Pagliuzze e lenti al contrario, è sempre una questione di prospettiva. Sembra di sentirla Elly Schlein mentre lancia «l’allarme democratico» su ogni emendamento bocciato dall’esecutivo; sembra di vederla la ditta Bonelli&Fratoianni mentre sfila sotto lo striscione «pacifismo e resistenza» anche al corteo contro i test di Medicina all’università. Dal primo giorno del governo di Giorgia Meloni, la sinistra (con tutte le sue sfumature di rosso) mette in guardia il popolo dalle derive autoritarie, dalle tentazioni squadriste, dagli eccessi della polizia col manganello, dalle «coazioni a ripetere» in camicia ovviamente nera. Poi, liberata la coscienza, scende in piazza e mena. Scende in piazza e brucia i libri. Scende in piazza e fa scoppiare bombe chiodate in mezzo ai poliziotti. Con la consueta giustificazione: c’è il compagno che bisbiglia e quello che sbaglia.
Non si tratta di una provocazione dadaista, è la fotografia di un 2025 cominciato con il proposito di Maurizio Landini: «È arrivato il momento di una vera rivolta sociale». E concluso (forse, magari, chissà) con l’inseguimento a Genova di alcuni energumeni Fiom ai delegati della Uilm, con corollario artistico di calci e pugni in testa. Perché? Andavano convinti a fare sciopero. Mentre osservano con la lente le pagliuzze negli occhi degli altri, i pacifisti per decreto non hanno paura di mostrare travi grandi come l’albero maestro dell’Amerigo Vespucci. Nessuno gliele fa notare, men che meno i media compiacenti. Ergo, non esistono. Quindi si può procedere a esibire la mercanzia in ogni settore merceologico dell’opposizione violenta.
Violenta nelle manifestazioni pubbliche dove lo scontro fisico è tornato ad essere - dopo anni di concertazione con i questori - un imperativo categorico. In nome della pace e della causa Pro Pal si sfasciano vetrine, si bruciano automobili, si devastano luoghi pubblici. Centri sociali e Collettivi studenteschi di estrema sinistra sono liberi di pascolare nelle città (Roma, Milano, Genova, Torino ma anche Pisa, Venezia, Bari) cercando lo scontro con le forze dell’ordine perché «la rivolta sociale» chiamata da Landini non è un pranzo di gala.
Nel 2024 sono finiti all’ospedale 273 agenti, +127% rispetto all’anno precedente, con tendenza al peggioramento significativo nell’anno che sta per concludersi; per ora i feriti in divisa sono 325 (+52%). I fascisti sono gli altri, nel frattempo i manovali della rivoluzione permanente menano che è un piacere. Occhio alle pagliuzze e occhi neri.
L’esempio più recente di doppia morale è stato l’assalto alla redazione de La Stampa di Torino da parte dei black block di Askatasuna. Stupefacente la leggiadra copertura politica da parte del sindaco del Pd Stefano Lo Russo, che mentre i leonka torinesi devastavano gli uffici portava avanti il progetto per trasformare il centro sociale in «bene comune». Con la collaborazione degli ultrà da cittadinanza onoraria come Francesca Albanese, che ha preso lo spunto per definire «un monito ai giornalisti» il raid dei teppisti comunisti.
Identico principio per la violenza antisemita, ricomparsa sotto le keffiah e condita con l’ipocrisia di chi oggi governa la piazza usandola come arma contundente per governare domani il Paese. Ebrei all’indice, genocidio palestinese, Israele paragonato alla Germania nazista, la sinagoga di Monteverde a Roma imbrattata: a messaggi brutali seguono azioni brutali. E l’album di famiglia è sempre lo stesso. La sinistra radicale di Schlein si chiama fuori ma mostra la corda sul disegno di legge di Graziano Delrio (contrasto all’antisemitismo) per non irritare i Pro Pal. «Era un’iniziativa personale, non del partito», ha preso le distanze il Correntone del Nazareno. Come se stesse difendendo gli estremisti che al grido di «fuori i sionisti dall’università» a Ca’ Foscari hanno impedito a Emanuele Fiano di parlare.
«Mi hanno fatto il gesto della P38, anche mio padre fu zittito durante il fascismo», ha detto quasi in lacrime l’ex deputato dem. Poi, per un curioso riflesso condizionato antifa, ha fatto anche lui il tifo per la cacciata dalla rassegna libraria «Più libri più liberi» della piccola casa editrice di destra Passaggio al bosco, immediatamente mascariata di «nazifascismo». Caro Fiano, questa è coerenza. Così, oltre alla violenza fisica e a quella ideologica, ecco che nelle pieghe del progressismo illuminato si annida la violenza culturale. Con gli intellettuali cosiddetti liberal a reggere la coda alla censura: Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Corrado Augias, il triste fumettista Zerocalcare.
Ottanta campioni del pluralismo a senso unico schierati a zona integrale, con in mano il fiammifero per mandare al rogo titoli che non piacciono, junk ideology, impraticabile per gente che si pretende alla moda. La kultur che passa la frontiera senza il rischio del controllo è quella delle idee liofilizzate: marxismo elementare, resistenzialismo apologetico, terzomondismo da delegata Onu, anticapitalismo studiato sui bigini. Dove la Storia non è più una scienza ma un genere letterario. Il brodo di coltura del perfetto doganiere del pensiero, che grida alla dittatura degli altri prima di usare la clava in proprio.
Legittima difesa o illegittima vendetta? Secondo la sentenza d’Appello del tribunale di Torino non ci sono dubbi: i 14 anni e 9 mesi inflitti a Mario Roggero sono una dura punizione per chi «è andato oltre». La giustificazione d’una «reazione istintiva per proteggere la famiglia» dai rapinatori non ha retto in aula ma diventa il cuore del dibattito scaturito dalla severa condanna del gioielliere di Grinzane Cavour. Siamo in presenza di qualcosa che va al di là del provvedimento giudiziario e tocca il nervo scoperto della protezione dei cittadini da parte dello Stato. Prima che sia tardi, prima che sia Far West.
«Lo so che, viste le modalità, in molti pensano che la sentenza sia giusta, ma non può esistere un eccesso di legittima difesa». Annamaria Bernardini de Pace va dritta al punto con la consueta perizia. «Secondo me, oltre al rispetto della legge è fondamentale l’etica nell’applicarla. Mi chiedo perché si sia così severi, legittimamente, con gli stupratori e non nel valutare il gesto di rapinatori che per primi attentano alla vita del cittadino perbene. Per dirla con una semplificazione, se i giudici non fossero garantisti nei confronti dei criminali ci sarebbero meno crimini». Secondo la celebre avvocatessa milanese, l’impatto sociale della sentenza è enorme. «Oltre all’eccesso di legittima difesa, i giudici dovrebbe preoccuparsi per l’eccesso di criminalità oggi in Italia, determinato anche da certe decisioni dei tribunali».
Il tema è delicato e ha un centro motore evidente: il cittadino sempre più indifeso, laddove il percepito sconfina nella realtà. Per Roberto Poletti, conduttore Mediaset, non ci sono dubbi. «È una questione di scelta di campo, o stai dalla parte dei rapinatori o da quella del gioielliere. Purtroppo in questo caso lo Stato sta dalla parte dei rapinatori trasformati in vittime. Tutto ciò con buona pace dell’assunto secondo cui la difesa è sempre legittima. Una simile sentenza è destinata ad aumentare la conflittualità fra magistratura e politica, sulla pelle dei cittadini perbene. E per la soddisfazione di una sola categoria, quella dei malviventi».
«Quando non si è giuristi è difficile entrare nel dettaglio, ma in questo caso noto che la severità della legge non è uguale per tutti». Marcello Foa approccia l’argomento con un parallelismo calzante. «Mi colpisce la simultaneità di questa notizia con quella del rinvio a giudizio dei sette carabinieri per il caso milanese di Ramy Elgaml, il ragazzo morto dopo essere sfuggito a un posto di blocco. La mia sensazione è che i giudici eccedano nel calcare la mano sui militari che hanno compiuto soltanto il loro dovere o, nel caso del gioielliere, sui cittadini onesti. E in altre circostanze, per esempio davanti alle manifestazioni violente delle piazze, lascino correre con eccessiva leggerezza».
Per il giornalista e opinionista tv, da questo magma emerge un senso di mancata protezione dei cittadini. «In altri Paesi non è così, difficilmente all’estero i tutori dell’ordine sarebbero stati messi sotto processo, sullo stesso piano di chi delinque. Tornando al gioielliere, giustificare il gesto puro e semplice con l’inseguimento fuori dal negozio è impossibile. Ma bisogna anche considerare la reazione emotiva del commerciante già rapinato in passato, la paura per l’incolumità dei famigliari. Tutte attenuanti che non possono essere dimenticate. In questi scenari, dentro queste penombre, è fondamentale ripristinare un valore assoluto: la tutela dei cittadini onesti».
Un’opinione condivisa da Giuseppe Cruciani. Il conduttore de La Zanzara su Radio24 chiarisce subito un concetto: «Mi sento più vicino al gioielliere che ai rapinatori. E mi sorprende constatare che una persona incensurata che ha aperto un’attività con investimenti, sacrifici e dedizione, si ritroverà in prigione anche a lungo. Al di là delle modalità, questa non può che essere un’assurdità. Viste dall’esterno le circostanze fanno riflettere, quel rapinatore colpito a terra è testimonianza di una reazione sconsiderata. Ma lo Stato deve saper difendere l’uomo onesto, senza precedenti penali, già vittima di rapina e travolto di nuovo da una situazione per lui impensabile, in preda alla paura e all’eccesso di emotività. Le famiglie dei malviventi verranno risarcite mentre Roggero, se la Cassazione non cambierà la sentenza, si farà 14 anni di carcere. Qui siamo al paradosso».
Nicola Porro ha postato sul suo profilo Facebook la vicenda con un commento lapidario: «Una storia che fa gelare il sangue». Lo approfondisce così: «Una condanna incredibile. Il punto vero non è nella legittima indignazione per la sentenza, ma nel considerare che i magistrati non si rendono conto degli effetti. Fa notizia il giustiziere, non il fenomeno della microcriminalità, il veleno quotidiano che rovina la vita dei cittadini. Il caso del gioielliere conferma la totale incapacità della giustizia di affrontare questa piaga sociale. Ormai in Italia c’è un livello di microcriminalità insopportabile, stiamo arrivando a grandi passi alla giustizia fai da te. Il Far West è già qui».
Sono ore difficili per i sinceri democratici. Uno di quei momenti in cui non sai come fare per consolare Lilli Gruber e non deludere Gianrico Carofiglio. Càpita quando una delle tre entità intoccabili della sinistra viene messa in discussione, figuriamoci se sono due in un colpo solo. Quirinale, Unione europea, Magistrati: parole da scrivere con la maiuscola sennò è eversione, è squadrismo lessicale, è scempio della Costituzione. Poi arriva lo scandalo di Federica Mogherini e al Nazareno (con media connessi al seguito) vanno in tilt. Elly Schlein chiede a Francesco Boccia: «Meglio stare con l’Ue o con i pm?». Andrea Orlando, che passa di lì e fu ministro della Giustizia, sarebbe per tuonare contro l’indagata («È renziana») e difendere l’inseparabilità dei destini con gli amici magistrati. Decisione finale del cardinale Dario Franceschini con il righello in mano: «Bruges è lontana e dei giudici belgi ci importa zero. Facciamo che i compagni sono innocenti fino a prova contraria».
Così, in un giorno strano, di quelli che si ricordano come il passaggio della cometa di Halley, accade qualcosa di meraviglioso: la sinistra scopre il garantismo. I manettari per eccellenza diventano garantisti in purezza. È sempre un bel momento, come innamorarsi a 60 anni. Qualcosa di sconosciuto quando si trattò di massacrare per un quarto di secolo Silvio Berlusconi; quando Matteo Salvini da ministro è stato mandato a processo per sequestro di persona per avere difeso i confini nazionali dall’immigrazione clandestina; quando Attilio Fontana si è visto accusare per avere regalato càmici agli ospedali durante la pandemia. Allora i canini affilati del Pd cercavano la giugulare, sempre e comunque a fianco dei pm, seguendo la regola di Pier Paolo Pasolini: «Io so ma non ho le prove». Eccerto, le prove in certi processi sono un optional.
«La macchina del “sono tutti colpevoli” è già in moto». Se lo scrive Il Foglio - garantista dalla fondazione - ha un senso. È più singolare vedere le storiche mosche cocchiere dei pm muovere distinguo, prendere le distanze, fingersi liberali con un furore nuovo, addirittura esagerato. E ritrarsi schifate dal «processo mediatico», tanto Bruges è a 1.500 chilometri, chi ti si fila? La difesa d’ufficio è affidata a Walter Verini, veltronian-renziano e poi zingarettiano senatore dem, che non sapendo cos’altro dire si sorprende. «Le notizie su Federica Mogherini mi avevano lasciato incredulo, avendola conosciuta come persona perbene e molto preparata, in tutti i ruoli svolti. Per questo certi titoli e articoli di alcuni giornali erano sconcertanti: condanna senza appello, gogna, demolizione preventiva».
Praticamente il precipitato politico di 30 anni di giustizialismo di sinistra smantellato in una frase. Sono soddisfazioni. Ma Verini, che sembra leggere un’arringa a caso dell’avvocato Niccolò Ghedini buonanima, non ha finito. «E sono sconcertanti gli articoli, anche perché in totale sintonia con le dichiarazioni diffuse dalla portavoce di Vladimir Putin e dal regime di Viktor Orbán. Ora che il fermo è stato revocato, mi auguro che il lavoro della magistratura contribuisca a fare chiarezza, a dissipare ogni ombra e ogni sciacallaggio».
Della serie: siamo tutti garantisti almeno per un giorno. Quello in cui il tintinnio di manette è risuonato a sinistra. A supporto arriva l’eurodeputato Dario Nardella, con una tesi curiosa: l’inchiesta sarebbe un danno d’immagine per l’Italia. E allora? Meglio non farla. Di fatto lo è perché, esattamente come per il Qatargate, mostra le mani in pasta (accuse di frode e corruzione) degli onesti per decreto. Ma l’ex sindaco di Firenze intende altro. «Non conosco e non posso entrare nella vicenda giudiziaria. Solo non vorrei che si trasformasse in un fuoco di paglia con l’unico effetto di danneggiare ancora una volta l’immagine dell’Italia». Alla domanda di Repubblica se l’inchiesta possa scaturire da una ritorsione, in quanto Mogherini è stata da poco nominata a Bruges pur non essendo un’accademica, lui risponde: «Mi auguro di no, anche perché il criterio della partenza accademica non è vincolante e Mogherini ha portato un grande contributo di esperienza maturata sul campo, durante il suo incarico in Commissione europea».
C’è qualcosa di artificioso, contro natura, nella difesa d’ufficio messianica. Qui non si tratta di salvaguardare un principio scontato (l’imputato è innocente fino al terzo grado di giudizio) e spesso dimenticato dal Pd per non irritare l’alleato in toga. Qui si tratta di negare addirittura gli addebiti, come se fosse un volgare esercizio di lesa maestà. Per questo la sinistra unita non sopporta una frase al curaro di Roberto Vannacci: «Ogni volta che in Europa scoppia uno scandalo, la ruota gira e finisce sempre lì». La gastrite provocata dalla frecciata del generale è dolorosa e Nardella non si trattiene. «Anziché lanciare accuse infondate su cose che non conosce, Vannacci ci spieghi a che punto è la restituzione dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali alla Lega, di cui lui è vicepresidente, sottratti in modo illecito allo Stato».
A questo punto, davanti alla bufala stantia che neppure il cretino collettivo dei social ripete più, ti accorgi che l’integerrimo mondo dem è alle corde. E il garantismo, da quelle parti, è un salvagente bucato. Poco male. In Belgio la separazione delle carriere c’è già.





