L’Unione europea, che ha oscurato e negato le radici giudaico-cristiane del nostro continente, ha aggiunto un’altra medaglia al suo vergognoso palmares di scelte contro la vita: oggi è passata al Parlamento europeo l’Iniziativa cittadini europei (Ice) siglata «My voice, my choice»: «La mia voce, la mia scelta: per un aborto sicuro e accessibile». Patrocinata da sigle radicali femministe e sostenuta da schieramenti politici europei, la proposta ha raccolto 1 milione e 120.000 firme, proponendo un adeguato sostegno finanziario europeo per garantire un aborto legale e sicuro a tutte le cittadine europee, in particolare a coloro che vivono in Paesi con legislazioni restrittive circa l’accesso alla interruzione volontaria di gravidanza.
Secondo gli organizzatori, «il mancato accesso all’aborto in molte parti d’Europa provoca non solo danni fisici ma sottopone le donne e le famiglie a un ingiusto stress economico e psicologico». In concreto, la risoluzione - al momento non vincolante - stabilisce che si debba garantire che una donna residente in un Paese che prevede l’aborto solo entro un termine temporale ristretto (ad esempio, la dodicesima settimana) possa contare e usufruire di un aiuto economico europeo che le permetta di recarsi in altro Paese con una legge più permissiva.
Viene denominato «sacrificio solidale», e alla sua realizzazione devono essere coinvolti tutti gli Stati europei. Come sempre, quando ci troviamo di fronte a una normative contro la vita, ci si imbatte nella più bieca ipocrisia: il vero «sacrificio» non sono i soldi per finanziare l’aborto, ma il bimbo che viene sacrificato, senza appello alcuno, dalla dittatura del «my voice, my choice». La voce del bimbo non esiste, la sua scelta per la vita non esiste, conta e ha valore soltanto la volontà di chi vuole liberarsene. Il grande assente, il «convitato di pietra», come oggi si usa dire, è il bambino, il suo diritto alla vita, la sua difesa, la sua incolumità. Se di solidarietà vogliamo parlare, perché non finanziare un fondo per aiutare mamme in crisi nel portare a termine la propria gravidanza, con un sostegno economico che salvi le due vittime di ogni aborto, bimbo e mamma? Perché, di fronte alla possibilità di salvare anche una sola vita, la scelta cade sempre sulla morte del bimbo? Non è più «civile» salvare che uccidere?
Un altro aspetto non si può tacere: nel 2012 la campagna europea «One of Us» - in Italia fortemente sostenuta da Carlo Casini e il Movimento per la Vita - per il riconoscimento giuridico del concepito e la difesa della vita umana fin dal concepimento raccolse circa 1 milione e 750.000 firme (650.000 in più di questi), la più alta quota mai raggiunta da una Ice, l’Iniziativa dei cittadini europei, ma venne respinta senza dibattito parlamentare. Motivazione? Proposta legislativa non in linea con i principi generali dell’Ue, oltre al fatto che nel continente «la protezione della vita prenatale è già garantita». Ogni commento è superfluo, perché l’ipocrisia si commenta da sé. Ma una domanda rimane: perché due pesi e due misure? Perché una raccolta firme viene oscurata, mentre una inferiore trova diritto a essere dibattuta e accolta? Forse una risposta c’è, anzi, purtroppo una risposta c’è: perché questa Ue ha scelto come collante l’euro e il mercato, e ha rifiutato i principi fondanti la storia della cultura occidentale, da Atene a Gerusalemme e Roma.
Se da un lato non si può che provare amarezza e vergogna per questo nuovo tassello contro la vita, dall’altra si deve raccogliere la sfida a non arretrare. Resta più che mai attuale il monito di quel vecchio profeta vissuto 700 anni prima di Cristo, di nome Isaia, che ci interpella già dal suo nome - «Isaia: Il Signore salva» - ammonendoci di non arrenderci mai, soprattutto nel tempo in cui si chiama «il bene male e il male bene, si trasforma la luce in tenebra e la tenebra in luce, confondendo il dolce con l’amaro» (Isaia, capitolo 5). Un capovolgimento di valori e principi morali e umani che non sta portando nulla di buono, basta guardarsi attorno.
Considerato il dibattito in corso, contrassegnato anche da polemiche, spesso frutto di una non chiara comprensione del fatto, circa l’ introduzione dello strumento del consenso informato nella scuola, si rende necessaria qualche precisazione.
Si tratta di un provvedimento legislativo, fortemente richiesto da una vasta area del mondo delle famiglie italiane, nella speranza di veder recuperato quel fondamentale ruolo che l’articolo 30 della Costituzione assegna ai genitori: la responsabilità educativa della famiglia, con particolare attenzione a temi contrassegnati da una forte componente etica e morale. Non si tratta per nulla (purtroppo) né di fantasmi né di allarmismo ingiustificato, bensì di fatti concreti legati a numerose segnalazioni di percorsi educativi, realizzati nelle nostre scuole, di tematiche proprie dell’ideologia gender, mascherati da educazione alla sessualità/affettività. Ideologia gender che, con grande lucidità e chiarezza, papa Francesco definì «sbaglio della mente umana». Del resto, sostenere la fluidità di genere come antidoto al «pericoloso» binarismo sessuale che la natura ci consegna non può che essere follia ideologica. Il tutto tanto più grave se diventa oggetto di indottrinamento dei nostri figli attraverso la scuola. Per questo, il governo ha deciso di dare voce alle famiglie, ai genitori preoccupati e delusi da troppo silenzio, con lo strumento di una legge sul consenso informato, strumento di democrazia assoluta, che riconsegna a chi ne ha il diritto/dovere di decidere sui propri figli. Non si tratta di un «pallino» o fantasie del ministro Giuseppe Valditara - che ha scritto il testo, e che non ha fatto nessun passo indietro - ma di una decisione dell’ intero Consiglio dei ministri, segno di una condivisione assoluta nel sostenere questo strumento che - vale la pena di ripeterlo - è strumento di libertà democratica.
Ogni genitore, sulla base delle proprie legittime convinzioni, avrà la possibilità di esprimere consenso o dissenso. Altro aspetto di grande importanza sta nel fatto che ogni scuola avrà l’obbligo di informare nel dettaglio circa i temi che si tratteranno, i testi e la bibliografia di riferimento, il curriculum dei docenti, le modalità dell’ insegnamento. Finalmente, chiarezza e trasparenza, dopo tante mistificazioni. È davvero incomprensibile l’ alzata di scudi del mondo della sinistra politica - vedi dichiarazione di Alessandro Zan, storico sostenitore dell’omonimo disegno di legge voleva introdurre il «genere percepito» nell’ordinamento e nella cultura italiana - che si dichiara strenuamente «democratica», contro questa legge che lascia chiunque libero di scegliere e decidere: nulla di più democratico!
Una recente statistica non fa che confermare la soddisfazione del popolo italiano: più del 60% delle famiglie è favorevole alla legge. E fra chi ha manifestato un apprezzamento parziale, la maggioranza dichiara che avrebbe voluto una maggiore determinazione nel vietare derive ideologiche. Certamente apprezzabile e da tenere in conto; ma restando con i piedi per terra: il contrasto alla cultura woke che pervade questi ultimi vent’anni, sostenuta dal mainstream internazionale, non si scalza in un giorno. Sono necessarie pazienza, prudenza, determinazione e tanto coraggio, avendo piena consapevolezza che ognuno deve fare la propria parte, anche sostenendo chi concretamente dimostra volontà d’azione nel senso di una tutela dei principi e valori che fondano la storia del popolo italiano. È importante il primo passo - e questa legge è il primo passo corretto - cui potrà seguire un cammino più lungo e, come si suol dire, l’importante è cominciare.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Tutte le sostanze che, introdotte nel nostro organismo, sono in grado di alterare la normale funzionalità del nostro cervello sono droghe, sostanze stupefacenti, che devono essere messe al bando con ogni mezzo. Ne va della salute e della vita di chiunque, in particolare dei nostri concittadini più giovani e più vulnerabili. Nella nostra nazione, purtroppo, il primo accesso a cannabis (marijuana) e derivati si registra intorno ai 12/13 anni e si apre così la porta al drammatico viaggio verso la dipendenza, che conduce alla distruzione totale della vita, fino alla morte.
Ogni anno, vengono immessi sul mercato circa 80 nuovi tipi di droghe di origine sintetica - dagli oppiodi alle amfetamine di sintesi - la cui potenza bio-neuro-destruente è decine di volte maggiore rispetto a cocaina e morfina. Certamente l’allarme maggiore riguarda gli stupefacenti, ma purtroppo si va sempre più affermando un altro capitolo di allarme sociale: la dipendenza legata all’uso dei nuovi strumenti tecnologici - smartphone, tablet, pc - che spalancano le porte all’invasione di internet in ogni spazio della vita quotidiana. Ciò significa giochi online con condotte compulsive, isolamento sociale, gioco d’azzardo, shopping, condotte alimentari patologiche; per non parlare dell’orribile mondo del porno, sesso online, pedopornografia, fino all’adescamento. Ancora una volta i numeri sono inquietanti: nel 2024 si sono registrati 840.000 minorenni che giocano d’azzardo e di questi circa 170.000 online; fra gli studenti 11-13 anni (scuole medie!) il 28,4% ha dichiarato di aver giocato d’azzardo negli ultimi 12 mesi. Molto spesso il gioco d’azzardo è il punto d’approdo della pratica di giochi online: giochi apparentemente innocui ed innocenti, ma che spingono progressivamente a «osare» sempre di più per raggiungere la meta più appetibile… e che cosa c’è di meglio che vincere un bel gruzzolo. Ancora una volta i numeri parlano chiaro: nei nostri studenti, 11-13 anni, che fanno uso giornaliero di gaming (giochi online) il 79,8% non corre rischi, ma il 17% entra nell’area rischio. Non a caso i disturbi da gaming sono stati inclusi della Sezione III degli studi Dsm 5.
Il legame fra gaming e gioco d’azzardo (gambling) non è soltanto correlazionale, ma mediato da specifiche meccaniche di gioco, in particolare attraverso le cosiddette «loot box»: programmi di gioco che offrono casuali ricompense molto appetibili e desiderabili, ottenibili attraverso il gioco, ma anche con denaro vero («PaytoWin») replicando così dinamiche tipiche del gioco d’azzardo: casualità e imprevedibilità. Il 48,6% dei giovanissimi giocatori dichiara di «giocare più a lungo di quanto non pensavo, per ottenere nuove loot box», e il 59% dei forti giocatori dichiara che il «PaytoWin» ha gradualmente portato al gioco d’azzardo. E a proposito di gioco d’azzardo, nel 2024 ogni italiano (neonati inclusi!) ha giocato in media 2.658 euro, con un’impennata notevole dopo la pandemia, sia online che on-site, raggiungendo la sconcertante cifra totale di 157 miliardi di euro. Di fronte a uno scenario così allarmante è imperativo correre ai ripari. Le contromisure sono di tipo preventivo, informativo, educativo e repressivo.
Con un’attenzione particolare all’impatto che hanno sulle fasce vulnerabili e giovanili le vecchie e nuove dipendenze. Il lavoro che si ha di fronte è enorme e deve coinvolgere l’intero tessuto sociale, dalle famiglie, alla scuola, allo sport, alle associazioni di ogni tipo, partendo dall’assunto che va re-impostato il senso stesso della vita: la cultura dello «sballo» e del piacere a ogni costo, coniugata all’idolatria del denaro e all’azzeramento di ogni valore, sta producendo quel drammatico vuoto di «senso» che spinge - soprattutto i più giovani, ma non solo loro - alla ricerca di una felicità sterile, inconsistente, effimera che lungi dal saziare, spalanca le porte dell’inferno della dipendenza.





