La Commissione non sembra conoscere ostacoli nell’ormai disperato tentativo di assicurare un prestito per le ormai semivuote casse di Kiev. A Ursula von der Leyen non è bastata la lettera del premier belga Bart De Weiver, né il secco rifiuto da parte della Bce (ieri ribadito da Christine Lagarde in audizione al Parlamento Ue) di predisporre un prestito «paracadute» per gli Stati membri, qualora questi ultimi fossero costretti a onorare in pochi giorni la garanzia eventualmente prestata alla belga Euroclear, depositaria dei fondi russi. La bozza del testo, che si intende adottare e su cui si cercherà il consenso politico durante il Consiglio europeo del 18 dicembre, ripropone pedissequamente tutte le idee già bocciate dai belgi nei giorni scorsi e anzi rilancia sugli importi e sul tema delle garanzie. Due sono gli aspetti molto controversi.
Per tacitare, almeno in parte, i timori del Belgio di ritrovarsi a dover restituire immediatamente i fondi russi sequestrati, a causa del mancato rinnovo semestrale delle sanzioni, a Bruxelles si sono inventati un aggiramento della regola dell’unanimità, definito «pazzesco» da alcune fonti diplomatiche. Poiché quel rinnovo semestrale deve essere votato all’unanimità, che Ungheria e Slovacchia potrebbero far mancare, a Bruxelles si sono inventati una scappatoia legale per far votare quel rinnovo a maggioranza qualificata. Facendo leva sull’articolo 122 dei Trattati che prevede «circostanze eccezionali non controllabili» come base giuridica per votare a maggioranza qualificata. La tesi (molto ardita secondo numerose fonti citate dal Financial Times e da Politico.eu) è che l’improvvisa mancata proroga delle sanzioni e il conseguente diritto dei russi di vedersi restituire i loro depositi, nel frattempo indisponibili perché utilizzati per il prestito all’Ucraina, sarebbe una minaccia per la stabilità finanziaria e il mercato interno. Per evitare l’emergenza basta la maggioranza qualificata, sostiene la Commissione. Ammesso e non concesso che questa ennesima forzatura della Von der Leyen riesca a superare le perplessità di ordine legale, dal Belgio ieri si sono affrettati a rendere nota tutta la loro insoddisfazione. Infatti il timore di un rinnovo delle sanzioni era solo una delle obiezioni del governo belga. Un altro serio motivo che potrebbe dare ai russi il diritto di esigere immediatamente la restituzione della loro liquidità è l’eventuale vittoria in un arbitrato in una qualsiasi sede giurisdizionale internazionale. E in quel caso Euroclear sarebbe insolvente all’istante, a meno che non soccorrano le garanzie degli Stati membri. Ma anche in quest’ultimo caso - ecco il perché del maldestro tentativo di chiedere un prestito «paracadute» alla Bce - qualche Stato membro potrebbe avere difficoltà ad onorare in tempi rapidi la garanzia prestata. Con evidente disprezzo di tutti questi rischi, la Commissione ieri ha proposto un prestito per complessivi 210 miliardi, facendo leva sui 185 miliardi sequestrati presso Euroclear e altri 25 presso altre istituzioni nella Ue. Alla difesa dell’Ucraina saranno riservati 115 miliardi, mentre al finanziamento del bilancio di Kiev saranno destinati altri 50 miliardi. Tutti prestiti che dovrebbero essere rimborsati dall’Ucraina alla Ue se e quando Mosca pagherà a Kiev le riparazioni di guerra. Un evento così improbabile che induce a considerarli di fatto dei sussidi. Al momento, sul tavolo negoziale, purtroppo per noi, ci sono solo le garanzie degli Stati membri che somigliano tanto a un assegno «in bianco» a favore della belga Euroclear, in assenza del quale dal Belgio non uscirà un solo centesimo.
Se questo è il terreno scivoloso su cui ci si muove a Bruxelles, in Italia ci ha pensato il ministro degli Esteri Antonio Tajani a gettare altra benzina sul fuoco, tirando in ballo il Mes. «Un’ipotesi per esempio potrebbe essere secondo me l’utilizzo del Mes come garanzia», ha buttato là il ministro.
Tale affermazione si scontra platealmente con ciò che può fare il Mes. L’intervento viene eventualmente richiesto (il Mes non arriva da solo) in caso di minaccia alla stabilità finanziaria e concreto pericolo di perdita dell’accesso ai mercati da parte di uno Stato membro. Ricordiamo tutti come finì il cosiddetto Mes «pandemico», messo a punto dopo mesi di trattativa, per consentire una torsione dei fini statutari del Mes, e mai richiesto da nessuno. «No a fughe in avanti sul Mes: i soldi degli italiani non possono essere usati né per finanziare il riarmo europeo, né per gli asset russi. Piuttosto, quei fondi vanno utilizzati per ridurre la pressione fiscale a favore di lavoratori, imprese, famiglie italiane», ha dichiarato ieri la Lega.
Nessuno sa cosa ci sia oltre la linea rossa che si valica confiscando di fatto le riserve di una banca centrale. Meglio non provarci.
Ucraina, oggi Witkoff incontra Putin. Zelensky e Macron insistono per non cedere territori
- Ieri il colloquio del presidente ucraino con l’omologo francese, Rutte, diversi leader europei e Starmer. Meloni: «Convergenza Usa-Unione, Mosca dia il suo contributo».
- Col debito Ue armiamo Kiev anziché l’Europa. Fondi Safe di 15 Stati con aiuti alla resistenza. Bruxelles insiste sui beni russi, il Belgio: «Rischio bancarotta».
Lo speciale contiene due articoli.
Washington continua a tessere la tela diplomatica per cercare di portare a conclusione la guerra in Ucraina. L’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, sono attesi oggi a Mosca, dove incontreranno Vladimir Putin. Ci si attende che i tre discuteranno della proposta di pace in 19 punti, emersa dai colloqui di Ginevra tra Washington e Kiev. Alcuni giorni fa, il Telegraph aveva riferito che, nella sua visita in Russia, Witkoff avrebbe sottoposto un’offerta allo zar: gli americani riconoscerebbero la sovranità di Mosca su Crimea e territori occupati, mentre il Cremlino, dal canto suo, accetterebbe un accordo di pace. Non sappiamo se Witkoff avanzerà realmente questa proposta al presidente russo. È tuttavia abbastanza chiaro che il suo viaggio a Mosca potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle trattative.
Tra l’altro, ieri, lo stesso Witkoff ha avuto modo di parlare con Volodymyr Zelensky, Emmanuel Macron e l’attuale capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, in quello che il presidente ucraino ha definito un «briefing importante». «Abbiamo concordato di discutere personalmente maggiori dettagli: i team coordineranno i programmi per possibili contatti futuri», ha aggiunto. Poco prima, il leader ucraino aveva avuto una conferenza con i leader europei, a cui aveva preso parte anche Giorgia Meloni, la quale, in una nota di Palazzo Chigi, aveva «ribadito l’importanza della convergenza di vedute tra partner europei e Stati Uniti quale fondamento per il raggiungimento di una pace giusta e duratura», auspicando «che Mosca offra a sua volta un fattivo contributo al processo negoziale».
Non solo. Witkoff era anche presente, insieme al segretario di Stato americano Marco Rubio, ai colloqui tenutisi domenica a Miami tra la delegazione statunitense e quella ucraina, guidata da Umerov. «Abbiamo avuto una sessione molto produttiva. Non vogliamo solo porre fine alla guerra, ma rendere l’Ucraina sicura per sempre», ha dichiarato Rubio dopo il meeting dell’altro ieri, per poi tuttavia precisare che «c’è ancora molto lavoro da fare». Da parte ucraina, i colloqui in Florida sono stati definiti «intensi, ma non negativi». «Ci sono ancora alcune questioni difficili che devono essere risolte», ha comunque dichiarato ieri Zelensky, riferendosi al meeting di Miami.
Secondo The Hill, il nodo principale continuerebbe a risiedere nella questione delle cessioni territoriali e in quella delle garanzie di sicurezza all’Ucraina: due dossier, rispetto a cui si registra ancora una certa distanza tra Washington e Kiev. E infatti ieri, in conferenza stampa con Macron a Parigi, il presidente ucraino ha detto che soltanto l’Ucraina può prendere decisioni sui propri territori. «La Russia deve fermare l’aggressione. Non ha dato alcun segnale, nessuna prova in tal senso», ha inoltre dichiarato, aprendo alla possibilità di un colloquio diretto con Trump per discutere delle «questioni chiave», dopo che Witkoff sarà tornato dalla Russia. «Dobbiamo fare in modo che la Russia non abbia l’impressione di ottenere una ricompensa per la guerra», ha proseguito il presidente ucraino, mentre Macron, sentendo Trump al telefono, ha sottolineato la necessità di garanzie di sicurezza per Kiev.
Il problema, per Zelensky, è che le manovre diplomatiche stanno entrando in una fase delicata proprio mentre lui si è indebolito politicamente. Il passo indietro, venerdì scorso, di Andriy Yermak - che, oltre a essere capo di gabinetto dell’Ufficio presidenziale ucraino era anche il leader del team negoziale di Kiev - ha notevolmente fiaccato la posizione dello stesso Zelensky al tavolo diplomatico. Tanto più che l’uscita di scena di Yermak non sarebbe avvenuta in modo indolore. «Stando alla Urkainska Pravda, Yermak era isterico quando Zelensky gli ha proposto di dimettersi», ha riferito ieri Nexta, secondo cui l’ormai ex capo di gabinetto sarebbe stato silurato da uno sforzo di concerto tra funzionari e ministri che lo ritenevano ormai un problema a causa dell’indagine su di lui condotta dall’autorità anticorruzione. D’altronde, nonostante si parlasse di sue «dimissioni», venerdì stesso Zelensky aveva firmato un decreto di «rimozione» del suo braccio destro. Le stesse parole rilasciate da Yermak al New York Post dopo l’estromissione erano apparse particolarmente astiose. Certo: interpellato sullo scandalo corruzione che sta scuotendo i vertici di Kiev, ieri Macron ha replicato che la Francia «non dà lezioni» all’Ucraina. Resta comunque il fatto che questa situazione rischia di indebolire seriamente il presidente ucraino in una fase cruciale del processo diplomatico. E difficilmente Parigi potrà offrirgli una sponda troppo solida rispetto alle pressioni di Washington, che punta a chiudere il conflitto con l’obiettivo principale di sganciare il più possibile Mosca da Pechino. Agli occhi di Trump è infatti questa la partita prioritaria. Senza infine trascurare che Casa Bianca e Cremlino cercano una sponda reciproca in Medio Oriente. Putin ha bisogno di Trump per recuperare terreno in Siria, farsi coinvolgere nel rilancio degli Accordi di Abramo e non restare tagliato fuori dalla ricostruzione di Gaza. Trump, per parte sua, ha bisogno di Putin per arrivare a un accordo sul nucleare con l’Iran. Non è un caso che oggi, a Mosca, andranno Witkoff e Kushner: i protagonisti del piano di pace per Gaza e, soprattutto, le figure di raccordo della Casa Bianca con Israele e l’Arabia Saudita. È in questo quadro geopolitico complesso che il presidente americano sta leggendo e cercando di risolvere il rebus ucraino.
Col debito Ue armiamo Kiev anziché l’Europa
A Bruxelles, in assenza di fatti nuovi, sono abituati a riciclare fatti vecchi, spacciandoli per nuovi. Ieri è stata la volta del piano Safe - uno strumento di finanziamento fino a 150 miliardi per le spese militari - lanciato dalla Commissione a fine maggio. Infatti il 30 novembre scadeva il termine per presentare - da parte dei 19 Stati membri che a fine luglio avevano espresso un’opzione - il piano delle spese da eseguire nel quinquennio 2026-2030 da finanziarsi con «comodi» prestiti erogati dalla Commissioni rimborsabili fino a 45 anni.
I piani di spesa hanno sostanzialmente confermato le opzioni espresse già a fine luglio, con l’Italia che potrebbe attingere a un prestito fino a 14,9 miliardi e la Polonia in testa al gruppo dei richiedenti con 43 miliardi. Rilevanti anche le richieste di Ungheria (16 miliardi), Romania (17 miliardi) e Lettonia e Lituania (circa 6 miliardi, una cifra molto rilevante rispetto al Pil). Immediato l’annuncio «urbi et orbi» del commissario Ue alla Difesa, Andrius Kubilius, che ha definito il programma Safe come «fondamentale per la prontezza della difesa dell’Ue e per la nostra base industriale». «Quindici Paesi hanno incluso il sostegno all'Ucraina. Più del previsto! E parliamo di miliardi, non di milioni», ha aggiunto Kubilius.
A ben vedere, Safe è uno strumento di finanziamento a sostegno di piani di acquisto di un nutrito elenco di sistemi d’arma, per almeno il 65% fabbricati nella Ue. Per evitare frammentazioni negli acquisti, ciascuno Stato beneficiario dovrà partecipare ad appalti comuni, coinvolgendo almeno uno Stato membro beneficiario di Safe e un altro Stato membro, nonché l’Ucraina e i paesi See-Efta.
Quello che Kubilius non ha detto è che si tratta del mero finanziamento di spese già previste in bilancio - come dichiarato dal ministro Giancarlo Giorgetti già a fine luglio - quando ha definito il Safe una «fonte alternativa per finanziare spese in larga parte già previste e già in itinere». Niente di più di quanto già previsto nel bilancio della Difesa che, fino al 2028, dovrebbe passare gradualmente da circa 45 miliardi del 2025 a 61 miliardi. Equivale a decidere a quale banca rivolgersi, una volta che si è deciso di ristrutturare la casa. Noi continuiamo a sostenere che la Commissione sia una «banca» solo apparentemente meno costosa, dato il carico di burocrazia e condizioni che assistono qualsiasi finanziamento da Bruxelles, tristemente sperimentato per il Pnrr. Ma nonostante Giorgetti abbia fatto valutazioni diverse, solo di questo si tratta, non di nuove spese militari. La cui abbondanza comincia a destare strani appetiti, perché ieri in Germania, la Bundeswehr si è vista derubata quasi dell’intero carico di un camion civile carico di proiettili e granate, lasciato incustodito.
Preso dal trionfalismo dell’annuncio, Kubilius si è ben guardato dal parlare del fallimento del negoziato per l’adesione del Regno Unito al programma Safe, annunciato proprio nelle stesse ore. La Commissione aveva chiesto a Londra un contributo di 6,7 miliardi e si è vista fare una irricevibile controfferta di 82 milioni, per la delusione dell’industria militare di Sua Maestà che già pregustava lauti affari e che ora parteciperà soltanto alla quota residua del 35% destinata alle industrie extra Ue.
Invece i soldi che non si trovano continuano ad essere quelli destinati a finanziare il fabbisogno delle esauste casse statali ucraine. A perorare la causa dell’utilizzo degli asset russi, ieri è stato il turno di Kaja Kallas, alto rappresentante Ue per gli Esteri. Si tratta della «soluzione migliore» a suo dire, per poi aggiungere che «non intende sminuire le preoccupazioni del Belgio […] possiamo assumerci i rischi insieme […] dobbiamo lavorare sulla proposta legislativa, per affrontare o mitigare tutti i rischi e assumerci l’onere». Molto facile per l’ex-premier estone parlare di condivisione dei rischi, quando il suo Paese coprirebbe quei rischi per una percentuale infinitesimale, mentre un Paese come l’Italia sarebbe chiamata a fornire garanzie per almeno il 14% del totale. Intanto ci sarà poco da attendere per conoscere i decisivi dettagli di questo guazzabuglio, perché sempre ieri la Commissione ha annunciato che la proposta legislativa è attesa a giorni.
Dal Belgio intanto il ministro degli esteri, Maxime Prévost ha ribattuto, osservando quanto andiamo scrivendo da settimane: «I rischi per il Belgio sono semplici: se la Russia ci porta in tribunale avrà tutte le possibilità di vincere e noi non saremo in grado di rimborsare questi 200 miliardi perché rappresentano l’equivalente di un anno di bilancio federale. Significherebbe la bancarotta». Un’uscita che alza ancora il livello dello scontro, fatto di botta e risposta ormai quotidiani e che dimostra il concreto timore dei belgi di restare col cerino in mano e, al contempo, l’evidente riottosità degli altri Stati membri di appesantire ancora i rispettivi bilanci pubblici. Ma ormai sta per alzarsi il sipario e così conosceremo tutti i dettagli della tragicommedia in corso.
Il conto alla rovescia che ci separa dal Consiglio europeo del 18 dicembre prosegue inesorabilmente e le idee su come e quando finanziare le esauste casse di Kiev continuano ad essere poche e tutte altamente divisive.
A confermare la delicatezza del momento, ieri sono arrivate le dichiarazioni, quasi da ventiquattresima ora, del presidente del Consiglio europeo, António Costa, al settimanale portoghese Expresso: «Posso garantire che il Consiglio europeo di dicembre non si concluderà senza l’approvazione dei finanziamenti all’Ucraina per il 2026 e il 2027, indipendentemente dalla modalità su cui si baseranno tali finanziamenti. Ho già informato i miei colleghi che questa volta dovranno prepararsi, se necessario, a un Consiglio europeo più lungo».
Un appello senza mezzi termini, dove l’unica cosa incerta è il «come», non il «se» la Ue deciderà di erogare 140 miliardi (nel frattempo ridottisi a 35) all’Ucraina entro il primo trimestre 2026. E già questo è un rilevante motivo di allarme per il nostro Paese che, in un modo o nell’altro, sarà chiamato a garantire o contribuire direttamente una quota rilevante di quella cifra. Sono proprio le parole di Costa a lasciar intendere, nemmeno troppo velatamente, che l’operazione sarà accuratamente travestita in modo da non suscitare troppo allarme nell’opinione pubblica degli Stati membri. Soprattutto in queste settimane in cui quasi tutti i governi sono alle prese con le rispettive leggi di bilancio, ovunque improntate alla riduzione dei deficit.
Tra le varie soluzioni da tempo sul tavolo, già presentate dalla Commissione ai capi di governo, Costa sposa apertamente quella che fa leva sullo sfruttamento degli asset russi. Esattamente quella che il premier belga Bart De Wever, aveva descritto, solo il giorno prima in una lettera di quattro pagine a Ursula von der Leyen, come «fondamentalmente sbagliata». Aggiungendo, giusto per far arrivare forte e chiaro il messaggio proprio a Costa, che «questa mossa potrebbe destabilizzare i mercati finanziari europei, dove Euroclear gestisce miliardi di asset. È un azzardo che beneficia solo l’Ucraina a breve termine, ma danneggia tutti noi a lungo andare […] invece di confiscare asset, dovremmo spingere per negoziati seri con la Russia. L’opposizione belga non è pro-Mosca, ma pro-stabilità: non possiamo giocare con il sistema finanziario globale per scopi geopolitici».
Invece il portoghese sostiene che «non c’è una soluzione priva di rischi, ma quella presentata dalla Commissione è molto creativa e intelligente e rispetta le norme del diritto internazionale, perché non si tratta propriamente di un’appropriazione dei beni sovrani russi. Si tratta piuttosto, per così dire, di un utilizzo del valore contabile di tali beni come veicolo per il finanziamento dell’Ucraina».
Una formula così sibillina che lascia intravedere un palese tentativo di aggiramento del problema principale sollevato dai belgi: se Euroclear prestasse alla Ue la liquidità russa già sequestrata da tempo, in modo che la Ue possa poi prestare quelle somme a Kiev, e Mosca volesse in futuro riappropriarsi di quelle somme - vuoi per la scadenza delle sanzioni o vuoi per una vittoria davanti a una Corte internazionale - i belgi non potrebbero soddisfare le richieste russe. Ecco perché Costa può fare qualsiasi acrobazia contabile ma Euroclear, depositario belga dei fondi russi, è chiaro da tempo circa la necessità di garanzie pro-quota da parte degli Stati membri. Da poter escutere se e quando la Russia potrà chiedere la restituzione della propria liquidità. È la tesi di Euroclear, ripetuta con maggiore autorevolezza da De Wever, che ha rilanciato la sua proposta di un prestito finanziato da debito congiunto Ue per 45 miliardi. Altra soluzione che, via bilancio Ue, inciderebbe comunque sui cittadini italiani.
L’aspetto preoccupante è che Costa ritiene ormai superata la discussione circa la necessità che i cittadini europei sostengano un costo per aiutare l’Ucraina e ricorre a paragoni francamente imbarazzanti e fuori luogo: «Il denaro non piove mai dal cielo e il denaro pubblico, direttamente o indirettamente, proviene sempre dall’economia, dai cittadini e dalle imprese». Con ciò facendo passare, senza fare una piega, la «normalità» che a pagare siano cittadini e imprese. A Costa andrebbe obiettato che non è affatto neutrale e irrilevante individuare chi, alla fine, resterà inciso. Invece Costa - avendo già deciso che metterà le mani nelle tasche dei contribuenti europei - è già oltre, e intende giustificare la validità della causa sostenendo che «dobbiamo investire nella sicurezza dell’Ucraina, non solo per solidarietà, ma anche per il nostro interesse nella nostra sicurezza. Non possiamo pensare che sia solo un problema del confine orientale, altrimenti corriamo il rischio che a chi vive nel Sud dell’Europa accada ciò che è successo a chi viveva nel centro e nel Nord dell’Europa, quando pensavano che la questione dell’immigrazione fosse solo un problema del confine meridionale». Non poteva scegliere paragone più infelice, simile a un boomerang, ricordando un altro caso di clamoroso fallimento della fantomatica solidarietà europea. Citare un errore, per evitare di compierne un altro, sortirà l’effetto di far arrabbiare ancor più l’opinione pubblica italiana, lasciata sola in quell’occasione, e orientarla verso un secco «no» a qualsiasi trucchetto da fanta-finanza. Ma i belgi sono stati chiari e lo saranno anche il 18 dicembre: prima pagare, poi vedere cammello.





