Frenata sull’accordo dopo le accuse russe: «Tentato raid ucraino contro casa di Putin»
- Ira di Donald Trump per l’attacco. Kiev nega: «Bugie per minare l’intesa». Sergej Lavrov: «La nostra posizione negoziale cambierà».
- Conquistati, secondo l’esercito, 334 insediamenti in 12 mesi e 700 chilometri quadrati a dicembre.
Lo speciale contiene due articoli
All’indomani dell’incontro vis-à-vis tra il presidente americano, Donald Trump, e l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Mar-a-Lago, sia i diretti protagonisti della guerra che i mediatori americani hanno annunciato che la pace è vicina, nonostante gli importanti nodi irrisolti. Ma si tratta di una visione che è durata poche ore. Si è aggiunto infatti un nuovo elemento che complica ulteriormente il quadro dei negoziati: Mosca ha accusato Kiev di aver lanciato 91 droni, tutti abbattuti, contro la residenza del presidente russo, Vladimir Putin, nella regione di Novgorod. Ne è seguito un botta e risposta tra il Cremlino e l’Ucraina, con Zelensky che ha smentito, sostenendo che si tratti di «tipiche bugie russe» per «avere una giustificazione per continuare gli attacchi contro l’Ucraina» e «per rifiutarsi di compiere i passi necessari per porre fine alla guerra». La conseguenza più rilevante è che, come comunicato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, «la posizione negoziale della Russia sarà rivista». Mosca ha inoltre già scelto i target ucraini «per gli attacchi di rappresaglia». Va però detto che Lavrov ha comunque affermato che Mosca non intende ritirarsi dalle trattative di pace.
Alla notizia del presunto raid ucraino è seguita una nuova telefonata tra Trump e Putin che sarebbe stata «positiva» secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. In merito al tentato attacco contro la residenza dello zar, secondo quanto rivelato dal consigliere presidenziale russo, Yurij Ushakov, Trump è rimasto «scioccato e indignato»: «Non mi è piaciuto l’attacco ucraino, me lo ha detto Putin, mi sono arrabbiato», ha dichiarato il tycoon, «Una cosa è essere all’offensiva, un’altra cosa è attaccare la sua casa. Non va bene, non è il momento giusto». Ushakov ha anche precisato che l’episodio «certamente influenzerà l’approccio americano alla collaborazione con Zelensky, al quale l’attuale amministrazione, come ha detto lo stesso Trump, grazie a Dio, non ha dato il Tomahawk». La telefonata tra i due leader è stata anche l’occasione per il presidente americano di informare l’omologo russo sui risultati raggiunti con Zelensky. Ma pare che i progressi ottenuti in Florida non abbiano suscitato una reazione positiva da parte del Cremlino. Ushakov ha infatti dichiarato che nonostante «i risultati vadano proprio nella direzione della risoluzione», «lasciano alle autorità di Kiev un margine di interpretazione per eludere l’adempimento dei propri obblighi». E ha aggiunto che «la parte americana», durante i colloqui con l’Ucraina, «ha avanzato in modo aggressivo l’idea della necessità che Kiev adotti misure concrete per una soluzione definitiva del conflitto», chiedendo «di non nascondersi dietro richieste di un cessate il fuoco temporaneo».
Prima dell’ultimo colpo di scena, il leader di Kiev, dopo l’incontro con il tycoon, ha affermato che «il piano di 20 punti è stato concordato al 90%» e il Cremlino si è mostrato concorde con la visione di Trump, secondo cui le trattative sono nella fase finale.
L’ostacolo sempreverde che impedisce la svolta concreta rimane il nodo territoriale, oltre alla gestione della centrale di Zaporizhzhia. Domenica, il presidente americano, riconoscendo che restano sul tavolo «una o due questioni spinose» da risolvere, ha lanciato di persona l’avvertimento a Zelensky: «Conviene raggiungere un accordo» visto che «alcune terre sono già state prese» da Mosca e altre «potrebbero esserlo nei prossimi mesi. D’altronde, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito che la fine della guerra ci sarà solo con il ritiro di Kiev «oltre i confini amministrativi del Donbass». Dall’altra parte il presidente ucraino non ha intenzione di gettare la spugna: in un’intervista rilasciata a Fox News ha dichiarato che «l’85%» del popolo «è contrario al ritiro delle truppe dal Donbass». Eppure, l’opinione degli ucraini cambia in base al luogo in cui vivono: chi si trova nell’Est del Paese è più propenso a scendere a compromessi. A spiegarlo a Rbc-Ukraine è stato il capo del Rating sociological group, Oleksii Antypovych: «Più si va a Ovest e più forte è la resistenza a qualsiasi concessione territoriale; più si va a Est e maggiore è la disponibilità ad accettarle». Ciò è legato alla linea del fronte: chi vive vicino, stremato dalla guerra, è favorevole a cedere i territori pur di vedere la fine delle ostilità.
Se sui territori prosegue lo stallo, i maggiori risultati dell’incontro di domenica tra Trump e Zelensky si sono registrati nell’ambito delle garanzie di sicurezza. A detta del leader ucraino, Kiev e la Casa Bianca sono «d’accordo al 100% sulle garanzie di sicurezza e sulla dimensione militare». Ciononostante, Zelensky non sarebbe pienamente soddisfatto dalla proposta americana. In uno dei documenti inerenti alla pace in Ucraina, Washington si impegna infatti a fornire le garanzie di sicurezza per un periodo di 15 anni che può essere prolungato. Si tratta di un tempo insufficiente per Zelensky, che quindi ha richiesto a Trump la possibilità di estendere le garanzie di sicurezza «di 30, 40 o 50 anni». E nonostante il leader di Kiev abbia ripetuto che «la presenza di truppe internazionali sia una vera garanzia di sicurezza», sembra invece che il progresso più tangibile a tal proposito riguardi l’idea italiana sulle garanzie simili all’articolo 5 della Nato. In quest’ottica, per la prima volta, Kiev ha partecipato all’esercitazione Loyal Dolos 2025 che riguarda i meccanismi proprio dell’articolo 5 dell’Alleanza atlantica. Durante lo svolgimento, sono state integrate le lezioni apprese dalla guerra in Ucraina, con gli esperti di Kiev che sono stati direttamente coinvolti.
Continua l’avanzata di Mosca nel Donbass e a Zaporizhzhia
Le forze russe continuano a spingere lungo più direttrici del fronte ucraino mentre le unità di Kiev arretrano. È il quadro tracciato dal presidente russo Vladimir Putin al termine di una riunione con i vertici militari convocata al Cremlino per fare il punto sull’andamento delle operazioni. Secondo il capo dello Stato, «la liberazione del Lugansk e delle repubbliche popolari di Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson procede passo dopo passo», mentre «le forze armate ucraine si stanno ritirando lungo l’intera linea di contatto». Putin ha rivendicato in particolare i progressi del raggruppamento di forze Vostok nella regione di Zaporizhzhia. «Dopo l’attraversamento del fiume Gaichur, le nostre truppe hanno sfondato le difese nemiche e avanzano rapidamente in direzione di Zaporizhzhia», ha affermato, sostenendo che le operazioni si stiano svolgendo «in piena conformità con il piano operativo militare». Il presidente ha inoltre sollecitato i comandi a «contrastare con decisione» ogni tentativo ucraino di interferire sull’asse di Kupyansk, assicurando che «le misure necessarie sono già in atto». Nel corso della stessa riunione, Putin ha ribadito l’intenzione di proseguire anche nel 2026 il lavoro per «allargare la zona di sicurezza» lungo il confine russo-ucraino. «È un compito di fondamentale importanza, perché garantisce la sicurezza delle regioni di confine della Federazione», ha sottolineato, precisando che si tratta di un obiettivo destinato a proseguire nel tempo.
A rafforzare la narrazione del Cremlino è intervenuto il capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Secondo il generale, l’esercito ucraino avrebbe ormai rinunciato a operazioni offensive su larga scala, limitandosi a «tentare di rallentare l’avanzata delle truppe russe». Nell’ultimo anno, ha spiegato, 334 insediamenti sarebbero passati sotto il controllo di Mosca e, nel solo mese di dicembre, oltre 700 chilometri quadrati sarebbero stati «liberati». Nel bilancio complessivo del 2025, Gerasimov ha parlato di 6.640 chilometri quadrati conquistati e di 32 località occupate dall’inizio di dicembre, definendo il dato mensile «il più alto dall’inizio dell’anno». Intanto, la guerra si è fatta sentire anche sul territorio russo. Nella notte sono state segnalate esplosioni in diverse località, attribuite ad attacchi con droni lanciati da Kiev contro obiettivi militari e infrastrutturali. Secondo quanto riferito da media indipendenti, forti detonazioni sono state udite nei pressi della base aerea di Khanskaya, vicino a Maykop, nella Russia meridionale. Sirene antiaeree avrebbero risuonato anche nell’oblast di Tula, mentre un’altra esplosione è stata segnalata nella regione di Krasnodar. Nella regione di Samara, invece, sarebbe stata colpita la raffineria di Syzran. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver abbattuto complessivamente 89 droni ucraini nel corso della notte. Sul fronte ucraino, mentre il presidente è impegnato in una delicata missione diplomatica, l’analisi della situazione viene affidata ai vertici dell’apparato di sicurezza. Kyrylo Budanov, capo del Direttorato principale dell’intelligence militare, ha delineato uno scenario che non contempla uno stop immediato del conflitto. Secondo le sue valutazioni, almeno un altro mese di guerra appare inevitabile, senza sostanziali cambiamenti nel copione bellico, segnato nelle ultime 48 ore da intensi raid russi. Febbraio, tuttavia, potrebbe rappresentare una svolta. «È il periodo più favorevole sia per la Russia che per l’Ucraina per ottenere qualcosa», ha spiegato, collegando questa finestra temporale sia all’andamento delle operazioni militari sia al fattore stagionale, con l’inverno ormai verso la fine.
La Nigeria prova a rafforzare il proprio dispositivo militare contro il jihadismo armato e si rivolge agli Stati Uniti per colmare un deficit operativo che da anni compromette la sicurezza del Nord del Paese. Il presidente Bola Tinubu ha confermato l’ordine di quattro elicotteri d’attacco di fabbricazione americana, chiarendo però che le consegne richiederanno tempo. Proprio per ridurre questo vuoto temporale, Abuja ha avviato canali paralleli anche con la Turchia (molto attiva nell’area), nel tentativo di accelerare l’accesso a capacità aeree considerate cruciali nella lotta ai gruppi jihadisti. La mossa arriva mentre cresce la pressione internazionale.
Venerdì scorso il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver autorizzato un raid aereo contro obiettivi dell’Isis in Nigeria, accusando apertamente i miliziani di condurre una campagna sistematica di violenze contro le comunità cristiane. Il governo nigeriano ha risposto rivendicando una «cooperazione strutturata in materia di sicurezza» con i partner internazionali, Stati Uniti compresi, sostenendo che le operazioni più recenti abbiano colpito con precisione infrastrutture terroristiche. Un messaggio diretto a Washington, dopo mesi di dichiarazioni aggressive di Trump, che già in autunno aveva evocato un possibile intervento diretto per difendere i cristiani nel Paese più popoloso dell’Africa. Sul terreno, però, la minaccia jihadista non si è certo esaurita con la dissoluzione di Boko Haram. Nel Nordest della Nigeria il baricentro del conflitto si è spostato sull’Iswap, la provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico, divenuta l’attore armato dominante dopo la morte di Abubakar Shekau nel 2021 e il collasso della fazione storica.
Questa evoluzione si riflette anche nella scelta dei bersagli. Iswap non agisce in modo casuale: punta a gestire rotte locali, imporre tributi alle comunità rurali e sfruttare l’assenza dello Stato. Le sue operazioni colpiscono basi militari, convogli dell’esercito e villaggi considerati ostili o collaborativi con le autorità. In questo quadro, le comunità cristiane risultano tra le vittime principali della violenza jihadista. Negli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, gli attacchi sono spesso diretti proprio contro insediamenti cristiani, con uccisioni mirate, incendi di chiese e abitazioni, e azioni volte a svuotare intere aree, favorendo sfollamenti forzati e alterando gli equilibri demografici locali. Iswap ha inoltre affinato la propria strategia militare e comunicativa. Evita, quando possibile, le stragi indiscriminate di musulmani che avevano isolato Boko Haram anche sul piano locale, preferendo un approccio più selettivo: violenza mirata, intimidazione e controllo attraverso la paura. Questa linea ha reso il gruppo più resiliente e capace di operare su scala regionale, con ramificazioni attive anche in Niger, Ciad e Camerun, mantenendo al tempo stesso una pressione costante sulle minoranze cristiane. A complicare la risposta di Abuja non c’è però solo la forza di Iswap. Un fattore decisivo resta la corruzione endemica nelle forze armate. Analisti e fonti di sicurezza segnalano da anni la dispersione di fondi destinati a equipaggiamenti e logistica, mentre i soldati schierati in prima linea denunciano carenze di munizioni, mezzi e stipendi. In più occasioni reparti hanno abbandonato le posizioni o evitato il confronto, lasciando villaggi - spesso cristiani - esposti agli attacchi. Collusioni, traffici illeciti e la vendita di armi sul mercato nero hanno ulteriormente indebolito l’apparato militare, contribuendo indirettamente alla capacità di Iswap di rifornirsi e riorganizzarsi. La corruzione mina anche il morale delle truppe e rafforza la narrativa jihadista, che descrive lo Stato come inefficiente e predatorio. Finché Abuja non affronterà in modo strutturale questo nodo - dalla catena di comando alla gestione dei fondi per la difesa - l’acquisto di nuovi elicotteri e il sostegno internazionale rischiano di restare del tutto insufficienti.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.





