Neppure Natale scuote il Tribunale. La famiglia nel bosco rimane divisa

Non c’erano telecamere davanti al Tribunale dell’Aquila e questo era già un indizio: nessuno si aspettava la svolta della storia, per non dire il lieto fine. Ha vinto la burocrazia, il calendario della giustizia coi suoi tempi. Anche se siamo in Avvento e per i bambini l’idea di aprire ogni giorno una finestrella e godere della sorpresa è la prassi di queste settimane. Non c’è alcuna sorpresa tra le finestrelle e dunque finirà che la famiglia nel bosco resterà nella casa famiglia, «congelata» in quel freddo creato dal Tribunale dei minori, dove si tolgono i figli ai genitori in nome di un interesse superiore. Eppure, quell’interesse superiore molti italiani non lo vedono proprio. Anzi, vedono sempre più un sottile accanimento contro mamma Catherine e papà Nathan, una sfida muscolare tra giudici e genitori anche se i genitori da tempo sono scesi dalle loro posizioni più rigide pur di ritornare a casa. Che non è più la stessa nel bosco. Così come non sarà uguale al recente passato la scuola «formato famiglia», perché i genitori apriranno le porte a una maestra che seguirà il programma convenuto. Per non dire delle vaccinazioni: anche su quello mamma Catherine ha detto sì.
Dunque? Cos’altro doveva accadere? Perché ancora una volta la macchina della giustizia sembra voler stravincere, perché non hanno ridato i bimbi ai loro genitori a pochi giorni dal Natale? Perché - appunto - l’udienza di ieri era una udienza prettamente documentale e ci vorranno altri 60 giorni prima di sapere cosa accadrà. E 60 giorni sono lunghi. Insomma non era ieri che il collegio avrebbe dovuto pronunciarsi sull’eventuale revoca, per questo non c’erano le telecamere. Eppure in tanti si aspettavano una specie di regalo di Natale, una decisione di cuore. Niente, tutto resta congelato. Con l’aggravante che più passa il tempo e più sembra che sulla famiglia nel bosco vogliano scrivere una sceneggiatura di contronarrazione, quasi a ribaltare la prima fase in cui l’opinione pubblica stava prevalentemente con mamma Catherine e papà Nathan. Dopo trasmissioni e interviste dove sembrava che tutto si riconducesse alla radicalità delle scelte educative ma che in fondo i bambini fossero felici, ecco che da qualche giorno si sottolineano elementi nuovi: prima le lacune nella lingua italiana, poi la mancanza di soldi e infine le scoperte di una vita meno rurale. Così infatti racconta il quotidiano abruzzese Il Centro, riportando alcuni elementi della relazione dell’assistente sociale: «Il primo giorno hanno annusato i vestiti puliti. Poi le persone che li circondavano. Non era diffidenza, o almeno non solo quella: era un modo per mappare un territorio sconosciuto, fatto di odori che non erano quelli del bosco, del fumo di legna o degli animali». Così scrive l’assistente: «La prima giornata è stata caratterizzata da continue scoperte. I bambini erano incuriositi da qualsiasi oggetto presente negli ambienti della struttura, sia a livello strutturale che di arredo e giochi». In un’epoca in cui la curiosità dei bambini sembra rattrappita dagli smartphone, non dovrebbe essere un handicap la curiosità verso oggetti nuovi. Ma all’assistente forse interessava un’altra narrazione, totalmente in difesa del proprio operato; così ecco che - stando sempre al racconto del quotidiano diretto da Luca Telese - al momento dell’arrivo nella casa famiglia di Vasto, «l’igiene personale dei minori è apparsa subito scarsa e insufficiente. Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare i saponi messi a disposizione. Erano molto incuriositi dal box doccia e, in particolar modo, uno dei fratelli ha dimostrato timore nei confronti del soffione della doccia».
Il meglio arriva però quando la relazione sottolinea il punto forte della decisione di togliere i figli ai genitori, e cioè le capacità di relazionarsi con gli altri minori della struttura: «Riguardo l’interazione con gli altri bambini presenti si denota imbarazzo e diffidenza. Il disagio maggiore si può osservare quando si attivano fra loro confronti sia per le proprie esperienze personali che per le proprie competenze, in quanto si evidenziano deprivazioni di attività condivisibili con il gruppo dei pari, per esempio da un semplice gioco ad attività più specifiche come i compiti scolastici e conoscenze generali». Linguaggio a parte (quelli che tolgono i bambini alle famiglie - per il loro bene, s’intende… - parlano così) viene da domandarsi: davvero pensate che sia strano che chi vive in contesti profondamente differenti non abbia un iniziale disagio? Diciamo che mentre i figli di questa famiglia hanno reagito con curiosità, forse i figli di famiglie di campi rom o di delinquenti in zone disagiate avrebbero reagito in modo più burrascoso. O no? Io penso di sì, visto che l’ambiente sottoculturale è diverso.
Infine l’apprendimento della lingua italiana: «La primogenita è ancora in una fase alfabetica e non ortografica, poiché non sillaba le lettere, non mette insieme i numeri e non ha raggiunto anche la fase lessicale». Ma tutti i giornalisti che erano andati prima del provvedimento non si erano accorti di tutto questo?
Per chiudere. Morale della favola, cioè della relazione? «A distanza di circa una settimana, è possibile affermare che si può rilevare una generale reazione positiva nei bambini che, con entusiasmo e compiacimento, esplorano gli ambienti e giocano anche con i giochi in plastica che avevano inizialmente rifiutato». Quanto a mamma Catherine «è necessario approfondire alcuni aspetti […], sta assumendo un atteggiamento più disponibile e collaborativo nei confronti degli operatori della struttura». Insomma la rieducazione silenziosa sta producendo i suoi effetti. Lo Stato etico funziona. E il Natale è meglio trascorrerlo nella casa della dolce e premurosa rieducazione piuttosto che con mamma e papà. Quanta umanità nelle pieghe della giustizia burocratica.






