«I Papi passano, la Curia rimane». Leone XIV aveva già gettato l’amo in maggio, nella prima udienza con i cardinali, sottintendendo che la continuità (e non le divisioni) è la caratteristica primaria di chi prosegue nel ministero di Pietro. Ieri, durante l’incontro per gli auguri nel suo primo Natale da pontefice, è andato oltre: «L’amarezza a volte si fa strada anche tra di noi quando, magari dopo tanti anni spesi al servizio della Curia, notiamo con delusione che alcune dinamiche legate all’esercizio del potere, alla smania del primeggiare, alla cura dei propri interessi, non stentano a cambiare. E ci si chiede: è possibile essere amici nella Curia romana?».
Più che la stella cometa, un fulmine a ciel sereno. Necessario secondo Robert Francis Prevost per ridare centralità a Cristo, piuttosto che abbandonarsi ai personalismi, «alla smania di primeggiare», alla ricerca della vetrina di vescovi e cardinali. Quelli che nel pontificato di Francesco - il più mediatico della storia fra interviste, dichiarazioni di costume, atteggiamenti da marketing religioso - erano ritenuti pregi, oggi sono considerati difetti. Il Santo Padre l’aveva annunciato nel giorno della fumata bianca: «C’è un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità, sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché lui sia glorificato».
Il richiamo del Papa è uno sprone a ritrovare discrezione ed equilibrio. «È bello quando facciamo cadere maschere e sotterfugi, quando le persone non vengono usate e scavalcate, quando ci si aiuta a vicenda, quando si riconosce a ciascuno il proprio valore e la propria competenza, evitando di generare insoddisfazioni e rancori». È l’eterno conflitto, più o meno vellutato, fra pontefici e Curia romana, fra la guida e la cinghia di trasmissione della dottrina. Ed è ancora una volta un esempio del «metodo Prevost»: sorriso e trasparenza. Perché, come ha ricordato in questi mesi rivolgendosi soprattutto al Sinodo dei vescovi, «noi siamo fratelli e sorelle» ma «la Chiesa non è una democrazia». Il richiamo all’unità è fondamentale per stemperare la polarizzazione ideologica che percorre i corridoi vaticani, le divisioni fra progressisti e conservatori, le tensioni dietro le quinte.
Due le parole chiave che il Papa usa per raggiunge l’obiettivo: comunione e missione. «La comunione nella Chiesa rimane sempre una sfida», spiega nell’udienza degli auguri alla Curia romana. «Talvolta, dietro un’apparente tranquillità, si agitano i fantasmi della divisione. E questi ci fanno oscillare tra due estremi opposti: uniformare tutto senza valorizzare le differenze o, al contrario, esasperare le diversità piuttosto che cercare la comunione. Così si rischia di cadere vittime della rigidità o dell’ideologia».
Quanto alla missione, negli uffici «abbiamo bisogno di una Curia romana sempre più missionaria, dove le istituzioni e le mansioni siano pensati guardando alle grandi sfide pastorali e sociali di oggi e non all’ordinaria amministrazione. Le strutture non devono appesantire, rallentare la corsa del Vangelo. Al contrario». Il discorso del pontefice è un monito. Lui sa dei personalismi che hanno portato il Sinodo guidato dal cardinale Matteo Zuppi a votare il documento favorevole alla minoranza transgender e omosessuale bypassando dottrina e catechismo. Sa che le fughe in avanti del cardinale Víctor Manuel Fernández (la lettera sulla benedizione alle coppie gay) hanno procurato strappi e ribellioni nella Chiesa americana e africana. Sa che le spallate ideologiche per trasformare la carità nei confronti dei migranti in una Ong al servizio di Luca Casarini hanno messo in imbarazzo l’intero mondo ecclesiastico e buona parte dei fedeli.
Fra le righe, Leone XIV chiede alla Curia romana maggiore riflessione, maggiore unità (check and balance), per non dover fare ciò che il suo predecessore ha messo in pratica: scavalcarla. Papa Francesco non l’ha mai amata. Dormiva in Santa Marta, si è costruito un cerchio magico, chiudeva in un cassetto i discorsi scritti per improvvisare. Per le encicliche e le esortazioni si faceva aiutare dai fedelissimi (Fernández, Antonio Spadaro), non certo dalla congregazione per la Dottrina della fede quando era guidata da Gerhard Müller. Niente a che vedere con la sintonia fra papa Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger. Lo stesso Karol Wojtyla, per imprimere passaggi epocali, dovette circondarsi di fidati prelati dell’Est Europa.
La Curia romana è da sempre il «corpaccione», è l’intendenza napoleonica che non sempre «suivra». Leone XIV vuole averla dalla sua parte ma non dimentica un numero chiave: essendo composta anche da 163 cardinali nominati dal predecessore, è pronto a dribblarla. Gliel’ha fatto sapere a modo suo. Alla fine ha donato a tutti il libricino La pratica della presenza di Dio di fra Lorenzo della Risurrezione, carmelitano del Seicento che non scriveva neppure il cognome (Lawrence). Spiritualità e umiltà. Chi vuole intendere intenda.
«Non vedo Elly Schlein come premier». Finito di separare con la forchetta le verdure dal roast beef e di raccontarsi come uno Special one di sacrestia («Mai votato Dc anche se nipote di cardinale, a 15 anni fumavo la pipa»), Ernesto Maria Ruffini dà il titolo all’intervistatore del Foglio. «Ai miei occhi chi si vede adesso come premier anziché guadagnare punti ne perde. All’assemblea pd è andato a votare meno di un terzo dei membri». Una frase destinata a far andare di traverso la particola consacrata domenicale a Dario Franceschini, totem cattodem del Nazareno e neo-sponsor (con il Correntone) della Elly a Palazzo Chigi. Ma sembra che il Metternich di Piacenza debba rifare tutto perché l’ex gabelliere dell’Agenzia delle Entrate scende in campo e non ha alcuna intenzione di fare la comparsa.
«Io ci sarò quando sarà il momento», puntualizza riferendosi alle primarie, mentre schizza un disegno sul tovagliolo; a sinistra se la tirano tutti da artisti, avrà letto che all’inizio lo faceva anche Picasso per pagare il conto. Poi il promotore dei comitati «Più uno» aggiunge: «Ci sarò se si parla di contenuti. Il centrosinistra ha perso le elezioni non perché non avesse un leader ma perché non aveva un’idea. Quando l’ha avuta, con Romano Prodi, ha vinto». Più che a un campo largo aspira a un campo aperto «perché servirebbe un governo tutti insieme». Il governissimo, l’esecutivo del presidente, l’acme dei sogni bagnati della sinistra in affanno. Leggi e ti viene un dubbio: questa dove l’avevo già sentita? Ma certo, è l’emendamento Garofani. È la traduzione in bella copia della strategia del consigliere del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
«Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, ci vorrebbe un provvidenziale scossone»; per sconfiggere il centrodestra «basterebbe una grande lista civica nazionale», aveva rivelato Francesco Garofani durante una cena sportiva. Le frasi terremotarono la pace di cachemire del Colle e costarono a questo impertinente giornale, che le pubblicò, accuse patetiche e infamanti di complottismo e di eversione. Il Quirinale emise un comunicato grondante indignazione («Si è sconfinato nel ridicolo»). Il sistema mediatico dei colletti stirati scodinzolò. Il Pd si allarmò per la delegittimazione implicita della segretaria. Adesso arriva in motorino il nipote del cardinale di Palermo e ripete il progetto senza avere toccato un dito di vino: sono anche queste chiacchiere in libertà?
Ruffini fa lo gnorri, ammette solo che «a sinistra c’è rassegnazione e Garofani è un amico, ci lega anche il tifo (per la Roma, ndr)». Lapidario, telegrafico, si sta allenando a realizzare il sogno da ragazzino: fare lo scrittore delle frasi dei Baci Perugina. Il resto quadra tutto. Ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha come brodo di coltura il grande centro, come nume tutelare Mattarella, come leader da imitare Prodi («Ascolto sempre i suoi preziosi consigli»), come taxi da acchiappare il Pd, come pianta da coltivare l’ulivo. Da 30 anni i cattodem sono fermi al semaforo prodiano e oggi più che mai considerano Schlein un’intrusa «che non percepisce la realtà e non ascolta nessuno» (dixit Pier Luigi Castagnetti che una volta a settimana pranza con il capo dello Stato).
Il centrosinistra cattolico si è rimesso in moto con la speranza di attraversare il grande deserto elettorale. Sarà la sesta o settima volta che ci prova e finora i risultati sono stati da zero virgola. Ma «la provvidenza» di Ruffini è la stessa di Garofani, di Paolo Gentiloni, di Andrea Riccardi, del Sant’Egidio al completo, del cardinal Matteo Zuppi, del Vaticano gesuita e della Cei, di Graziano Delrio, del mattarellismo ecumenico. Sconfessato dal Pantheon, Franceschini si allineerà. Per la Schlein stanno per arrivare tempi duri. Rischia di scomparire in una catacomba o di farsi guidare la mano mentre stila le prossime liste elettorali; la seguace di Manu Chao dovrà vergare sotto dettatura i nomi di candidati e cacicchi per lei impresentabili, che guardacaso nel 2029 eleggeranno il presidente della Repubblica.
In questo aulico contesto, ieri è stata varata «Comunità riformista». Titolo di qualcosa che nasce vecchio. In Umbria, ad Assisi, Santa Maria degli Angeli, più di una benedizione, con lo scopo di «tenere insieme il riformismo socialista, la tradizione del cattolicesimo democratico, la tradizione liberale e quella dell’associazionismo», come ha puntualizzato Enzo Maraio, segretario di Avanti Psi. Ma fra i promotori del minestrone di verdura c’è proprio Ruffini che ha aggiunto: «Il laboratorio che parte qui ad Assisi chiama a raccolta tutte le forze riformiste per contribuire a formare un pensiero politico. L’ambizione è quella di creare una comunità e poi quella di governarla, per fare e per contrapporsi a questo governo».
Dietro di lui è uscito dalla nebbia (o dal sarcofago) un costruttore di percorsi silvani col bollino blu: Bruno Tabacci, simbolo evergreen del galleggiamento politico nella calma piatta dell’arzigogolo. «È necessario che forze del mondo riformatore abbiano la capacità di mettersi insieme; ci vuole generosità, serietà, impegno e profondità nei programmi». Per cominciare aspettano Garofani con un chilo di provvidenza. Poi gli happy few ci sono tutti. Anzi no, manca Clemente Mastella, quello della storica frase: «Quando sento odore di braciola mi avvicino». È solo questione di tempo.
Ed arbitro s’assise in mezzo a loro. La visione manzoniana del ruolo non ha più senso nei tribunali, figuriamoci a pelo d’erba dove rotola il pallone, nel delirio collettivo del football. Ma è proprio dall’arbitro che parte il giudizio del mondo sportivo, è ancora lui il termometro più attendibile per valutare lo stato di salute di un sistema. Ecco, se vale l’assunto, quello italiano è profondamente malato, quasi in coma. Lo si comprende da due vicende di questi giorni. Due storie, due anomalie: il caso Marco Guida e il caso Milan-Como a Perth, partita di campionato che sarà diretta da un fischietto asiatico.
L’arbitro di Pompei era il prescelto dai vertici dell’Aia per dirigere la finale di Supercoppa italiana a Ryad lunedì sera, con una postilla surreale: se non ci sarà il Napoli. In caso contrario (quindi nel mondo reale visto che gli azzurri di Antonio Conte hanno liquidato il Milan in semifinale) lui resta a casa e si scalda Andrea Colombo. Tutto questo perché tempo fa Guida chiese di stare lontano dalle partite dei campioni d’Italia «per salvaguardare la famiglia». Motivazione ufficiale: «La mattina devo andare a prendere i miei figli a scuola e voglio stare tranquillo».
Una scelta personale che il designatore Gianluca Rocchi ha accettato senza battere ciglio. Il timore è legittimo ma la vicenda è pazzesca: si tratta del primo caso di ricusazione palese di una squadra da parte di un arbitro. Il problema non sta nella gentilezza del venire incontro a un timore, ma nel condizionamento indotto a tutto il campionato, visto che Guida continua allegramente a fischiare o non fischiare rigori, a decidere o non decidere ammonizioni nelle partite dei club in lotta per lo scudetto, punto a punto proprio contro il Napoli. Poiché la stagione sembra avviata a una lunga, affascinante ed estenuante volata a quattro o a cinque (anche Milan, Inter, Roma, Juventus coinvolte) è molto probabile che la stranezza venga trasformata in aberrazione procedurale. I soliti sospetti? Se ci sono, è proprio la casta arbitrale ad alimentarli prima ancora delle curve.
Si parla tanto di regolarità del campionato ma un altro caso si profila a metterla in dubbio, un secondo bruco nella mela: la gita a pagamento di Milan e Como per disputare l’8 febbraio in Australia la sfida di campionato (San Siro sarà inagibile per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali). Per 12 milioni lordi da spartire - 5 al Milan, 4 al Como, 3 al resto del circo - la Serie A con il cappello in mano attraversa il globo e diventa per la Fifa un esperimento in provetta di calcio globale senz’anima. I tifosi rossoneri sono sulle barricate e il rimborso di 25 euro agli abbonati li lascia indifferenti: «Quella sarà una sfida vera, avremmo voluto esserci. Anche in campo neutro ma in Italia. Dov’è il rispetto per gli spettatori?».
Follow the money. Dalla federazione guidata dal traballante Gabriele Gravina e dalla Lega dell’impalpabile Ezio Simonelli nessuna opposizione, anzi un atteggiamento da leoni da scendiletto. La stessa proposta (Villarreal-Barcellona a Miami) era stata rigettata dopo un minuto dalla Liga spagnola. Noi no, noi siamo più cool, anche se l’Uefa medesima avrebbe volentieri vietato la gita da Erasmus del football. Con un problemino non secondario: l’arbitro sarà asiatico, designato dalla Fifa. E allora? E allora c’è il rischio di mandare in vacca la regolarità del campionato.
Il regolamento prevede (all’articolo 5) che «le gare ufficiali devono essere dirette da un arbitro designato dal competente organo tecnico dell’Aia». Sarà sufficiente un ricorso qualsivoglia per scatenare un putiferio. Chiamato a prendere posizione, il presidente della Commissione arbitri della Fifa, Pierluigi Collina, ha dato il via libera (come chiedere all’oste se il vino è buono). Lo sottolinea il numero uno della Lega, Simonelli: «Collina mi ha dato garanzie, ha fischietti di qualità da segnalare per la partita. Noi accetteremo questa condizione». Ma il vulnus regolamentare rimane, è l’elefante nella stanza mentre il mondo del pallone si sgonfia e perde credibilità. Lo stesso Gravina, risvegliandosi dal sonno dei giusti nutre qualche dubbio: «Sull’arbitro asiatico qualche riflessione va fatta, soprattutto in merito all’equa competizione». La stessa che con Guida in giro per l’Italia sarebbe salvaguardata, bontà sua.
Verghino signori, per un pugno di dollari si svende il calcio italiano, già malandato di suo. Lo si nota nel mini torneo arabo, dove la Supercoppa è custodita da hostess velate trattate da oggetti misteriosi, gli stadi sono semivuoti (va fatta la tara ai figuranti ingaggiati a pagamento) e i nomi dei calciatori - almeno quelli del Milan sponsorizzato Emirates - scritti in arabo sulla schiena. L’europarlamentare della Lega, Silvia Sardone, è saltata sul divano: «Le immagini mi hanno lasciata perplessa, è uno spot all’islamismo, la celebrazione del velo che è lo strumento di oppressione per eccellenza. Come può la Lega (calcio, non facciamo confusione - ndr) permettere tutto questo? Sappiamo che non è più sport ma solo una questione di soldi. Però a tutto dovrebbe esserci un limite. Basta con la svendita del nostro calcio».
Un’aggravante è l’inconsapevolezza dei protagonisti. Riassumendo la questua itinerante di Ryad e Perth, l’allenatore del Milan Max Allegri mostra lampi di entusiasmo: «Speriamo che tutto ciò sia un apripista del futuro del calcio italiano e non solo un caso isolato». Tanto lui è già tornato a casa.





