«Non vedo Elly Schlein come premier». Finito di separare con la forchetta le verdure dal roast beef e di raccontarsi come uno Special one di sacrestia («Mai votato Dc anche se nipote di cardinale, a 15 anni fumavo la pipa»), Ernesto Maria Ruffini dà il titolo all’intervistatore del Foglio. «Ai miei occhi chi si vede adesso come premier anziché guadagnare punti ne perde. All’assemblea pd è andato a votare meno di un terzo dei membri». Una frase destinata a far andare di traverso la particola consacrata domenicale a Dario Franceschini, totem cattodem del Nazareno e neo-sponsor (con il Correntone) della Elly a Palazzo Chigi. Ma sembra che il Metternich di Piacenza debba rifare tutto perché l’ex gabelliere dell’Agenzia delle Entrate scende in campo e non ha alcuna intenzione di fare la comparsa.
«Io ci sarò quando sarà il momento», puntualizza riferendosi alle primarie, mentre schizza un disegno sul tovagliolo; a sinistra se la tirano tutti da artisti, avrà letto che all’inizio lo faceva anche Picasso per pagare il conto. Poi il promotore dei comitati «Più uno» aggiunge: «Ci sarò se si parla di contenuti. Il centrosinistra ha perso le elezioni non perché non avesse un leader ma perché non aveva un’idea. Quando l’ha avuta, con Romano Prodi, ha vinto». Più che a un campo largo aspira a un campo aperto «perché servirebbe un governo tutti insieme». Il governissimo, l’esecutivo del presidente, l’acme dei sogni bagnati della sinistra in affanno. Leggi e ti viene un dubbio: questa dove l’avevo già sentita? Ma certo, è l’emendamento Garofani. È la traduzione in bella copia della strategia del consigliere del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
«Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, ci vorrebbe un provvidenziale scossone»; per sconfiggere il centrodestra «basterebbe una grande lista civica nazionale», aveva rivelato Francesco Garofani durante una cena sportiva. Le frasi terremotarono la pace di cachemire del Colle e costarono a questo impertinente giornale, che le pubblicò, accuse patetiche e infamanti di complottismo e di eversione. Il Quirinale emise un comunicato grondante indignazione («Si è sconfinato nel ridicolo»). Il sistema mediatico dei colletti stirati scodinzolò. Il Pd si allarmò per la delegittimazione implicita della segretaria. Adesso arriva in motorino il nipote del cardinale di Palermo e ripete il progetto senza avere toccato un dito di vino: sono anche queste chiacchiere in libertà?
Ruffini fa lo gnorri, ammette solo che «a sinistra c’è rassegnazione e Garofani è un amico, ci lega anche il tifo (per la Roma, ndr)». Lapidario, telegrafico, si sta allenando a realizzare il sogno da ragazzino: fare lo scrittore delle frasi dei Baci Perugina. Il resto quadra tutto. Ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha come brodo di coltura il grande centro, come nume tutelare Mattarella, come leader da imitare Prodi («Ascolto sempre i suoi preziosi consigli»), come taxi da acchiappare il Pd, come pianta da coltivare l’ulivo. Da 30 anni i cattodem sono fermi al semaforo prodiano e oggi più che mai considerano Schlein un’intrusa «che non percepisce la realtà e non ascolta nessuno» (dixit Pier Luigi Castagnetti che una volta a settimana pranza con il capo dello Stato).
Il centrosinistra cattolico si è rimesso in moto con la speranza di attraversare il grande deserto elettorale. Sarà la sesta o settima volta che ci prova e finora i risultati sono stati da zero virgola. Ma «la provvidenza» di Ruffini è la stessa di Garofani, di Paolo Gentiloni, di Andrea Riccardi, del Sant’Egidio al completo, del cardinal Matteo Zuppi, del Vaticano gesuita e della Cei, di Graziano Delrio, del mattarellismo ecumenico. Sconfessato dal Pantheon, Franceschini si allineerà. Per la Schlein stanno per arrivare tempi duri. Rischia di scomparire in una catacomba o di farsi guidare la mano mentre stila le prossime liste elettorali; la seguace di Manu Chao dovrà vergare sotto dettatura i nomi di candidati e cacicchi per lei impresentabili, che guardacaso nel 2029 eleggeranno il presidente della Repubblica.
In questo aulico contesto, ieri è stata varata «Comunità riformista». Titolo di qualcosa che nasce vecchio. In Umbria, ad Assisi, Santa Maria degli Angeli, più di una benedizione, con lo scopo di «tenere insieme il riformismo socialista, la tradizione del cattolicesimo democratico, la tradizione liberale e quella dell’associazionismo», come ha puntualizzato Enzo Maraio, segretario di Avanti Psi. Ma fra i promotori del minestrone di verdura c’è proprio Ruffini che ha aggiunto: «Il laboratorio che parte qui ad Assisi chiama a raccolta tutte le forze riformiste per contribuire a formare un pensiero politico. L’ambizione è quella di creare una comunità e poi quella di governarla, per fare e per contrapporsi a questo governo».
Dietro di lui è uscito dalla nebbia (o dal sarcofago) un costruttore di percorsi silvani col bollino blu: Bruno Tabacci, simbolo evergreen del galleggiamento politico nella calma piatta dell’arzigogolo. «È necessario che forze del mondo riformatore abbiano la capacità di mettersi insieme; ci vuole generosità, serietà, impegno e profondità nei programmi». Per cominciare aspettano Garofani con un chilo di provvidenza. Poi gli happy few ci sono tutti. Anzi no, manca Clemente Mastella, quello della storica frase: «Quando sento odore di braciola mi avvicino». È solo questione di tempo.
Ed arbitro s’assise in mezzo a loro. La visione manzoniana del ruolo non ha più senso nei tribunali, figuriamoci a pelo d’erba dove rotola il pallone, nel delirio collettivo del football. Ma è proprio dall’arbitro che parte il giudizio del mondo sportivo, è ancora lui il termometro più attendibile per valutare lo stato di salute di un sistema. Ecco, se vale l’assunto, quello italiano è profondamente malato, quasi in coma. Lo si comprende da due vicende di questi giorni. Due storie, due anomalie: il caso Marco Guida e il caso Milan-Como a Perth, partita di campionato che sarà diretta da un fischietto asiatico.
L’arbitro di Pompei era il prescelto dai vertici dell’Aia per dirigere la finale di Supercoppa italiana a Ryad lunedì sera, con una postilla surreale: se non ci sarà il Napoli. In caso contrario (quindi nel mondo reale visto che gli azzurri di Antonio Conte hanno liquidato il Milan in semifinale) lui resta a casa e si scalda Andrea Colombo. Tutto questo perché tempo fa Guida chiese di stare lontano dalle partite dei campioni d’Italia «per salvaguardare la famiglia». Motivazione ufficiale: «La mattina devo andare a prendere i miei figli a scuola e voglio stare tranquillo».
Una scelta personale che il designatore Gianluca Rocchi ha accettato senza battere ciglio. Il timore è legittimo ma la vicenda è pazzesca: si tratta del primo caso di ricusazione palese di una squadra da parte di un arbitro. Il problema non sta nella gentilezza del venire incontro a un timore, ma nel condizionamento indotto a tutto il campionato, visto che Guida continua allegramente a fischiare o non fischiare rigori, a decidere o non decidere ammonizioni nelle partite dei club in lotta per lo scudetto, punto a punto proprio contro il Napoli. Poiché la stagione sembra avviata a una lunga, affascinante ed estenuante volata a quattro o a cinque (anche Milan, Inter, Roma, Juventus coinvolte) è molto probabile che la stranezza venga trasformata in aberrazione procedurale. I soliti sospetti? Se ci sono, è proprio la casta arbitrale ad alimentarli prima ancora delle curve.
Si parla tanto di regolarità del campionato ma un altro caso si profila a metterla in dubbio, un secondo bruco nella mela: la gita a pagamento di Milan e Como per disputare l’8 febbraio in Australia la sfida di campionato (San Siro sarà inagibile per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali). Per 12 milioni lordi da spartire - 5 al Milan, 4 al Como, 3 al resto del circo - la Serie A con il cappello in mano attraversa il globo e diventa per la Fifa un esperimento in provetta di calcio globale senz’anima. I tifosi rossoneri sono sulle barricate e il rimborso di 25 euro agli abbonati li lascia indifferenti: «Quella sarà una sfida vera, avremmo voluto esserci. Anche in campo neutro ma in Italia. Dov’è il rispetto per gli spettatori?».
Follow the money. Dalla federazione guidata dal traballante Gabriele Gravina e dalla Lega dell’impalpabile Ezio Simonelli nessuna opposizione, anzi un atteggiamento da leoni da scendiletto. La stessa proposta (Villarreal-Barcellona a Miami) era stata rigettata dopo un minuto dalla Liga spagnola. Noi no, noi siamo più cool, anche se l’Uefa medesima avrebbe volentieri vietato la gita da Erasmus del football. Con un problemino non secondario: l’arbitro sarà asiatico, designato dalla Fifa. E allora? E allora c’è il rischio di mandare in vacca la regolarità del campionato.
Il regolamento prevede (all’articolo 5) che «le gare ufficiali devono essere dirette da un arbitro designato dal competente organo tecnico dell’Aia». Sarà sufficiente un ricorso qualsivoglia per scatenare un putiferio. Chiamato a prendere posizione, il presidente della Commissione arbitri della Fifa, Pierluigi Collina, ha dato il via libera (come chiedere all’oste se il vino è buono). Lo sottolinea il numero uno della Lega, Simonelli: «Collina mi ha dato garanzie, ha fischietti di qualità da segnalare per la partita. Noi accetteremo questa condizione». Ma il vulnus regolamentare rimane, è l’elefante nella stanza mentre il mondo del pallone si sgonfia e perde credibilità. Lo stesso Gravina, risvegliandosi dal sonno dei giusti nutre qualche dubbio: «Sull’arbitro asiatico qualche riflessione va fatta, soprattutto in merito all’equa competizione». La stessa che con Guida in giro per l’Italia sarebbe salvaguardata, bontà sua.
Verghino signori, per un pugno di dollari si svende il calcio italiano, già malandato di suo. Lo si nota nel mini torneo arabo, dove la Supercoppa è custodita da hostess velate trattate da oggetti misteriosi, gli stadi sono semivuoti (va fatta la tara ai figuranti ingaggiati a pagamento) e i nomi dei calciatori - almeno quelli del Milan sponsorizzato Emirates - scritti in arabo sulla schiena. L’europarlamentare della Lega, Silvia Sardone, è saltata sul divano: «Le immagini mi hanno lasciata perplessa, è uno spot all’islamismo, la celebrazione del velo che è lo strumento di oppressione per eccellenza. Come può la Lega (calcio, non facciamo confusione - ndr) permettere tutto questo? Sappiamo che non è più sport ma solo una questione di soldi. Però a tutto dovrebbe esserci un limite. Basta con la svendita del nostro calcio».
Un’aggravante è l’inconsapevolezza dei protagonisti. Riassumendo la questua itinerante di Ryad e Perth, l’allenatore del Milan Max Allegri mostra lampi di entusiasmo: «Speriamo che tutto ciò sia un apripista del futuro del calcio italiano e non solo un caso isolato». Tanto lui è già tornato a casa.
«La Costituzione di un Paese non è un giudice imparziale e indipendente». Scintille e fumo nero: due locomotive lanciate l’una contro l’altra su un binario unico. Sono l’Unione europea, con il suo braccio armato della Corte di giustizia, e la Polonia, riluttante a dimenticarsi (come spesso accade ad altri membri dell’Unione) di essere un Paese sovrano. Vengono prima le leggi comunitarie o la Costituzione delle singole nazioni? La questione rimane lì, sospesa in un limbo leguleio dove i principi astratti fungono da innocui placebo. Ma quando tocca situazioni concrete, ecco gli attriti, le minacce, le controdeduzioni al curaro. A conferma che l’Europa dei popoli è ancora una pia apparizione scomparente. Niente a che vedere con quella del denaro, oliata con piglio dittatoriale dalla Bce.
L’ultimo episodio di un lungo braccio di ferro risale a ieri, quando i giudici lussemburghesi della Corte Ue hanno stabilito con una sentenza che «la Consulta polacca ha violato diversi principi fondamentali del diritto dell’Unione, non rispettando la giurisprudenza comunitaria». Una dichiarazione di guerra perché i giudici che rispondono a Bruxelles hanno aggiunto in neretto: «la Corte costituzionale polacca non è un giudice imparziale e indipendente», riguardo a presunte irregolarità che avrebbero «viziato» la nomina di tre suoi membri. Una delegittimazione in piena regola della carta fondativa della democrazia di Varsavia che i progressisti europei hanno applaudito con entusiasmo.
La diatriba partì una decina di anni fa quando la Polonia decise di cambiare il sistema di nomina dei giudici della Corte costituzionale, poi di modificare una norma della legge giudiziaria, con la novità del ministro della Giustizia supervisore della Procura generale. Allora, al tempo di Mateusz Morawiecki premier, come Paese sovrano riteneva di averne pieno diritto. Al contrario, per Bruxelles si trattava di un abuso e immediatamente scattò l’accusa di trasformare i tribunali in uno strumento del governo. Di ricorso in ricorso, si è arrivati al conflitto totale, quindi allo stallo armato. Anche oggi, con il turboeuropeista Donald Tusk al governo, lo scenario non muta: per chi ha conosciuto la schiavitù della dittatura, una cessione di sovranità a chicchessia non è mai un piacere e non è mai gratis.
I polacchi non hanno piegato la testa e hanno respinto al mittente le accuse, affidandosi perfino alle parole di Jean Jacques Rousseau che 300 anni fa, nel saggio Considérations sur le gouvernement de Pologne, teorizzava l’importanza dell’amor patrio e del concetto di libertà per recuperare l’indipendenza (dalla Russia zarista, guardacaso). La Corte costituzionale di Varsavia ha dichiarato in due sentenze che alcune norme dei trattati europei sono contrarie alla Carta nazionale, quindi da respingere. Con un’aggiunta incendiaria: «La giurisprudenza della Corte relativa al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva è esorbitante dai poteri che le sono stati conferiti». Esorbita, quindi stia al suo posto.
Da qui è nato il ricorso della Commissione Ue ai giudici lussemburghesi per «violazione dei principi fondamentali del diritto dell’Unione». La Corte di giustizia lo ha accolto e ha accusato la Polonia «di non aver rispettato il primato, l’autonomia, l’effettività e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, nonché l’effetto vincolante delle decisioni della Corte». Poi ha demolito la Corte costituzionale polacca mettendone in dubbio indipendenza e imparzialità. Ora la palla torna alla Polonia, giudicata inadempiente. Secondo la Ue, dovrebbe ricambiare la Costituzione per adeguarla agli standard di Bruxelles, neanche fosse un motore ibrido non sufficientemente green. Pena il warning che porterebbe a pesanti sanzioni pecuniarie e a un congelamento delle risorse economiche destinate a quel Paese.
Si esorbita o non si esorbita? Il conflitto di competenza non riguarda solo Varsavia ma tutti, anche l’Italia. E spiega perché gli spiccioli di sovranità rimasti ai 27 membri dovrebbero essere difesi (per esempio dall’invadenza ricattatoria del Mes). È doveroso chiedersi una volta per tutte: in caso di disputa, è più importante la Carta costituzionale o i trattati europei? Difficile rispondere, mentre si profila un nuovo scontro sulla vicenda dei migranti, degli hub all’estero e sulla definizione di «Paesi di origine sicuri».
Nonostante le pronunce della Commissione Ue e della Corte di giustizia europea che anticipano un via libera di fatto, il giudice italiano Luca Minniti (presidente della sezione Immigrazione di Bologna) ha dichiarato che «sarà sempre un pm a decidere nel merito, le nuove norme sono a rischio incostituzionalità». In questo caso la sinistra si schiera acriticamente contro i giudici lussemburghesi e a favore di quelli italiani, dei quali è spesso succube. Di conseguenza, i polacchi vanno puniti perché non rispettano il primato di Bruxelles, il governo Meloni va punito perché lo rispetta. Titolo consigliato e tratto da una massima di Luciano De Crescenzo: «Eppure è sempre vero anche il contrario».





