- Fanil Sarvarov era tra i vertici della Difesa. Sospetti sui servizi di Kiev. Prima di lui diverse vittime sono morte in attacchi simili, da capi militari alla figlia dell’ideologo Dugin.
- Zelensky ottimista sul piano di pace: «Pronto anche se imperfetto». Il Cremlino ribadisce l’impegno a non attaccare Ue e Nato. Ma parla di progressi lenti nei negoziati.
Lo speciale contiene due articoli.
L’esplosione che ieri mattina ha ucciso il tenente generale Fanil Sarvarov ha scosso Mosca e l’intero apparato militare russo. L’attentato è avvenuto all’alba, quando l’auto di servizio del capo della Direzione per l’addestramento operativo dello Stato maggiore è stata distrutta da un ordigno collocato con un magnete sotto il veicolo (una Kia Sorento di colore chiaro), vicino al sedile del conducente. Secondo le ricostruzioni basate su fonti investigative russe citate dalle agenzie Tass e Rbk, la bomba sarebbe esplosa nel momento in cui Sarvarov ha azionato il freno. Le autorità hanno confermato la morte del generale e l’apertura di un’indagine per omicidio, mentre la Commissione investigativa ha fatto sapere che i rilievi sono iniziati immediatamente dopo la deflagrazione. Gli inquirenti puntano con decisione su una pista: il coinvolgimento dei servizi speciali dell’Ucraina. In serata, la commissione ha precisato che «una delle principali versioni allo studio riguarda il ruolo dei servizi d’intelligence ucraini».
Da Kiev non è arrivata alcuna rivendicazione né commenti ufficiali, ma i media russi ricordano che Sarvarov figurava da tempo nel database del sito nazionalista ucraino Myrotvorets, che ieri lo ha classificato come «liquidato». Un segnale interpretato a Mosca come una sorta di firma indiretta. Il Cremlino ha reagito con durezza. Il portavoce Dmitri Peskov ha dichiarato che «il presidente Vladimir Putin è stato informato immediatamente» dell’attentato e ha definito l’esplosione «un terribile omicidio» e «un atto terroristico diretto contro la Federazione russa». Ha aggiunto che «i responsabili saranno individuati e puniti», lasciando intendere che Mosca considera l’attacco parte di una strategia ostile che richiede una risposta. Le autorità non hanno fornito ulteriori dettagli, limitandosi a confermare l’apertura di un’indagine per omicidio e a ribadire che tutte le piste restano aperte.
Sarvarov, nato nel 1969 nella regione di Perm, aveva trascorso quasi tutta la carriera nelle forze corazzate, combattendo nelle campagne cecene e partecipando alle operazioni russe in Siria prima di entrare nei vertici dello Stato maggiore. Da due anni guidava la Direzione per l’addestramento operativo, un incarico cruciale nell’attuale fase del conflitto: a lui facevano capo la preparazione delle truppe di terra, l’aggiornamento delle tattiche d’impiego e la valutazione delle esperienze maturate sul fronte ucraino. Pur non essendo una figura mediatica, il suo ruolo era considerato strategico per mantenere lo sforzo bellico russo su livelli costanti nonostante le perdite e l’usura del conflitto.
L’uccisione di Sarvarov si inserisce in una serie di eliminazioni mirate che negli ultimi anni ha colpito tanto i vertici militari quanto alcuni volti simbolici del nazionalismo russo. Nell’agosto 2022 Daria Dugina, figlia dell’ideologo Aleksandr Dugin, era stata assassinata con un’autobomba nella regione di Mosca: l’ordigno, piazzato sotto la sua Toyota Land Cruiser, era esploso mentre rientrava da un festival culturale. Le autorità russe avevano attribuito l’attacco ai servizi speciali ucraini, mentre Kiev aveva negato ogni coinvolgimento. Nell’aprile 2023, a San Pietroburgo, era stato il turno del blogger militare Maksim Fomin. Noto come Vladlen Tatarsky e allineato sulle posizioni più radicali della propaganda patriottica, il blogger è rimasto ucciso nell’esplosione di un ordigno nascosto in una statuetta consegnatagli durante un evento pubblico: un attacco che provocò decine di feriti e suscitò forte clamore mediatico.
Nel dicembre 2024, invece, era stato ucciso il generale Igor Kirillov, capo delle truppe di difesa nucleare, biologica e chimica, colpito da una bomba nascosta in un monopattino elettrico: le autorità di Mosca avevano indicato Kiev come responsabile, mentre fonti dei servizi ucraini (Sbu) avevano confermato ai media il coinvolgimento, pur senza una rivendicazione ufficiale. Infine, lo scorso aprile, un ordigno collocato sotto la sua vettura ha ucciso a Mosca il generale Iaroslav Moskalik, figura di rilievo dello Stato maggiore. Si tratta di attacchi diversi per modalità ma accomunati, secondo le ricostruzioni russe, dall’intento di colpire personalità legate allo sforzo bellico o alla narrativa patriottica del Cremlino, a conferma di un conflitto che si è esteso ben oltre le linee del fronte. In questo contesto, infatti, la morte di Sarvarov rappresenta per Mosca un duro colpo soprattutto a livello simbolico: non un semplice comandante operativo, ma uno dei funzionari incaricati di garantire l’efficienza e la continuità dell’apparato militare impegnato in Ucraina. E la rapidità con cui il Cremlino ha parlato di «atto terroristico» indica che la risposta politica - qualunque forma assumerà - non tarderà ad arrivare.
Zelensky: «Risultati concreti vicini»
Dopo i due giorni di colloqui sulla pace in Ucraina con l’inviato americano, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, al club Shell Bay di Miami, il rappresentante del Cremlino, Kirill Dmitriev, si prepara ad aggiornare il presidente russo, Vladimir Putin, sugli ultimi sviluppi.
Ciò che emerge, al momento, è che le trattative tra la Russia e la Casa Bianca si sono concluse in un clima cordiale. Dmitriev ha scritto su X: «La prossima volta a Mosca», non escludendo quindi che il prossimo bilaterale con gli americani si possa tenere sul suolo russo. Nel frattempo, Witkoff ha descritto gli incontri con la delegazione ucraina e con quella russa con gli stessi termini: «Produttivi e costruttivi». Riguardo al faccia a faccia con Dmitriev, l’inviato americano ha aggiunto su X che «la Russia resta pienamente impegnata a raggiungere la pace in Ucraina» e che «apprezza molto gli sforzi e il sostegno degli Stati Uniti». A rispondere direttamente alle parole di Witkoff è stato lo stesso Dmitriev: «Grazie costruttori di pace per il vostro lavoro attento e instancabile».
In ogni caso vige la massima cautela. Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, in un’intervista a UnHerd, ha affermato che nonostante «tutte le questioni siano ora alla luce del sole», non è certo che venga raggiunto un accordo. Ha precisato che l’Ucraina «probabilmente perderà» la regione di Donetsk «tra 12 mesi o anche più avanti». E pare che «privatamente» i leader di Kiev ne siano consapevoli. Anche il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, ha riconosciuto «i lenti progressi» nei negoziati con Washington, ma ha puntato il dito contro «i dannosi e nefasti tentativi di un gruppo di Paesi influenti che cercano di far deragliare il processo diplomatico». Ha osservato che Mosca «è favorevole a un accordo di pace che garantisca il suo assetto costituzionale tenendo conto dei nuovi territori», ma esclude la tregua. Ryabkov ha anche ribadito la disponibilità russa a «formalizzare legalmente» l’impegno a non attaccare la Nato e l’Ue. Anche perché «permangono rischi significativi di uno scontro» tra Mosca e l’Alleanza atlantica «a causa delle azioni ostili e inappropriate dei Paesi europei». Sullo stesso tema è intervenuto Dmitriev: «L’Europa dovrebbe smettere di fomentare la Terza guerra mondiale con false narrazioni e imparare di nuovo la diplomazia». E affermando che è arrivato «il tempo di liberarsi dalla visione del mondo di Biden», ha aggiunto che «l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca indicano la strada». Ma Bruxelles, per ora, approva «la strada» del presidente francese, Emmanuel Macron: un portavoce della Commissione Ue ha espresso il benestare sulla volontà del leader francese di dialogare con l’omologo russo negli «sforzi per la pace».
Dall’altra parte, a esprimere ottimismo è il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky. Riguardo alle trattative a Miami tra la delegazione ucraina e quella statunitense, pur aspettando «i dettagli» questa mattina, ha dichiarato: «Siamo molto vicini a un risultato concreto». Ha spiegato che «il piano prevede 20 punti» e che ci sono «garanzie di sicurezza» tra l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’Europa. A ciò si aggiunge «un documento separato» tra Kiev e Washington che riguarda «garanzie di sicurezza bilaterali» che «devono essere esaminate dal Congresso degli Stati Uniti». E ha annunciato che è in itinere «la prima bozza dell’accordo sulla ricostruzione dell’Ucraina». Questo non frena le sanzioni contro la Russia, anzi Zelensky ha dichiarato che, oltre ai russi e ai cinesi, nel mirino rientrano pure gli atleti: «Stiamo preparando misure sanzionatorie contro coloro che giustificano l’aggressione russa e promuovono l’influenza russa attraverso la cultura di massa, nonché contro gli atleti che utilizzano la loro carriera sportiva e l’attenzione del pubblico verso lo sport per glorificare l’aggressione russa».
La riforma della giustizia, di cui in Italia si discute ormai da decenni, potrebbe finalmente diventare realtà. Approvata dal Parlamento, deve ora superare l’ultimo scoglio: il referendum confermativo che si terrà la prossima primavera. Cavallo di battaglia di tutto il centrodestra, questa riforma epocale è invece ferocemente osteggiata dalla sinistra che, sin dai tempi del berlusconismo, sostiene che la divisione delle carriere rappresenterebbe una picconata alla democrazia e all’autonomia dei giudici.
Passata la sbornia per Gaza, che ha riportato in piazza anche i progressisti in pantofole, la sinistra si è prontamente mobilitata per condurre questa nuova battaglia. Ieri, infatti, è nato ufficialmente il comitato per il no. Tra i promotori, figurano anche Maurizio Landini (Cgil), Gianfranco Pagliarulo (Anpi) e persino una rediviva Rosy Bindi. La direzione del comitato, invece, è stata affidata al piddino Giovanni Bachelet. Che, durante la conferenza di presentazione, ha affermato che «l’unico obiettivo che persegue» questa riforma sarebbe «quello di indebolire il controllo di legalità sulle scelte di chi esercita il potere».
Non la pensa così, però, un ex magistrato come Antonio Di Pietro, di certo non sospettabile di simpatie destrorse. Anzi, attraverso il comitato «Sì separa», l’ex leader dell’Italia dei valori è sceso in campo in prima fila per perorare la bontà della riforma. Durante un convegno a Napoli, Di Pietro ha colto l’occasione per denunciare il rischio brogli al referendum: «Si stanno già costituendo organizzazioni per controllare il voto degli italiani all’estero che, come già avvenuto in passato, raccolgono gli elenchi degli elettori, costruiscono e spediscono queste lettere, ci mettono il voto, all’insaputa del diretto interessato».
Più in particolare, l’ex pm di Mani pulite si riferisce agli iscritti all’Aire: «Parliamo di 2 milioni di voti che spostano il risultato», ha precisato Di Pietro. Che poi ha spiegato: «Ci sono gruppi organizzati, appartenenti a specifici partiti politici e sindacati, che con questo sistema stanno già organizzando le “buste” di voti da far arrivare in Italia. Un fatto che rischia di determinare una falsificazione del risultato. Lo voglio denunciare oggi prima che sia troppo tardi. Invito il governo, perché fa ancora in tempo, a fare una legge di un solo articolo che permetta agli elettori all’estero di votare di persona, alle ambasciate o ai consolati, con il proprio documento di identità. Una norma con la quale si applicano al referendum le stesse modalità di voto previste per le elezioni europee». Per scongiurare qualsiasi truffa elettorale, peraltro, Di Pietro ha anche lanciato l’idea di istituire il comitato «Giustizia senza confini», proprio per tutelare il voto dei nostri connazionali all’estero.
Mentre la campagna referendaria inizia a entrare nel vivo, Carlo Nordio ha assicurato che questa riforma costituzionale è solo l’inizio di un piano d’azione molto più ampio. «Quando avremo chiuso la parentesi del referendum, metteremo subito mano al processo penale», ha dichiarato ieri il ministro della Giustizia. Secondo Nordio, occorre ripensarne l’impianto per renderlo davvero «garantista», basandolo su pochi ma irrinunciabili pilastri: la presunzione d’innocenza, la certezza di una pena umana e la rieducazione del condannato. «Questi principi spero che troveranno attuazione in questa legislatura e l’esito del referendum dovrebbe facilitarle», ha affermato il Guardasigilli.
In serata è poi arrivata la notizia di una nuova richiesta di referendum sulla giustizia (da parte di 15 cittadini) che potrebbe far slittare la data della consultazione sulla riforma Nordio. Un’eventualità che non incontrerebbe il favore della maggioranza, intenzionata ad affrontare al più presto l’esame delle urne.
Per anni il Regno Unito si è presentato come una sorta di Eden multietnico che, magicamente, sarebbe rimasto incontaminato da razzismo e discriminazione. Salvo poi accorgersi che la politica delle porte spalancate ha prodotto i consueti frutti dell’immigrazione selvaggia: criminalità, ghettizzazione, terrorismo. La rabbia popolare, com’è noto, è infine esplosa nelle strade e nelle piazze, con proteste di massa che hanno messo Sir Keir Starmer all’angolo.
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.





