi, che mi risulta stia dalla stessa parte politica di Cottarelli), ma soltanto di stabilire di chi siano, se della Banca d’Italia, e dunque vigilate dalla Bce, o del popolo italiano.
Il professore però fa anche un’altra affermazione assolutamente vera: l’oro è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze. Ma chi stabilisce quando è gravissima un’emergenza? E, soprattutto, chi può decidere di usare quella riserva strategica? Il governo, il Parlamento, il popolo italiano o la Banca d’Italia su ordine della Bce? È tutto qui il nocciolo del problema: se l’oro è nostro ogni decisione - giusta o sbagliata - spetta a noi. Se l’oro è della Banca d’Italia o della Bce, a stabilire che cosa fare della riserva strategica sarà l’istituto centrale, italiano o europeo. In altre parole: dobbiamo lasciare i lingotti italiani in mano alla Lagarde, che magari di fronte a un’emergenza decide di darli in garanzia per comprare armi da destinare agli ucraini?
Tanto per chiarire che cosa significherebbe tutto ciò, va detto che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree. Il primo sono gli Stati Uniti, poi c’è la Germania, quindi noi. La Francia ne ha meno, la Spagna quasi un decimo, Grecia, Ungheria e Romania hanno 100 tonnellate o poco più, contro le nostre 2.400. Guardando i numeri è facile capire che il nostro oro fa gola a molti e metterci le mani, sottraendolo a quelle legittime degli italiani, sarebbe un affarone. Per la Bce, ovviamente, non certo per noi. Quanto al debito pubblico, che Cottarelli rammenta dicendo che se siamo proprietari dei lingotti lo siamo anche dell’esposizione dello Stato per 3.000 miliardi, è vero. Siamo tra i più indebitati al mondo: quinti in valore assoluto. Ma avere debiti non è una buona ragione per regalare 280 miliardi alla Lagarde, considerando soprattutto che circa il 70 per cento dei nostri titoli di Stato sono nelle mani di famiglie e istituzioni italiane, non della Bce.
Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…





