Per l’Ucraina nel 2026 si prospettava un buco di bilancio di 72 miliardi di euro. La Ue poteva (solo teoricamente) scegliere se coprire quel buco utilizzando i fondi russi sequestrati per la gran parte presso la società depositaria belga Euroclear oppure ricorrere, via bilancio Ue, alle tasche dei contribuenti.
La scelta è stata a favore di quest’ultima soluzione, con l’essenziale distinguo che qualsiasi conseguenza finanziaria, a partire dal pagamento degli interessi, di tale scelta non ricadrà sui contribuenti ungheresi, cechi e slovacchi.
È questa l’estrema sintesi della «non soluzione» adottata ormai all’alba di venerdì dal Consiglio europeo, con l’aggravante che, da ieri, la Ue non è più a 27 ma a 24. Perché Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno fermamente rifiutato di dover subire le conseguenze finanziarie derivanti dagli oneri per interessi (certi) e capitale (quasi certo) di questa scelta. Quindi avanti a 24, perché l’articolo 20 del Trattato consente la cosiddetta «cooperazione rafforzata», quando un gruppo di almeno nove Stati membri intende avanzare in modo più integrato in ambiti di competenza non esclusiva dell’UE. Solo quando Viktor Orbán, Andrej Babiš e Robert Fico hanno dato semaforo verde a questa soluzione, il Consiglio è uscito da uno stallo che cominciava a diventare imbarazzante.
Ma si tratta di un minimo comune denominatore trovato all’ultimo, quando il piano A, strombazzato ai quattro venti da mesi, se non proprio dal marzo 2022, quando fu attuato il sequestro delle attività finanziarie russe, è miseramente fallito. La nota opposizione del Belgio e del suo premier, Bart De Wever, si è presto rivelata una posizione non isolata. Infatti c’erano già da tempo, ma covavano sottotraccia, le perplessità di due pesi massimi della Ue come Italia e Francia. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno avuto gioco relativamente facile nello smontare il castello di carte e artifici legali di dubbia solidità montato da Ursula von der Leyen. Tanto che su Politico.Eu sono state diverse le voci trapelate dall’interno del summit che hanno esplicitamente accusato la Commissione di non aver fornito sufficiente chiarezza sugli aspetti legali controversi dell’operazione basata sull’utilizzo dei fondi russi, al punto che il fronte dei dubbiosi si è rapidamente allargato e De Wever si è sentito in una botte di ferro nel continuare a fare il «poliziotto cattivo».
La soluzione adottata, a favore della quale è subito partito uno «spin» mediatico anche da parte di chi avrebbe dovuto scappare a nascondersi per il fallimento, come la Von der Leyen, ha comunque numerosi punti di vulnerabilità, su cui rischia ancora di inciampare seriamente.
Partiamo dal primo passaggio, quello dell’emissione obbligazionaria dedicata sui mercati da parte della Commissione, che potrebbe essere accolta con poco entusiasmo dagli investitori. Perché quei fondi andranno, poi, prestati all’Ucraina le cui probabilità di rimborso sono praticamente pari a zero. Infatti, nessuno ritiene probabile che la Russia pagherà mai riparazioni di guerra. Quindi gli interessi e il capitale resteranno a carico del bilancio Ue e, in ultima istanza, dei contribuenti di 24 Stati membri su 27. E gli investitori non hanno certo dimenticato quanto pubblicato il 7 dicembre sul Financial Times, estratto testualmente dalla proposta di regolamento della Commissione, che spingeva per la soluzione alternativa dell’utilizzo dei fondi russi: «La capacità della Ue e dei suoi Stati membri di fornire finanziamenti aggiuntivi all’Ucraina è attualmente limitata e non corrisponde all’entità del fabbisogno».
Invece, alla ventiquattresima ora, questa è diventata la soluzione. Lo spazio di manovra di bilancio che qualche settimana fa non esisteva, ieri si è materializzato per miracolo. Perché era l’ultima spiaggia prima del fallimento. Ma questo gli investitori lo sanno e lo faranno pesare, col rischio di aumentare la tensione in tutto il mercato dei titoli governativi, già teso per altri motivi. La foglia di fico, peraltro presente nel documento separato approvato da 25 Paesi, secondo cui i fondi russi «rimarranno bloccati e l’Unione si riserva il diritto di utilizzarli per rimborsare il prestito, in piena conformità del diritto dell’Ue e internazionale», lascia davvero il tempo che trova. Se la Commissione, in quattro anni di tentativi, non ha convinto nessuno circa l’utilizzo legittimo di quei fondi, cosa induce a pensare che riesca a farlo in futuro? Con l’ulteriore difficoltà che è ormai noto che quei fondi sono stati già «opzionati» come merce di scambio per chiudere il negoziato con Mosca promosso da Washington.
Poi c’è l’aspetto degli equilibri di finanza pubblica. I Parlamenti di Germania, Francia, Spagna e, in misura minore, l’Italia stanno cercando di definire da settimane le rispettive leggi di bilancio. Tra accese discussioni su tagli di spesa e aumenti di imposte, che talvolta valgono solo qualche manciata di milioni.
Quei parlamentari e i rispettivi elettori ora scoprono che, nel giro di poche ore, la Commissione - la cui maggior parte delle entrate deriva dai contributi degli Stati membri - ha trovato spazio di bilancio per coprire un prestito (nella sostanza, un sussidio) di 90 miliardi all’Ucraina, «anche per le sue esigenze militari». In particolare, in Germania, qualche oppositore interno di Friedrich Merz - che non gradiva la soluzione adottata proprio per non trovarsi in difficoltà sul fronte interno - potrebbe tornare a bussare alla Corte di Karlsruhe, obiettando che impegnare le risorse del contribuente tedesco, via bilancio Ue, è semplicemente incostituzionale perché di fatto esautora il Bundestag. E chissà che finalmente qualcuno si svegli anche in Italia.
L’unica cosa certa del Consiglio europeo di oggi è che comincerà intorno alle 10. Tutto il resto è da vedere e, soprattutto, da scrivere.
Almeno a giudicare dalle diverse ipotesi che si susseguono in queste ore per riuscire a trovare la quadra per garantire all’Ucraina un prestito entro i primi mesi del 2026. Le differenze partono già dalla finalità di quella somma (210 miliardi, distribuiti fino al 2030, di cui 90 entro il prossimo primo semestre). Comprare armi e quindi continuare la guerra fino all’ultimo giovane ucraino, oppure dedicarli alla ricostruzione? Coinvolgendo quali aziende? La Germania ha già fatto sapere che una quota di lavori per le proprie aziende è una condizione essenziale per il prestito.
Sulle modalità di esecuzione di quel prestito, facendo leva sui fondi russi sequestrati, siamo ormai al museo degli orrori. Il problema, privo di soluzioni, è sempre quello: come trasferire la liquidità russa dai conti di Euroclear a quelli della Commissione, per poi prestarli all’Ucraina, senza provocare il default della società belga? La soluzione sul tavolo è quella delle garanzie degli Stati membri che assisterebbero il «pagherò» che Euroclear dovrebbe mettere nel proprio bilancio al posto della liquidità in uscita. Un titolo di credito, infruttifero di interessi e invendibile, che peggiorerebbe il rating dei belgi, come prontamente evidenziato ieri dalla società di rating (americana: vale la pena ricordarlo sempre) Fitch.
Ma anche qualora questa ipotesi fosse approvata, cosa accadrebbe se i russi si vedessero riconosciuto, in qualche modo, il diritto di restituzione di quei fondi? Tramontata l’ipotesi di un intervento della Bce, stracciando i Trattati, con un prestito paracadute, resta sul tavolo la garanzia degli Stati membri. In quel caso, Euroclear dovrebbe escutere le garanzie fornite pro-quota dagli Stati membri (25 miliardi la quota italiana) e incassare la liquidità entro pochi giorni lavorativi. Un evento che potrebbe scatenare un vero e proprio terremoto sui mercati finanziari, al punto che qualche Stato membro potrebbe essere impossibilitato ad adempiere. Questa ipotesi è talmente realistica che l’ultima versione del piano - riportata ieri dal Sole 24 Ore, che comunque torna su uno schema ipotizzato - prevede la Commissione nel ruolo di «super garante».
Da Bruxelles sarebbe attivato un meccanismo di liquidità secondo cui la Commissione «emetterebbe bond ad hoc per raccogliere la liquidità necessaria per subentrare agli Stati garanti del prestito ma che potrebbero trovarsi in difficoltà (spazio fiscale non sufficiente) per far fronte alle garanzie, nel caso fossero escusse».
Con ciò causando un enorme danno alla stabilità finanziaria del malcapitato Stato che si trovasse in tale imbarazzante situazione e potenziali effetti destabilizzanti a cascata sul mercato dei titoli governativi, la cui portata appare incommensurabile.
Una soluzione che cozza platealmente con la posizione inizialmente assunta dalla Commissione che aveva escluso il coinvolgimento diretto delle casse della Ue e degli Stati membri, proprio per la loro insufficienza e le conseguenti tensioni sui mercati. Invece ora pare una soluzione sul tavolo.
Noi osiamo sperare che i leader europei e Giorgia Meloni in primis, si rendano conto della pericolosità di tale schema e dei rischi concreti attuali che ne derivano. Il fatto che il nostro Paese sia l’ago della bilancia in una scelta che si preannuncia altamente decisiva è testimoniato - perché certi articoli non escono mai per caso - dal monito nemmeno tanto velato apparso ieri sul Financial Times, in cui sostanzialmente si invita la Meloni a «fare la scelta giusta» (anche sulla vicenda del Trattato Mercosur). Finora il premier ha evitato di scegliere, si sostiene da Londra, ma ora è arrivato il momento in cui non può più essere «enigmatica».
Ancora più preoccupante è l’ipotesi apparsa ieri su Politico, in cui si parla di un ipotetico voto a maggioranza qualificata - evento ritenuto impossibile nel Consiglio europeo che decide sempre «per consenso», cioè all’unanimità - per scavalcare l’opposizione del Belgio e di altri eventuali Paesi contrari. Insomma, la confusione e l’ansia di portare a casa un risultato su cui è stato investito un enorme capitale politico è tale che siamo entrati direttamente nella fase del «diritto creativo» in cui tutto si può. E sempre nella giornata ieri, sono state diffuse tramite non meglio precisato «fonti Ue» voci sull’utilizzo dell’articolo 122 del Tfue, ovvero quello che permette di aggirare l’unanimità tra gli Stati Ue in situazioni di emergenza, «potrebbe essere utilizzato anche per emettere debito comune che finanzi un prestito per l’Ucraina». Tale «principio» - di fatto un completo e deliberato smantellatamento dei Trattati - poggerebbe sulle parole della presidente della Bce, Christine Lagarde, (nuova, inattesa fonte primaria del diritto...), la quale avrebbe fatto presente che se l’articolo 122 può essere utilizzato per un regime di sanzioni, allora può essere utilizzato anche per emettere debito comune».
Non può dunque stupire il fatto che Viktor Orbán abbia minacciato di ritirare le valute detenute dal suo Paese presso Euroclear in caso di «esproprio» dei fondi russi, ipotesi che terrorizza soprattutto il Belgio, Paese fondatore delle istituzioni comunitarie che ospita Euroclear e che ora le stesse istituzioni minacciano di tagliar fuori da una decisione che ha dell’incredibile nel metodo e nel merito. Con ben più diplomazia rispetto all’omologo ungherese, anche Giorgia Meloni ha detto in Aula: «La base giuridica deve essere solida. Per un motivo molto semplice: se dovessimo perdere davanti a qualunque corte al mondo, avremmo regalato a Putin l’unica vittoria di questa guerra».
E oltre agli occhi russi, sul Consiglio europeo di oggi vigileranno quelli degli Usa, da sempre nemmeno troppo velatamente contrari all’operazione sugli asset. Sarà un consesso molto lungo e agitato.
Emergono particolari sempre più interessanti e preoccupanti sul tema del prestito all’Ucraina, coinvolgendo in qualche modo gli asset russi sequestrati in Belgio, le finanze pubbliche degli Stati membri e la Bce, in un abbraccio che ogni giorno si fa sempre più rischioso. Ieri vi abbiamo riferito che il complesso schema finanziario con cui la Ue preleverebbe 90 miliardi dalla liquidità russa presso i conti di Euroclear in Belgio, contro il rilascio di un «pagherò» infruttifero ai belgi, consentendo così a Bruxelles di erogare il prestito a Kiev, e si concluderebbe con il «pagherò» che finisce in portafoglio alla Bce, sarebbe un finanziamento monetario, di fatto, degli Stati membri vietato dai Trattati.
Per il semplice motivo che - nel probabile caso in cui la sentenza di un tribunale consenta alla Russia di riappropriarsi di quei fondi o in cui la Russia rifiuti di pagare le riparazioni di guerra e quindi l’Ucraina non rimborsi il prestito alla Ue - Euroclear non potrà restituire il prestito alla Bce e a Francoforte resteranno col cerino in mano, tenendosi in portafoglio a tempo indeterminato il «pagherò» della Ue. A meno che non decidano di escutere le garanzie degli Stati membri che assistono quel titolo di credito. Uno scenario da brivido, con Paesi come Italia, Francia e Germania chiamati a pagare sull’unghia rispettivamente 25, 34 e 52 miliardi entro pochi giorni. Ma questo è uno scenario, ancorché finanziariamente fattibile e legalmente sfidante, politicamente indigeribile nelle maggiori capitali europee. A partire da Berlino, dove il cancelliere Friederich Merz è da tempo politicamente debole e insidiato dalla forza crescente del partito di destra Afd. Si tratta dell’emissione di debito comune europeo, cioè il famoso «eurobond», o qualcosa che gli somigli, notoriamente non previsto dai Trattati e che in Germania è visto come fumo negli occhi. Non a caso, il precedente del debito «pandemico» emesso per finanziare il Next Generation Eu è stato ritenuto costituzionale dalla Corte Federale di Karlsruhe nel dicembre 2022, sotto le essenziali condizioni della sua temporaneità ed eccezionalità, del vincolo di scopo, e del divieto di mutualizzazione illimitata del debito. Quindi ognuno paga per sé e nessuno aiuta gli altri. Cosa ben diversa da un eurobond propriamente detto, che prevede la responsabilità illimitata e solidale di tutti gli Stati membri per l’intero debito. Un’unione del debito è proprio ciò a cui la Costituzione e, prima ancora, l’opinione pubblica tedesca si opporrebbero. Da qui «l’idea» di Merz di rendere quel «pagherò» della Ue molto diverso da un eurobond, perché infruttifero di interessi e non rivendibile, destinato quindi a restare in portafoglio a Euroclear. Esponendo però quest’ultima a un disastroso default nel caso fosse costretta a rimborsare la liquidità ai russi. Per far entrare nella partita la Bce - pur in violazione dei Trattati - quel titolo deve essere trasferibile e produttivo di interessi. Come si vede un pericoloso e interminabile gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza.
L’idea precisa dell’enorme posta in gioco è stata fornita ieri in un’intervista al Sole 24 ore dalle parole dell’ex ministro Giulio Tremonti, ora presidente della Commissione Esteri della Camera, secondo il quale «quello che si sta definendo è un nuovo strumento finanziario comune europeo» e che nonostante si corra il rischio di «una caduta della credibilità e dell’affidabilità dell’euro, portando altri Stati al ritiro delle loro riserve dal sistema europeo [...] dal punto di vista politico un’operazione di questo tipo è oggettivamente il principio di una politica europea autonoma». Concludendo che «per fare l’Europa non serve la tecnica ma la politica, soprattutto nella dimensione drammatica della guerra, un caso in cui dal male può venire il bene». Insomma, siamo al Jean Monnet di «L'Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi». Le parole giuste per mettere in difficoltà Merz e far crescere Afd.
Anche a Parigi e Roma i mal di pancia non mancano. L’Italia con Belgio e Bulgaria ha già puntualizzato che le decisioni vere si prenderanno, all’unanimità, giovedì 18 e, come la Francia, teme come la peste l’eventuale obbligatorio passaggio parlamentare per approvare le garanzie al «pagherò». Ma ieri la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha avvertito che «le misure di ritorsione della Russia al congelamento dei suoi asset da parte dell'Ue non tarderanno ad arrivare». Aumentando così il livello di allarme per le circa 110 imprese italiane che si stima abbiano ancora attività produttiva o commerciale in Russia, tra cui Ferrero, Barilla, Calzedonia, Pirelli, Unicredit, Cremonini, De Cecco, Menarini, Buzzi Unicem. Stessa preoccupazione per i francesi, che in Russia controllano, tra gli altri, strutture produttive o commerciali di Leroy Merlin, Auchan, Decathlon, TotalEnergies, Lactalis e Bonduelle. Ancora peggio per i tedeschi che hanno tuttora circa 250-300 grandi società attive e temono conseguenze per Metro, Beiersdorf, Bayer e tanti altri. Su tutte incombe lo spettro dell’esproprio e della nazionalizzazione.



