Considerato il dibattito in corso, contrassegnato anche da polemiche, spesso frutto di una non chiara comprensione del fatto, circa l’ introduzione dello strumento del consenso informato nella scuola, si rende necessaria qualche precisazione.
Si tratta di un provvedimento legislativo, fortemente richiesto da una vasta area del mondo delle famiglie italiane, nella speranza di veder recuperato quel fondamentale ruolo che l’articolo 30 della Costituzione assegna ai genitori: la responsabilità educativa della famiglia, con particolare attenzione a temi contrassegnati da una forte componente etica e morale. Non si tratta per nulla (purtroppo) né di fantasmi né di allarmismo ingiustificato, bensì di fatti concreti legati a numerose segnalazioni di percorsi educativi, realizzati nelle nostre scuole, di tematiche proprie dell’ideologia gender, mascherati da educazione alla sessualità/affettività. Ideologia gender che, con grande lucidità e chiarezza, papa Francesco definì «sbaglio della mente umana». Del resto, sostenere la fluidità di genere come antidoto al «pericoloso» binarismo sessuale che la natura ci consegna non può che essere follia ideologica. Il tutto tanto più grave se diventa oggetto di indottrinamento dei nostri figli attraverso la scuola. Per questo, il governo ha deciso di dare voce alle famiglie, ai genitori preoccupati e delusi da troppo silenzio, con lo strumento di una legge sul consenso informato, strumento di democrazia assoluta, che riconsegna a chi ne ha il diritto/dovere di decidere sui propri figli. Non si tratta di un «pallino» o fantasie del ministro Giuseppe Valditara - che ha scritto il testo, e che non ha fatto nessun passo indietro - ma di una decisione dell’ intero Consiglio dei ministri, segno di una condivisione assoluta nel sostenere questo strumento che - vale la pena di ripeterlo - è strumento di libertà democratica.
Ogni genitore, sulla base delle proprie legittime convinzioni, avrà la possibilità di esprimere consenso o dissenso. Altro aspetto di grande importanza sta nel fatto che ogni scuola avrà l’obbligo di informare nel dettaglio circa i temi che si tratteranno, i testi e la bibliografia di riferimento, il curriculum dei docenti, le modalità dell’ insegnamento. Finalmente, chiarezza e trasparenza, dopo tante mistificazioni. È davvero incomprensibile l’ alzata di scudi del mondo della sinistra politica - vedi dichiarazione di Alessandro Zan, storico sostenitore dell’omonimo disegno di legge voleva introdurre il «genere percepito» nell’ordinamento e nella cultura italiana - che si dichiara strenuamente «democratica», contro questa legge che lascia chiunque libero di scegliere e decidere: nulla di più democratico!
Una recente statistica non fa che confermare la soddisfazione del popolo italiano: più del 60% delle famiglie è favorevole alla legge. E fra chi ha manifestato un apprezzamento parziale, la maggioranza dichiara che avrebbe voluto una maggiore determinazione nel vietare derive ideologiche. Certamente apprezzabile e da tenere in conto; ma restando con i piedi per terra: il contrasto alla cultura woke che pervade questi ultimi vent’anni, sostenuta dal mainstream internazionale, non si scalza in un giorno. Sono necessarie pazienza, prudenza, determinazione e tanto coraggio, avendo piena consapevolezza che ognuno deve fare la propria parte, anche sostenendo chi concretamente dimostra volontà d’azione nel senso di una tutela dei principi e valori che fondano la storia del popolo italiano. È importante il primo passo - e questa legge è il primo passo corretto - cui potrà seguire un cammino più lungo e, come si suol dire, l’importante è cominciare.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Tutte le sostanze che, introdotte nel nostro organismo, sono in grado di alterare la normale funzionalità del nostro cervello sono droghe, sostanze stupefacenti, che devono essere messe al bando con ogni mezzo. Ne va della salute e della vita di chiunque, in particolare dei nostri concittadini più giovani e più vulnerabili. Nella nostra nazione, purtroppo, il primo accesso a cannabis (marijuana) e derivati si registra intorno ai 12/13 anni e si apre così la porta al drammatico viaggio verso la dipendenza, che conduce alla distruzione totale della vita, fino alla morte.
Ogni anno, vengono immessi sul mercato circa 80 nuovi tipi di droghe di origine sintetica - dagli oppiodi alle amfetamine di sintesi - la cui potenza bio-neuro-destruente è decine di volte maggiore rispetto a cocaina e morfina. Certamente l’allarme maggiore riguarda gli stupefacenti, ma purtroppo si va sempre più affermando un altro capitolo di allarme sociale: la dipendenza legata all’uso dei nuovi strumenti tecnologici - smartphone, tablet, pc - che spalancano le porte all’invasione di internet in ogni spazio della vita quotidiana. Ciò significa giochi online con condotte compulsive, isolamento sociale, gioco d’azzardo, shopping, condotte alimentari patologiche; per non parlare dell’orribile mondo del porno, sesso online, pedopornografia, fino all’adescamento. Ancora una volta i numeri sono inquietanti: nel 2024 si sono registrati 840.000 minorenni che giocano d’azzardo e di questi circa 170.000 online; fra gli studenti 11-13 anni (scuole medie!) il 28,4% ha dichiarato di aver giocato d’azzardo negli ultimi 12 mesi. Molto spesso il gioco d’azzardo è il punto d’approdo della pratica di giochi online: giochi apparentemente innocui ed innocenti, ma che spingono progressivamente a «osare» sempre di più per raggiungere la meta più appetibile… e che cosa c’è di meglio che vincere un bel gruzzolo. Ancora una volta i numeri parlano chiaro: nei nostri studenti, 11-13 anni, che fanno uso giornaliero di gaming (giochi online) il 79,8% non corre rischi, ma il 17% entra nell’area rischio. Non a caso i disturbi da gaming sono stati inclusi della Sezione III degli studi Dsm 5.
Il legame fra gaming e gioco d’azzardo (gambling) non è soltanto correlazionale, ma mediato da specifiche meccaniche di gioco, in particolare attraverso le cosiddette «loot box»: programmi di gioco che offrono casuali ricompense molto appetibili e desiderabili, ottenibili attraverso il gioco, ma anche con denaro vero («PaytoWin») replicando così dinamiche tipiche del gioco d’azzardo: casualità e imprevedibilità. Il 48,6% dei giovanissimi giocatori dichiara di «giocare più a lungo di quanto non pensavo, per ottenere nuove loot box», e il 59% dei forti giocatori dichiara che il «PaytoWin» ha gradualmente portato al gioco d’azzardo. E a proposito di gioco d’azzardo, nel 2024 ogni italiano (neonati inclusi!) ha giocato in media 2.658 euro, con un’impennata notevole dopo la pandemia, sia online che on-site, raggiungendo la sconcertante cifra totale di 157 miliardi di euro. Di fronte a uno scenario così allarmante è imperativo correre ai ripari. Le contromisure sono di tipo preventivo, informativo, educativo e repressivo.
Con un’attenzione particolare all’impatto che hanno sulle fasce vulnerabili e giovanili le vecchie e nuove dipendenze. Il lavoro che si ha di fronte è enorme e deve coinvolgere l’intero tessuto sociale, dalle famiglie, alla scuola, allo sport, alle associazioni di ogni tipo, partendo dall’assunto che va re-impostato il senso stesso della vita: la cultura dello «sballo» e del piacere a ogni costo, coniugata all’idolatria del denaro e all’azzeramento di ogni valore, sta producendo quel drammatico vuoto di «senso» che spinge - soprattutto i più giovani, ma non solo loro - alla ricerca di una felicità sterile, inconsistente, effimera che lungi dal saziare, spalanca le porte dell’inferno della dipendenza.
Non si può che rimanere sgomenti di fronte alla notizia, riportata da La Verità pochi giorni fa, di una giovane ventiseienne - non affetta da patologie organiche, né oncologiche né degenerative, che conducono alla morte - che sta per esser sottoposta in Belgio a morte assistita perché «potenziale suicida» sin dall’età di 13 anni, quando subì «violenze e abusi». La povera Siska (questo il suo nome) aveva provato a suicidarsi a 14 anni e in seguito vi furono altri tentativi, tutti evidentemente falliti, fino a oggi quando in preda alla disperazione ha chiesto e ottenuto di ricevere l’iniezione letale. Durante questi dieci e più anni - denuncia lei stessa - è stata «maltrattata», cioè trattata in modo assolutamente non adeguato e competente rispetto allo stato di depressione «cronica» che la affliggeva, e ora l’istituzione pubblica le apre le porte dell’eutanasia come soluzione alle sue sofferenze.
Naturalmente - colmo dell’ipocrisia - dietro sua scelta, sua libera decisione, frutto di una consapevole autodeterminazione, che la sta portando fra le braccia della «dolce morte».
Tutto ciò sta accadendo in un Paese progredito, ricco e civile che aveva cominciato col depenalizzare e poi legalizzare la morte assistita, all’inizio del 2000, riservata a ben selezionati casi «oncologici terminali». Si partì da tre o quattro decine di morti all’anno e si è arrivati alla tragica cifra di oltre 6.000 pazienti. Purtroppo, questo tragico trend è la norma in tutti i Paesi che hanno legalizzato il suicidio assistito/eutanasia: si inizia sempre con pochissimi casi di particolare gravità e, in poco tempo, tutti gli argini cadono, tutti i limiti vengono scavalcati, e si giunge a uccidere una giovane donna affetta da depressione, innescata da dolorosi eventi esistenziali, di 26 anni.
In Canada, altro Paese in cui le morti per eutanasia/suicidio assistito stanno drammaticamente aumentando (si è arrivati a 10.000 in un anno), Susan Woolhouse, co-presidente dell’Ontario college of family physicians palliative end of live care, ha proposto una legge pubblicata sul sito della University of British Columbia, per «far sì che i bambini possano assistere all’eutanasia dei loro parenti. Sarebbe una delle esperienze più importanti e terapeutiche per un bambino». Follia? No. Si tratta dell’ormai scontata strategia di «normalizzazione», per cui perfino l’omicidio di un essere umano innocente, fragile e bisognoso di ogni tipo di cura, è da considerarsi un banale evento di routine, assolutamente legittimo, legale e perfino terapeutico e auspicabile, nell’ottica del togliersi di mezzo quando si è diventati ingombranti e pesanti da gestire.
In Belgio, il 17,4% delle iniezioni letali viene praticato in case di riposo: vite indegne di essere vissute? Purtroppo, il festival degli orrori non finisce qui: nel 2021 (non sono disponibili dati più recenti), in Olanda sono stati registrati 517 casi di eutanasia senza esplicita richiesta e, fra questi, 6 sono infanticidi secondo il Protocollo di Groningen. In Belgio, vengono eliminati con eutanasia circa 200 bambini all’anno e solo nel 60% dei casi c’è accordo fra la decisione eutanasica dei medici e il parere dei genitori. In Canada, nel 2019, 771 casi di eutanasia «per solitudine» e nel 2021, dei circa 10.000 morti con eutanasia, il 36% è stato perché si «sentiva solo» e il 16% perché si sentiva «abbandonato».
Il racconto di quanto sta accadendo a Siska è emblematico. Dopo ricoveri in reparti inadeguati e inappropriati per affrontare le sue sofferenze, vivendo di fatto una condizione di abbandono di cura, non le resta che un’unica via d’uscita: l’iniezione letale, mascherata da libera scelta autodeterminata. Si può davvero credere che quella scelta sia libera? È lucidamente consapevole? Quanta ipocrisia, quanta menzogna camuffata da libertà di autodeterminazione.
Alla luce di quanto sta accadendo nel mondo - a proposito, vale la pena di ricordare che sono soltanto 13 su 95 gli Stati che hanno legislazioni di morte assistita - almeno un dubbio sul fatto che stiamo intraprendendo in Italia una strada disumana e incivile, con i vari disegni di legge in discussione, dovrebbe venire. La storia, anche recente, ci insegna che quando si apre uno spiraglio, in brevissimo tempo - magari a colpi di sentenze di tribunali e Corti varie - si spalanca una prateria di morte. Dal «diritto di cura» al «diritto di morte»: non è un bel progresso. Con la speranza e la preghiera che Sjska possa incontrare un «buon samaritano» che si prenda cura di lei.





