«Se la guerra diventa l’unico tema si perde il contatto con la realtà». Parla agli studenti e pensa all’Europa, Carlo Messina all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Luiss a Roma. Davanti alla classe dirigente del futuro, il ceo di Banca Intesa decide di abbandonare grafici e coefficienti, di tenersi in tasca proiezioni e citazioni da banker stile Wall Street per mettere il dito nella piaga di un’Unione Europea votata ottusamente al riarmo fine a se stesso. «La difesa è indispensabile, ma è possibile che la priorità di quelli che ci governano sia affrontare tutti i giorni il tema di come reagire alla minaccia di una guerra?».
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
Includere escludendo, il club degli intelligenti per decreto è sempre un giro avanti anche sul Natale. Dopo avere trasformato i pastori in migranti, i re Magi in attivisti pro Pal, la Madonna in una peripatetica, San Giuseppe in una drag queen e la stella cometa in un razzo su Gaza, non restava che cancellare Gesù Bambino. In attesa di farlo dal presepe, a Reggio Emilia lo hanno espulso dal canto più amato dai bimbi, Jingle Bells. Una deportazione canora in piena regola, messa a punto dai parolieri della scuola primaria San Giovanni Bosco (istituto comprensivo Ligabue) che hanno deciso l’epurazione religiosa dalla versione italiana per il consueto motivo peloso: non urtare la suscettibilità dei musulmani. I quali, peraltro, da anni vedono in questa gratuita sottomissione culturale uno dei segnali più evidenti della degenerazione dei valori occidentali.
Il laicismo intrinseco della canzone americana - nata nel New England per celebrare la festa del ringraziamento fra cavalli, slitte e campanelli - non bastava a soddisfare il fanatismo anticlericale progressista. Nel testo italiano c’è quel nome, Gesù, che in vista della recita di Natale infastidiva a pelle gli ayatollah del woke. Nessun problema, i Mogol da scuola elementare hanno cambiato due strofe. Invece di «Aspettando quei doni che regala il buon Gesù» ecco «Aspettano la pace e la chiedono di più». E ancora «Oggi è nato il buon Gesù» diventa «Oggi è festa ancor di più». Il Dio cristiano è sparito dai radar e le nuove rime somigliano a un’omelia del cardinal Matteo Zuppi.
Tutti contenti in collegio docenti, soprattutto la preside Francesca Spadoni che ai genitori perplessi si è limitata a dire: «Jingle Bells, canto laico e folcloristico, esiste in molteplici versioni. Il team docente, nell’esercizio della propria libertà d’insegnamento, ha semplicemente scelto una versione in linea con i suoi obiettivi pedagogici e didattici». Se valesse il principio, sarebbe interessante leggere la sua versione onirica della Divina Commedia o del 5 Maggio del Manzoni. Del resto, se Dio è morto (Friedrich Nietzsche) non si capisce perché debba resistere quel neonato nella mangiatoia. Poiché siamo a Reggio Emilia, farebbero prima a metterci la benemerita Francesca Albanese con il pugno chiuso, e come nenia utilizzare gli sfottò della medesima al sindaco Marco Massari.
Il Pd locale gongola. Non gli restava che cancellare Gesù Bambino dai canti di Natale, terremotare i simboli della cristianità. Il consigliere comunale dem Federico Macchi ha parlato per tutti con prosopopea da Luciano Canfora: «La scuola, che peraltro è laica, deve educare e nel testo proposto ai bambini (in particolare dove al posto dell’attesa dei doni si è sostituita l’attesa di pace) colgo proprio un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace, temi che sempre dovrebbero caratterizzare la missione educativa dei nostri istituti». Già, perché Jingle Bells (titolo italiano Din don dan) è una pericolosa canzone bellicista.
L’annullamento culturale in nome di un’inclusione superficiale e sgangherata non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio di uno Stato, ma fa parte dello sciocchezzaio progressista al quale si accodano timidi cattodem avvolti nei sensi di colpa. In questo caso il partito di maggioranza si sentiva in dovere di assecondare le richieste dell’assessora alle Politiche educative con delega alla Scuola dell’obbligo, Marwa Mahmoud (musulmana di origine egiziana), che un mese fa aveva catechizzato gli insegnanti invitandoli a «decolonizzare lo sguardo» e a promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Detto fatto. Sbianchettare Gesù Bambino da Jingle Bells in italiano è il nobile risultato, ottenuto applicando il vecchio principio comunista «eliminarne uno per educarne cento».
L’iniziativa sta provocando inevitabili polemiche. Il capogruppo della Lega di Reggio Emilia, Alessandro Rinaldi, ha alzato il volume della radio: «Censurare Gesù dalle canzoni di Natale nelle scuole in nome dell’inclusione è una deriva inaccettabile. Una scelta sbagliata, ideologica e profondamente diseducativa. Il Natale ha un’identità chiara: è una festa cristiana». Il segretario provinciale di Fdi, Alessandro Aragona, definisce l’episodio «atto di autolesionismo culturale, la prova di una deriva ideologica della sinistra che mira a cancellare le radici storiche e della civiltà europea».
Il dossier è sulla scrivania del ministro Giuseppe Valditara, che potrebbe decidere di inviare gli ispettori per chiarire le responsabilità. Ma la reazione ministeriale sarebbe sproporzionata, addirittura superflua. In questi casi dovrebbero essere i genitori a prendere le distanze dal ridicolo. Anche perché la sacra famiglia, pur strapazzata dalla superficialità di chi pretende di includere escludendo 2.000 anni di cristianesimo, continua a parlarci. E giudica chi la sta violentando.
«Da oggi il Piano Mattei è una strategia europea». Giorgia Meloni scandisce soddisfatta la frase, consapevole che il progetto - costruito due anni fa anche per regolamentare le migrazioni - avesse un senso, una concretezza e un’adesione al diritto internazionale al di là delle pernacchie da curva sud della sinistra cattodem, dei giudici e delle ong a rimorchio. Alla conversione a U dell’Unione su uno dei temi chiave per la sua stessa esistenza mancava un sì: è arrivato ieri dal Consiglio d’Europa, l’organismo più appiattito sui presunti diritti universali, direttamente collegato alle associazioni umanitarie di ogni ordine e grado, sempre pronto a denunciare violazioni dei diritti umani, con attenzione maniacale alle forze dell’ordine italiane. Ebbene: sì a cambiare politica, sì ai rimpatri dei richiedenti asilo respinti, sì a rispedire al mittente i criminali, sì agli hub in Paesi terzi, per esempio l’Albania.
«La strumentalizzazione della migrazione, il traffico di migranti, la tratta di esseri umani e altre attività criminali che minacciano la stabilità e la sicurezza sono sfide reali e legittime». Lo ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio Ue) Alain Berset, svegliatosi da un lungo sonno, nel suo discorso a Strasburgo durante il summit sull’immigrazione con i ministri dei 46 Stati membri. Ora anche per il braccio amnesty dell’Europa «elaborare un modello di accordo per i rimpatri e le esternalizzazioni» è diventata una priorità. E lo strumento giuridico dovrà indicare chiaramente «come gli Stati interpretano la convenzione nei casi di migrazione, anche in relazione alle attività criminali».
L’allineamento del Consiglio è arrivato dopo due eventi decisivi. 1) La lettera aperta firmata da nove Stati, fra i quali l’Italia, nella quale si contestava alla Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) un’eccessiva interferenza nelle politiche migratorie delle nazioni sovrane. 2) Il voto di 27 Paesi favorevoli al cambio di passo, con richiesta - anche questa promossa da Italia e Danimarca - di aggiornare la Convenzione dei Diritti dell’uomo, abbandonando la visione ideologica per garantire che «la sicurezza ai cittadini sia tutelata e non subordinata a interpretazioni della legge favorevoli a individui che hanno commesso gravi violazioni».
In sintesi i rappresentanti dei Paesi membri hanno ribadito la necessità che «il testo tenga conto della responsabilità fondamentale dei governi di garantire gli interessi vitali nazionali, quali la sicurezza e l’ordine pubblico». Il segretario generale Berset ha fiutato il vento, ha recepito e ha indicato anche una tempistica: subito la stesura di una dichiarazione politica del Comitato dei ministri sui temi dell’immigrazione, da adottare già a maggio nella riunione plenaria di Chisinau (Moldova); in seguito il Consiglio formalizzerà un documento che dovrebbe essere pronto fra 12-18 mesi, con la consueta calma della grassa euroburocrazia.
Una vittoria su tutto il fronte per Giorgia Meloni e il suo governo, che lunedì sul regolamento dei rimpatri avevano incassato il sì del Consiglio affari interni dell’Ue. Ieri a Bruxelles c’era la Conferenza dell’Alleanza globale contro il traffico di migranti, con 80 delegazioni degli Stati membri, partner internazionali, Paesi africani. Collegandosi in video, il premier italiano ha mostrato soddisfazione: «Gestire i flussi migratori è possibile, un’alternativa concreta alla tratta di esseri umani è fattibile e la legalità deve essere al primo posto. Il drastico calo dei flussi migratori irregolari, la significativa diminuzione dei decessi e delle sparizioni nel Mediterraneo dimostrano che la cooperazione sta funzionando. L’Italia ha proposto soluzioni innovative che ora sono viste con interesse e stanno diventando prassi comuni. Mi riferisco in primis al protocollo Albania. Oggi il Piano Mattei non è solo una strategia italiana ma diventa una prassi europea».
Con un problema umano che discende dalla bontà dell’iniziativa: Ursula von der Leyen prova a intestarsi l’idea. Dimenticandosi con un atto di rimozione freudiana del «grande abbraccio ai popoli in cammino» e dell’accoglienza diffusa (tanto cara anche a Sergio Mattarella), il presidente della Commissione ha benedetto la sterzata, ha annunciato che «gli arrivi dei migranti irregolari sono in calo, -26% quest’anno e -37% l’anno scorso». E ha salutato con fervore il contrasto agli scafisti, «perché il traffico di migranti è una forma di schiavitù moderna e dobbiamo fare di più per combatterla». Neanche fosse improvvisamente favorevole a bucare con il trapano le chiglie dei barconi. Con un lampo da commedia dell’arte ha aggiunto, mentre le si allungava il naso: «Il nostro principio guida qui nell’Ue è che siamo noi europei a decidere chi arriva in Europa e ne attraversa i confini, e in quali circostanze, non i trafficanti». Fino all’altro ieri sembrava l’esatto contrario.
In un eccesso trumpiano, la nuova Ursula ha concluso con un’abiura: «Abbiamo un progetto per porre fine al business del traffico di migranti in tutto il mondo. Dobbiamo impedire i viaggi e dimostrare alle potenziali vittime che esistono sempre alternative più sicure». Sembrava Marine Le Pen. Forse sta davvero cambiando il vento. Se così fosse, a fare il tifo per gli scafisti rimarranno i giudici rossi, le associazioni che si arricchiscono sui disperati e Laura Boldrini.




