Continua a far discutere l’intervista rilasciata da Giuseppe Cavo Dragone al Financial Times. Rispondendo alle domande del quotidiano britannico, l’ammiraglio italiano, ex capo di Stato maggiore della Difesa e attuale presidente del comitato militare dell’Alleanza atlantica, aveva dichiarato: «La Nato sta valutando se diventare “più aggressiva” contro la Russia» per controbattere agli attacchi ibridi di Mosca. Più nel dettaglio, Cavo Dragone aveva spiegato che «essere più aggressivi o proattivi, anziché reattivi, è qualcosa a cui stiamo pensando». Anche perché, aveva precisato, un «attacco preventivo» alla Russia da parte della Nato «potrebbe essere considerato un’azione difensiva».
Al di là del merito delle dichiarazioni, che si riferivano esplicitamente alla cybersicurezza, rimane un fatto che Cavo Dragone - accostando le tre parole «Nato», «Russia» e «attacco preventivo» - ha finito per generare un vespaio di polemiche. Mosca, naturalmente, non l’ha presa bene: «Riteniamo che la dichiarazione di Giuseppe Cavo Dragone sui potenziali attacchi preventivi contro la Russia sia un passo estremamente irresponsabile, che dimostra la volontà dell’Alleanza di continuare a muoversi verso un’escalation», ha dichiarato Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo. Che poi ha definito le parole dell’ammiraglio «un tentativo deliberato di minare gli sforzi volti a trovare una via d’uscita alla crisi ucraina».
Anche in Italia, del resto, l’intervista di Cavo Dragone ha suscitato malumori bipartisan: dalle forze di maggioranza a quelle di opposizione, tutti i partiti hanno espresso perplessità sull’opportunità di rilasciare dichiarazioni tanto forti, o comunque fraintendibili. Lo stesso Antonio Tajani, atlantista doc, interpellato a caldo sulle parole del presidente del comitato militare della Nato, aveva detto: «Quello che conta non sono le dichiarazioni, ma il lavoro». Non esattamente una difesa a spada tratta.
Sarà anche per questo che Cavo Dragone, sentito ieri dall’Ansa, ha provato ad aggiustare il tiro: «Nell’intervista al Financial Times, così come in altre dichiarazioni, ho fatto riferimento specificamente alle minacce ibride di cui siamo quotidianamente oggetto, evidenziando come sia importante e necessario mantenere un approccio flessibile e assertivo, senza alimentare ovviamente processi escalatori», ha detto l’ammiraglio. Che poi ha aggiunto: «La Nato, come sempre ribadito, rimane infatti un’alleanza difensiva».
Queste dichiarazioni, peraltro, sono seguite all’incontro che Cavo Dragone ha avuto con Tajani a margine della ministeriale Nato: «Gli ho ribadito il mio giudizio, credo di aver ben interpretato le sue parole senza strumentalizzarle», ha sottolineato il ministro degli Esteri. «Non ci ho trovato nulla di strano, nulla di anomalo, nulla in contrasto con i principi della Nato. Mi pare che sia tutto concluso. Gli ho ribadito la mia stima, la mia solidarietà, perché mi pare che stia svolgendo molto bene il suo ruolo».
Più piccato è stato, invece, il commento di Giorgia Meloni: «È una fase in cui bisogna misurare molto bene le parole», ha detto ieri il premier a margine di un vertice in Bahrein. «Bisogna evitare tutto quello che può far surriscaldare gli animi. L’ammiraglio Cavo Dragone stava parlando di cybersicurezza. Io l’ho letta così: la Nato è un’organizzazione difensiva, oltre a difenderci dobbiamo fare anche meglio prevenzione. Attenzione anche a come si leggono parole che bisogna anche essere molto attenti a pronunciare», ha concluso la leader di Fratelli d’Italia.
Insomma, va bene essere «proattivi», come sostiene l’ammiraglio, ma certe strategie sarebbe opportuno non sbandierarle ai quattro venti. Del resto, così la pensa anche Baiba Braze, il ministro degli Esteri lettone: «Certe cose è meglio farle, e non dirle. Gli Alleati hanno capacità di attacco informatico e, se necessario, possono essere impiegate, ma nessuno ne parlerà ad alta voce».
Davanti alle telecamere si stringono la mano. Ma dietro le quinte, se ci sono da spartirsi quote di potere reale, si guardano in cagnesco. Stiamo parlando di Manfred Weber, Ursula von der Leyen e Friedrich Merz: tutti figli della stessa casa madre, quella Cdu che per decenni è stata la potente «balena bianca» teutonica, ma che Angela Merkel ha lasciato letteralmente in macerie. Macerie su cui i conservatori tedeschi vorrebbero iniziare a ricostruire. Eppure il tridente, a quanto pare, non gioca per la stessa squadra.
Di queste tensioni abbiamo avuto un saggio ieri. Nel suo intervento alla plenaria di Strasburgo, Manfred Weber ha squalificato il formato E3, ossia il tavolo Germania-Francia-Regno Unito che, negli ultimi mesi, ha moltiplicato gli sforzi per sostenere l’Ucraina anche sfidando Washington. «Mi chiedo: di quale Europa abbiamo davvero bisogno? Quale Europa sarebbe in grado di rispondere alle sfide di oggi?», si è domandato retoricamente il presidente del Partito popolare europeo (Ppe). «Per esempio», ha aggiunto, «chi parla a nome dell’Europa? Ho visto che i Paesi dell’E3 si stavano riunendo: Germania, Francia, Gran Bretagna. Rispetto tutte queste nazioni, ma devo dire che quella non è la mia Europa. Quando parlano loro, non è la mia Europa».
Difficile non ravvisare in questa bordata un attacco neanche troppo velato a Friedrich Merz. A cui, peraltro, Weber ha contrapposto la presidente della Commissione, che con Merz non è mai stata in rapporti idilliaci: «Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione nominata da tutti i leader, da tutte le nazioni, e che ha anche avuto un chiaro mandato in questo Parlamento europeo liberamente eletto, è per me la voce di questa Unione europea. Ecco perché dobbiamo rafforzare il suo ruolo, per avere una vera voce europea», ha affermato il boss dei popolari. Parlando poco prima che l’asse con Ecr sulla legge anti-deforestazione, con cui è stato attenuato uno dei pilastri del Green deal, sopprimesse di nuovo la maggioranza Ursula all’Eurocamera.
Insomma, dopo anni di marginalizzazione imposta dai suoi compagni di partito, Weber ha deciso che è arrivato il momento di rialzare la testa. Mentre Merz fa ancora fatica a imporsi come un cancelliere autorevole e Von der Leyen viene costantemente bypassata dai leader di Berlino, Parigi e Londra, il presidente del Ppe sta provando a recuperare posizioni e peso politico. E lo fa seminando zizzania tra i due caporioni dell’ormai defunta Cdu merkeliana: da una parte Ursula, che della Merkel era delfina e a cui deve tutto, e dall’altra Merz, che si è fatto una carriera contrapponendosi proprio all’ex cancelliera.
Tra Merz e la Von der Leyen, del resto, non è mai corso buon sangue. La presidente della Commissione ha costruito la sua leadership europea evitando di schiacciarsi sulle posizioni della Cdu, mentre Merz - prima da leader dell’opposizione, ora da cancelliere - ha più volte contestato la sua gestione dei grandi dossier, in particolare immigrazione, transizione verde e politica industriale. La tensione è emersa anche quando Ursula si è candidata per un secondo mandato alla guida della Commissione: sostanzialmente costretta a negoziare il sostegno di Merz, ne ha ottenuto l’appoggio, è vero, ma solo dopo che quest’ultimo aveva esplorato tutte le possibili alternative made in Cdu. Per Merz, d’altronde, Ursula incarna quella visione troppo burocratica dell’Europa, distante dalle priorità dei governi nazionali. Per la Von der Leyen, invece, l’attuale cancelliere incarna una Germania con eccessive smanie di protagonismo.
In questo quadro, Weber gioca una partita tutta sua. Da anni incistato nel cuore del Parlamento europeo, ha provato a riaffermare il ruolo dei popolari come vero baricentro politico dell’Unione. La sua rivalità con Merz è antica: l’ascesa di quest’ultimo alla guida della Cdu lo ha privato di una sponda nazionale forte e ne ha indebolito la leadership all’interno del Ppe. Dopo le europee, però, Weber ha riconquistato spazio, diventando il principale interprete di una linea più conservatrice ma pienamente europeista. Insomma, la mossa di ieri non è altro che l’ennesima tappa di una faida familiare.
- Dopo lo scandalo mazzette, Confimprenditori si ribella: «Piuttosto che finanziare ville e bagni d’oro, aiutiamo i nostri settori produttivi». Matteo Salvini ancora polemico: «Al Consiglio di Difesa le decisioni erano già prese. Per il futuro vogliamo più chiarezza».
- Il documento sulla guerra ibrida: «Per contrastarla ci servono 5.000 uomini».
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L’Europa vuol dare all’Ucraina altri 70 miliardi. Addirittura, per le elargizioni all’alleato, ipotizza di riesumare la carcassa del Mes. Ma dopo tre anni e mezzo di manine bucate, qualcuno comincia a ribellarsi.
Ieri, a tuonare, è stata Confimprenditori, l’associazione delle piccole e medie imprese, delle partite Iva e degli autonomi. «L’Italia è sempre stata un Paese leale e responsabile nello scenario internazionale», ha sottolineato il presidente, Stefano Ruvolo, «ma altrettanto responsabile deve essere la gestione delle risorse dei contribuenti italiani. Ogni euro destinato a sostegni esteri deve necessariamente rispondere ai criteri di trasparenza, controllo e utilità per l’interesse nazionale». Non sembrano le parole di un putiniano, a meno che preoccuparsi di dove finiscono i nostri denari non sia un’operazione di guerra ibrida al servizio del Cremlino. «Condividiamo pienamente le parole del vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini», ha aggiunto Ruvolo, «quando afferma che dopo lo scandalo che ha coinvolto uomini vicini al presidente Volodymyr Zelensky è necessaria una profonda riflessione sull’eventuale invio di nuovi aiuti militari ed economici a Kiev. Proprio per questo», ha suggerito il numero uno di Confimprenditori, «chiediamo al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di valutare concretamente la possibilità di destinare alle imprese italiane e alle nostre Pmi tutti quei fondi che fino a ieri finivano nei palazzi, nelle ville e perfino nei gabinetti d’oro dell’élite ucraina». Se proprio abbiamo tali disponibilità di cassa - secondo le stime, non ufficiali, Roma ha erogato 3 miliardi-3 miliardi e mezzo tra sostegni finanziari diretti e forniture belliche - tanto vale dare una mano al nostro settore produttivo. Ovvero, quello che crea davvero Pil e al quale, ha lamentato Ruvolo, «la legge di Bilancio 2026, purtroppo, non ha dato risposte sufficienti né adeguate». Questa, allora, «è l’occasione per correggere la rotta. Se ci sono risorse che oggi non possono più essere inviate all’estero senza la certezza della loro destinazione, è doveroso che quelle stesse risorse vengano messe a disposizione delle aziende italiane che producono valore, lavoro e futuro».
Nella maggioranza, intanto, restano frizioni sul dodicesimo pacchetto di forniture belliche, che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, illustrerà al Copasir il 2 dicembre. Ieri, il senatore Claudio Borghi è stato perentorio: «Non ho intenzione di votare» un’altra autorizzazione all’invio di armi all’Ucraina. Il decreto che ne permette la consegna, infatti, scadrà a fine anno e a gennaio sarà necessario interpellare di nuovo il Parlamento.
L’opposizione si è ovviamente tuffata sulla diatriba. Il capogruppo pd a Palazzo Madama, Francesco Boccia, ha ribadito che il suo partito «è favorevole al proseguimento degli aiuti militari all’Ucraina» e ha accusato Salvini di essersi trasformato in un «portavoce di Mosca». In realtà, anche la sinistra è spaccata. Non a caso, la contestazione che il Movimento 5 stelle rivolge ai leghisti è diametralmente opposta a quella di Boccia: secondo il capogruppo dei contiani in commissione Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti, i brontolii del Carroccio sono solo propaganda per «raccattare qualche voto anti guerra, ma alla fine» la Lega «si è sempre allineata». Lo ha fatto anche il M5s finché è stato in maggioranza, approvando il primo decreto per il sostegno militare a Kiev, ai tempi di Mario Draghi. Mentre il Pd, in Europa, non ha certo dato prova di compattezza. A luglio, il voto con cui l’Eurocamera chiedeva alla Germania di consegnare i Taurus a Zelensky aveva, sì, sparigliato le carte a destra, ma aveva sbriciolato in primis i dem: contrari in maggioranza, favorevoli in cinque, astenuto Nicola Zingaretti.
Gli alleati confidano che il Carroccio faccia rientrare la polemica, ma ieri Salvini ha voluto togliersi un sassolino dalla scarpa: «Noi», ha ricordato, «abbiamo votato sempre tutti gli aiuti possibili e immaginabili per l’Ucraina e quello che il Consiglio di Difesa ha deciso riguarda gli aiuti già decisi. Per il futuro la Lega chiede chiarezza». Al vertice di lunedì al Quirinale, insomma, il pacchetto era blindato. E il ministro dei Trasporti rivendica una voce in capitolo. Gli italiani, in fondo, danno segnali d’insofferenza. Roberto Vannacci non esagera, allorché osserva che «il consenso popolare al supporto all’Ucraina è drammaticamente scemato».
Proprio ieri, oltre a Confimprenditori, è intervenuto l’ad di Filiera Italia. A Coffee break, su La 7, Luigi Scordamaglia ha criticato il piano di Ursula von der Leyen per destinare «800 miliardi alle armi tagliando cibo e fondo di coesione sociale». Era solo l’antipasto: ora l’Ue invoca una «Schengen militare» per spostare agevolmente truppe e tank. Cala il sipario sui famosi «70 anni di pace» europea.
Alla vigilia della Grande guerra, il ministro degli Esteri inglese, sir Edward Grey, sospirò: «Si spengono le luci in tutta Europa. Nel corso della nostra vita non le vedremo più riaccese». Di nuovo, oggi è sempre più difficile scacciare il buio pesto. Non solo per il caro bollette.
Crosetto: «In sei mesi, 1.500 attacchi hacker. Dobbiamo creare un’Arma cyber»
Il ministero della Difesa ha pubblicato sul proprio sito il non-paper sul contrasto alla guerra ibrida, lo stesso documento che Guido Crosetto ha illustrato l’altro ieri al Quirinale durante il Consiglio supremo di Difesa. È un testo interno, non classificato ma di lavoro - un non-paper, appunto - con cui il ministro espone la sua analisi sulla minaccia ibrida e le proposte per rafforzare la difesa del Paese. L’obiettivo, in altri termini, è sondare il terreno e stimolare la discussione su un campo di intervento militare che sarà decisivo nei prossimi decenni. Un campo, ammonisce Crosetto, in cui l’Italia è rimasta colpevolmente indietro.
Il documento, non a caso, si apre con un avvertimento: «La minaccia ibrida», si legge, «erode in modo silente la sicurezza delle nostre società». È una minaccia continua, fatta di attacchi informatici, disinformazione, pressioni economiche e cosiddette «operazioni sotto soglia», ossia azioni ostili che non arrivano al livello di un atto di guerra, ma riescono comunque a danneggiare e destabilizzare un Paese. Il «dominio cibernetico» viene dunque descritto come «il moltiplicatore che tiene insieme tutto», perché permette di colpire infrastrutture critiche e interferire nei processi democratici. L’obiettivo degli attori ostili, scrive il ministro, è anche «instillare dubbio e insicurezza», sfruttando la difficoltà di attribuire le responsabilità di questi attacchi.
Dopo aver definito il quadro generale, il documento individua quattro principali attori ostili: Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. Mosca sarebbe impegnata in «sabotaggi, cyberattacchi e campagne di disinformazione», mentre Pechino adotterebbe una «strategia multi-vettoriale» basata su leva economica, penetrazione tecnologica e influenza informativa. In questo senso, l’Italia è ancora vulnerabile in alcuni settori strategici: energia, trasporti, comunicazioni, sanità e finanza. Nel primo semestre 2025, infatti, la Difesa ha registrato «1.549 eventi cyber e 346 incidenti con impatto confermato», con una crescita marcata rispetto all’anno precedente. Il settore sanitario è «tra i più colpiti», mentre le Pmi restano bersagli frequenti per la mancanza di difese adeguate.
Passando al piano operativo, Crosetto sostiene che la difesa passiva non basti più e che occorra assumere una «postura predittiva e adattiva», capace di prevenire e, se necessario, neutralizzare le attività ostili. Di qui l’idea di definire uno «spazio cyber di interesse nazionale» entro cui la Difesa possa operare con continuità e con regole chiare, applicando al dominio digitale la stessa logica che vale per i confini fisici.
Il ministro propone poi un nuovo Comando congiunto per le operazioni cyber, elettromagnetiche e cognitive, per evitare la frammentazione attuale e ricondurre tutto sotto un’unica regia. Il nodo centrale, però, rimane la creazione di un’«Arma cyber civile-militare»: una forza iniziale di «1.200-1.500 unità», con una componente operativa pari al 75%, attiva 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno. In prospettiva però, secondo Crosetto, una struttura davvero adeguata dovrebbe arrivare ad almeno «5.000 unità». L’obiettivo dichiarato è quindi sviluppare non solo difesa delle reti, ma anche capacità proattive (disturbare, bloccare o anticipare gli attacchi) sempre entro il quadro delle norme internazionali e in raccordo con la Nato.
Nel documento si cita anche la possibilità di impiegare personale civile specializzato, creare una riserva cyber e rafforzare l’integrazione con l’intelligence. Accanto all’Arma cyber, infatti, Crosetto propone di creare un «Centro per il contrasto alla guerra ibrida» incaricato di coordinare le risposte, analizzare campagne di disinformazione e collaborare con università e imprese, per dotare l’Italia di «anticorpi» sociali contro propaganda e manipolazione. Insomma, «siamo sotto attacco e le bombe hybrid continuano a cadere». La minaccia, spiega Crosetto, non è episodica ma strutturale. E «il tempo per agire è subito».




