Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Difesa europea sotto pressione: i numeri che smentiscono l’autonomia del Vecchio continente
La pubblicazione della nuova Strategia per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump, dai toni esplicitamente duri verso l’Europa, ha riacceso un interrogativo che da anni viene rinviato: il continente è realmente in grado di garantire da solo la propria sicurezza militare? Il documento, analizzato da Le Figaro, evidenzia una frattura sempre più evidente tra ambizioni politiche europee e realtà operativa sul terreno.
Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
Le autorità dell’anticorruzione ucraine hanno aperto un nuovo fronte interno in un momento cruciale per il Paese. Nabu, Sapi e i servizi di Sicurezza hanno annunciato di aver smantellato un presunto sodalizio criminale riconducibile alla parlamentare Anna Skorokhod, accusata di aver preteso denaro da un imprenditore. Secondo le prime ricostruzioni, la deputata - perquisita insieme ai suoi collaboratori - avrebbe costretto un uomo d’affari a versarle 250.000 dollari. Eletta nel 2019 nel distretto di Kiev ed entrata in Parlamento sotto la bandiera di Servitore del popolo (partito del presidente Volodymy Zelensky, Skorokhod era stata espulsa dal partito solo pochi mesi dopo e ora siede nel gruppo Per il futuro.
Il caso rischia di trasformarsi nell’ennesima ferita politica per un Paese già piegato dalla guerra e dalla pressione economica. La vicenda esplode mentre Kiev combatte un’altra battaglia: quella contro una corruzione strutturale che continua a divorare risorse vitali. Le stime degli organismi internazionali mostrano un’emorragia impressionante: ogni anno scompare tra il 10 e il 15% del Prodotto interno lordo. Tradotto in cifre pre-invasione, quando il Pil si aggirava sui 200 miliardi di dollari, significa un buco compreso fra 20 e 30 miliardi annuali. Fondi che mancano per modernizzare lo Stato, rafforzare l’economia e sostenere un apparato militare impegnato in un conflitto esistenziale con Mosca. Prima del 2022, le autorità di controllo avevano già rilevato voragini nella riscossione fiscale e doganale, pari a 5-8 miliardi l’anno, cui si sommano decenni di inefficienze croniche nel settore energetico e negli appalti pubblici.
Il problema ha anche un peso reputazionale enorme. Una posizione scomoda, che alimenta la propaganda russa (non certo immune alla corruzione), e che allo stesso tempo irrigidisce le condizioni poste da Unione europea e Stati Uniti per continuare a sostenere militarmente ed economicamente Kiev. Le riforme richieste sono drastiche, tanto più che - secondo la Banca mondiale - la ricostruzione dopo la guerra supererà i 450 miliardi di dollari. Nessun donatore, osservano i partner occidentali, investirà simili somme senza garanzie forti sulla trasparenza.
La guerra, tuttavia, complica ulteriormente il quadro. Da un lato ha costretto il governo a introdurre controlli più severi; dall’altro ha generato nuove aree opache, giustificate dalla segretezza militare e dall’afflusso straordinario di finanziamenti. Gli scandali sulla fornitura di materiale all’esercito, esplosi tra il 2023 e il 2024, testimoniano quanto il comparto difesa resti molto vulnerabile: contratti gonfiati, prezzi anomali e intermediari sospetti hanno minato la fiducia dei cittadini e rafforzato il ruolo delle agenzie anticorruzione, sempre più centrali nel sistema istituzionale.
In questo clima, al vertice dello Stato si apre un altro dossier sensibile. Il presidente Volodymyr Zelensky sta valutando la nomina del vicepremier e ministro della Trasformazione digitale, Mykhailo Fedorov, alla guida dell’Ufficio presidenziale dopo le dimissioni di Andriy Yermak. Fonti del Parlamento e del governo parlano di una decisione «quasi definitiva», poi frenata all’ultimo momento. Le dimissioni di Yermak arrivano infatti sullo sfondo dell’operazione Midas, l’inchiesta che ha scoperchiato un sistema di tangenti multimilionario legato a Energoatom, il colosso dell’energia nucleare ucraina. Otto persone sono state incriminate, mentre il produttore cinematografico Timur Mindich, indicato come il dominus del gruppo, è già scomparso all’estero e nessuno ha più sue notizie.
Le ricadute politiche sono state immediate: il Parlamento ha sfiduciato il ministro dell’Energia Svitlana Hrynchuk e il titolare della Giustizia German Galushchenko, mentre l’ex ministro della Difesa Rustem Umerov risulta a sua volta tra i nomi finiti nel mirino degli inquirenti. Le indiscrezioni filtrate da Kiev raccontano anche di un possibile beneficio personale destinato a Yermak: una villa di lusso nella capitale che sarebbe stata parte del giro di corruzione.
Gli investigatori, che hanno effettuato perquisizioni nella sua abitazione e nei suoi uffici, lo avrebbero indicato nei documenti con il soprannome di «Ali Baba», un riferimento che sintetizza il clima di sfiducia e amarezza con cui l’opinione pubblica osserva l’ennesima vicenda giudiziaria. In un Paese che tenta di vincere una guerra e di agganciare l’Europa, ogni nuovo scandalo è un colpo alla resilienza nazionale. Ma anche un test: dimostrare di saper ripulire le proprie istituzioni è ormai parte integrante della sopravvivenza politica dell’Ucraina.
La capacità di Kiev di perseguire funzionari, parlamentari e dirigenti legati a reti corruttive diventa così un banco di prova non solo per la classe politica, ma anche per la società civile, chiamata a sostenere un percorso di riforme che richiede costanza, trasparenza e sacrifici.





