Oggi al Consiglio europeo l’assalto al nostro portafogli per finanziare l’Ucraina

L’unica cosa certa del Consiglio europeo di oggi è che comincerà intorno alle 10. Tutto il resto è da vedere e, soprattutto, da scrivere.
Almeno a giudicare dalle diverse ipotesi che si susseguono in queste ore per riuscire a trovare la quadra per garantire all’Ucraina un prestito entro i primi mesi del 2026. Le differenze partono già dalla finalità di quella somma (210 miliardi, distribuiti fino al 2030, di cui 90 entro il prossimo primo semestre). Comprare armi e quindi continuare la guerra fino all’ultimo giovane ucraino, oppure dedicarli alla ricostruzione? Coinvolgendo quali aziende? La Germania ha già fatto sapere che una quota di lavori per le proprie aziende è una condizione essenziale per il prestito.
Sulle modalità di esecuzione di quel prestito, facendo leva sui fondi russi sequestrati, siamo ormai al museo degli orrori. Il problema, privo di soluzioni, è sempre quello: come trasferire la liquidità russa dai conti di Euroclear a quelli della Commissione, per poi prestarli all’Ucraina, senza provocare il default della società belga? La soluzione sul tavolo è quella delle garanzie degli Stati membri che assisterebbero il «pagherò» che Euroclear dovrebbe mettere nel proprio bilancio al posto della liquidità in uscita. Un titolo di credito, infruttifero di interessi e invendibile, che peggiorerebbe il rating dei belgi, come prontamente evidenziato ieri dalla società di rating (americana: vale la pena ricordarlo sempre) Fitch.
Ma anche qualora questa ipotesi fosse approvata, cosa accadrebbe se i russi si vedessero riconosciuto, in qualche modo, il diritto di restituzione di quei fondi? Tramontata l’ipotesi di un intervento della Bce, stracciando i Trattati, con un prestito paracadute, resta sul tavolo la garanzia degli Stati membri. In quel caso, Euroclear dovrebbe escutere le garanzie fornite pro-quota dagli Stati membri (25 miliardi la quota italiana) e incassare la liquidità entro pochi giorni lavorativi. Un evento che potrebbe scatenare un vero e proprio terremoto sui mercati finanziari, al punto che qualche Stato membro potrebbe essere impossibilitato ad adempiere. Questa ipotesi è talmente realistica che l’ultima versione del piano - riportata ieri dal Sole 24 Ore, che comunque torna su uno schema ipotizzato - prevede la Commissione nel ruolo di «super garante».
Da Bruxelles sarebbe attivato un meccanismo di liquidità secondo cui la Commissione «emetterebbe bond ad hoc per raccogliere la liquidità necessaria per subentrare agli Stati garanti del prestito ma che potrebbero trovarsi in difficoltà (spazio fiscale non sufficiente) per far fronte alle garanzie, nel caso fossero escusse».
Con ciò causando un enorme danno alla stabilità finanziaria del malcapitato Stato che si trovasse in tale imbarazzante situazione e potenziali effetti destabilizzanti a cascata sul mercato dei titoli governativi, la cui portata appare incommensurabile.
Una soluzione che cozza platealmente con la posizione inizialmente assunta dalla Commissione che aveva escluso il coinvolgimento diretto delle casse della Ue e degli Stati membri, proprio per la loro insufficienza e le conseguenti tensioni sui mercati. Invece ora pare una soluzione sul tavolo.
Noi osiamo sperare che i leader europei e Giorgia Meloni in primis, si rendano conto della pericolosità di tale schema e dei rischi concreti attuali che ne derivano. Il fatto che il nostro Paese sia l’ago della bilancia in una scelta che si preannuncia altamente decisiva è testimoniato - perché certi articoli non escono mai per caso - dal monito nemmeno tanto velato apparso ieri sul Financial Times, in cui sostanzialmente si invita la Meloni a «fare la scelta giusta» (anche sulla vicenda del Trattato Mercosur). Finora il premier ha evitato di scegliere, si sostiene da Londra, ma ora è arrivato il momento in cui non può più essere «enigmatica».
Ancora più preoccupante è l’ipotesi apparsa ieri su Politico, in cui si parla di un ipotetico voto a maggioranza qualificata - evento ritenuto impossibile nel Consiglio europeo che decide sempre «per consenso», cioè all’unanimità - per scavalcare l’opposizione del Belgio e di altri eventuali Paesi contrari. Insomma, la confusione e l’ansia di portare a casa un risultato su cui è stato investito un enorme capitale politico è tale che siamo entrati direttamente nella fase del «diritto creativo» in cui tutto si può. E sempre nella giornata ieri, sono state diffuse tramite non meglio precisato «fonti Ue» voci sull’utilizzo dell’articolo 122 del Tfue, ovvero quello che permette di aggirare l’unanimità tra gli Stati Ue in situazioni di emergenza, «potrebbe essere utilizzato anche per emettere debito comune che finanzi un prestito per l’Ucraina». Tale «principio» - di fatto un completo e deliberato smantellatamento dei Trattati - poggerebbe sulle parole della presidente della Bce, Christine Lagarde, (nuova, inattesa fonte primaria del diritto...), la quale avrebbe fatto presente che se l’articolo 122 può essere utilizzato per un regime di sanzioni, allora può essere utilizzato anche per emettere debito comune».
Non può dunque stupire il fatto che Viktor Orbán abbia minacciato di ritirare le valute detenute dal suo Paese presso Euroclear in caso di «esproprio» dei fondi russi, ipotesi che terrorizza soprattutto il Belgio, Paese fondatore delle istituzioni comunitarie che ospita Euroclear e che ora le stesse istituzioni minacciano di tagliar fuori da una decisione che ha dell’incredibile nel metodo e nel merito. Con ben più diplomazia rispetto all’omologo ungherese, anche Giorgia Meloni ha detto in Aula: «La base giuridica deve essere solida. Per un motivo molto semplice: se dovessimo perdere davanti a qualunque corte al mondo, avremmo regalato a Putin l’unica vittoria di questa guerra».
E oltre agli occhi russi, sul Consiglio europeo di oggi vigileranno quelli degli Usa, da sempre nemmeno troppo velatamente contrari all’operazione sugli asset. Sarà un consesso molto lungo e agitato.






