Le parole sono importanti. E infatti Giorgia Meloni, che dal Bahrein, dov’era l’unica europea invitata al Vertice del Golfo, ha assicurato che entro fine anno arriverà il decreto per l’Ucraina, ha parlato di «inviare aiuti». Non armi. Ha citato, semmai, i «generatori di corrente», con i quali sopperire ai blackout provocati dai bombardamenti russi.
La misura non entrerà nel Consiglio dei ministri di oggi, ma il suo slittamento, ha minimizzato il premier, è solo «una questione logistica». Di qui al 31 dicembre ci sarà «più di un cdm» utile. E approvare il decreto, che coprirà per un anno intero le forniture a Kiev, «non vuol dire lavorare contro la pace». In ogni caso, ha chiarito Meloni, «finché c’è una guerra aiuteremo l’Ucraina a potersi difendere da un aggressore».
Anche qui, la scelta del lessico ha un peso. Dopo le tensioni con la Lega, che hanno portato al rinvio della norma, il partito di Matteo Salvini ha delineato un compromesso: niente armi a lungo raggio per la resistenza. Ne ha discusso il capogruppo dei senatori del Carroccio, Massimiliano Romeo, a Ping pong, su Rai Radio 1. «In questa fase», ha spiegato, «serve un provvedimento che guardi alle garanzie di sicurezza dell’Ucraina nell’ambito del piano di pace degli Stati Uniti. Una semplice proroga rischia di non essere allineata al percorso negoziale». È il medesimo concetto che avrebbe espresso Salvini in un colloquio con il presidente del Consiglio.
Facciamo due più due: se i leghisti s’impuntano sui missili a lunga gittata, significa che l’Italia ne ha già donati in passato. Il segreto di Pulcinella, custodito dal Copasir, al quale il governo illustra in forma riservata i mezzi spediti al fronte, lo aveva svelato, ad aprile 2024, l’ex ministro della Difesa britannico. Durante una visita a un impianto di Mbda, Grant Shapps si era lasciato sfuggire che sia Roma, sia Londra, sia Parigi avevano offerto alla resistenza i loro Storm shadow. Sono testate da crociera, fabbricate proprio da Mbda, in grado di volare per 550 chilometri, trasportando 450 chili di esplosivo. Kiev le ha utilizzate in Crimea e contro il territorio russo. Ma è plausibile che i nostri missili siano stati impiegati soltanto nella regione invasa nel 2014; non nel Kursk, o in altri oblast della Federazione. Il nostro esecutivo dovrebbe aver imposto agli alleati dei limiti operativi, in linea con quanto sempre espresso da suoi autorevoli esponenti, a cominciare da Antonio Tajani: mai armi italiane per colpire la Russia.
Romeo, raggiunto dalla Verità, ha precisato di non essere entrato «nello specifico tecnico: ho solo ribadito una posizione politica. Ossia, che sarebbe bene, vista la situazione attuale, attendere l’evoluzione delle trattative in corso sul piano di pace Usa, così da poter definire un provvedimento pienamente coerente con il percorso diplomatico intrapreso e in grado di includere le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che emergeranno dal negoziato internazionale». Evitare fughe in avanti e valutare gli scenari postbellici.
È comunque ragionevole supporre che, se passasse il «lodo» del senatore, per tutto il 2026, a parte i generatori, potremmo mandare al massimo le contraeree Samp/T. Di cui, invero, c’è penuria pure per noi. L’alternativa è partecipare, in ambito Nato, al programma di acquisto di armi americane e procurare a Volodymyr Zelensky i Patriot. Secondo il titolare della Farnesina, però, esplorare questa soluzione è «prematuro». Sullo sfondo, c’è l’annuncio del segretario generale dell’organizzazione, Mark Rutte: gli aiuti all’Ucraina rientreranno nel calcolo del 5% del Pil in spese militari.
Forza Italia, ieri, ha gettato acqua sul fuoco: «È in evoluzione il processo geopolitico internazionale», ha osservato il portavoce azzurro, Raffaele Nevi, a Skytg24. Sposando, dunque, le cautele auspicate dal Carroccio. «Il decreto verrà approvato quando sarà necessario», ha concluso Nevi. Il Pd - che all’Eurocamera è stato capace di esprimere tre posizioni diverse sulla guerra - è saltato sopra il nuovo attrito nella maggioranza, dopo le sortite del vicepremier leghista su «cessi d’oro» e «puttane» dei corrotti di Kiev, pagati con i nostri soldi. Le dichiarazioni della Meloni, ha attaccato Peppe Provenzano, responsabile Esteri dei dem, «confermano la grave e crescente divisione» nel centrodestra, dove «Salvini», «che non smette di evidenziare il suo filoputinismo», «non solo detta l’agenda politica alla premier, ma tenta di sostituirsi» a Tajani, nonché al ministro della Difesa, Guido Crosetto. Di senso diametralmente opposto la critica di Giuseppe Conte: a suo avviso, i distinguo sul decreto sono ipocriti e la scommessa sulla vittoria di Zelensky è stata un «fallimento».
Ieri, all’Enac, Salvini ha espresso la speranza che, «tra qualche mese, non anni», si torni a «volare su Kiev e Mosca da Roma e Milano». Ingenuo, forse. Ma mica putiniano.
Quando si fanno i conti con un nemico esistenziale, si corre sempre un rischio: diventare come lui, pur di non lasciarlo vincere. L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, nell’intervista dell’altro ieri al Financial Times, in cui ha lanciato l’idea di un cyberattacco preventivo della Nato contro la Russia, ha svelato da dove nasce uno slancio che pare rinnegare la natura giuridica dell’Alleanza atlantica. Incursioni di droni, malware, campagne di disinformazione orchestrate dal Cremlino.
Sì. Ma innanzitutto, la consapevolezza che, rispetto ai nostri avversari, noi occidentali abbiamo «molti più vincoli», «a causa di etica, leggi e giurisdizione». È una preoccupazione emersa pure venerdì scorso, quando Roberto Cingolani ha presentato Michelangelo dome, la «cupola» che schermerà i nostri cieli: «Noi abbiamo ancora dei vincoli etici che vogliamo rispettare», ha detto il manager di Leonardo. Gli antagonisti, invece, «se ne fregano». Se non ci dotiamo di tecnologie adeguate, «ci sterminano».
Il disagio di Cavo Dragone e di Cingolani è fondato. Anche durante la guerra fredda si ebbero percezioni analoghe. I rigurgiti autoritari abbondavano dentro le democrazie liberali; gli Stati Uniti furono contagiati dalla psicosi maccartista. È il timore di non sapersi proteggere che spinge i «buoni» ad adottare i metodi dei «cattivi».
Così, affiora un paradosso: ci scopriamo insofferenti verso i principi in nome dei quali sosteniamo di lottare. Il diritto internazionale violato da Vladimir Putin, la democrazia, la prosperità economica, l’autentica libertà dei mercati, insidiate dalle strategie di Pechino. Ma allora, o questi valori vanno accantonati, poiché ci faranno «sterminare», per usare la formula di Cingolani; oppure dobbiamo ammettere che sono meno universali di quanto credessimo e che, per senso della realtà, dobbiamo modularne l’applicazione. Nonché venire a patti con chi non li applica affatto.
Se però il sottinteso è che la normalità costituzionale debba essere sospesa affinché non venga distrutta, allora s’impone una riflessione più profonda. Si tratta di riconoscere che l’architettura politica da noi faticosamente costruita si sta sbriciolando dinanzi a una rivelazione: la scoperta che era una fictio quella convinzione per cui la sovranità e l’ordine non dipendessero da una volontà pre-morale, ma fossero il risultato di procedure giuste.
Stiamo attraversando una crisi d’identità. O proclamiamo dei principi che desideriamo infrangere, forse perché non abbiamo intenzione di ridimensionarne la portata; o pensiamo davvero che l’unico modo per salvarli sia congelarli. Il che significa svalutarli, dimostrare che la loro vitalità è opera di pura potenza, la quale decreta l’emergenza (sopprimendo la norma che non sa più custodire la normalità) e la supera (ripristinando l’ordine). In questo modo, il centro del sistema si sposta: dal diritto e dall’etica che ci fanno sentire superiori allo zar, a un atto di forza. Che poi ne scaturisca la liberaldemocrazia o la tirannide è un mero accidente.
Il sospetto è che nessuno voglia davvero ragionarci su.
Abbiamo lasciato e lasceremo che le cose accadano. Durante la pandemia, abbiamo sospeso la Costituzione: se n’è più discusso? Fiutata l’aria di guerra, invochiamo il ridimensionamento del welfare in favore del riarmo (il primo a parlarne è stato Mark Rutte, capo della solita Nato); deploriamo limiti ai quali teniamo, ma che complicano la nostra difesa; creiamo agenzie di controllo delle opinioni, spacciate per organismi di «resilienza democratica». Arriveremo a somigliare un po’ a Putin - o a Xi Jinping, la cui tecno-autocrazia esercita ormai un fascino globale - senza nemmeno accorgercene. È l’antico monito di Friedrich Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal diventare, così facendo, egli stesso un mostro. E se tu scruti a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te».
L’ammiraglio Cavo Dragone, capo militare: «Dovremmo essere più aggressivi con Mosca, cyberattacchi per scongiurare imboscate». Ma l’Organizzazione ha scopi difensivi: questa sarebbe una forzatura. Con il rischio che dal conflitto ibrido si passi a quello coi missili.
«Attacco preventivo». L’avevamo già sentito ai tempi dell’Iraq e non andò benissimo. Eppure, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare Nato, ha riproposto uno dei capisaldi della dottrina Bush in un’intervista al Financial Times. Si riferiva alla possibilità di adottare una strategia «più aggressiva» con la Russia. Beninteso, l’ipotesi verteva su un’offensiva cyber: «Stiamo studiando tutto sul fronte informatico», ha spiegato il militare.
L’Alleanza atlantica, quindi, non bombarderà Mosca. Ma poiché essa stessa ritiene che i blitz virtuali, almeno quelli dalle conseguenze più gravi, rendano necessario attivare l’articolo 5 sulla mutua assistenza, realizzare la proposta di Cavo Dragone equivarrebbe a compiere un atto di guerra nei confronti della Federazione di Vladimir Putin. Sia pure al fine esclusivo di scoraggiare hackeraggi, sconfinamenti nello spazio aereo europeo e disinformazione.
Il punto è che il Trattato Nordatlantico indica nella sicurezza collettiva gli scopi della partnership. La Nato è un’alleanza difensiva. È questo il senso degli articoli 4 e 5 del suo documento fondativo, relativi alle consultazioni tra Stati in caso di minaccia esterna e al soccorso reciproco, nell’eventualità in cui uno di essi venga colpito. Inoltre, come specifica, con estrema trasparenza, persino il sito Web dell’organizzazione, qualunque incursione informatica contro ospedali, reti energetiche, sistemi di difesa e che, in ogni caso, provochi effetti paragonabili a quelli di un raid missilistico, va trattata esattamente come un «attacco armato» convenzionale.
Del dettaglio si è reso conto lo stesso Cavo Dragone, che ritiene di aver trovato un escamotage: l’«attacco preventivo», ha spiegato al quotidiano britannico, potrebbe essere ritenuto «un’azione difensiva», dal momento che scongiurerebbe le imboscate «sporche» del Cremlino. Per la serie: l’attacco è la miglior difesa. Qui, però, non stiamo parlando di catenaccio o di calcio totale. E c’è di mezzo un enorme intoppo legale. Il capo militare della Nato ha ammesso che questo scenario «va oltre il nostro solito modo di pensare e di comportarci». L’organizzazione, da anni, riconosce che quello cyber è un «dominio» analogo a terra, aria, mare e spazio; tuttavia, nemmeno il suo attuale segretario generale, Mark Rutte, si è spinto oltre l’invito a impiegare «l’intera gamma di capacità per dissuadere, difendersi e reagire a tutto lo spettro di minacce cyber». «Forse», ha riflettuto l’ammiraglio sul Financial Times, «dovremmo agire in maniera più aggressiva del nostro avversario». Ma ciò solleverebbe una serie di «domande» sul «quadro giuridico» e sulla «giurisdizione: chi lo farà?».
I nostri partner dell’Europa dell’Est, probabilmente. I quali un po’ si sentono sul collo il fiato di Mosca; un po’ temono una conclusione sfavorevole all’Occidente del conflitto in Ucraina; e un po’ sono convinti che i tempi siano maturi per chiudere le antiche dispute con i rivali russi. Sarebbero proprio i diplomatici di questi Paesi ad aver chiesto al quartier generale di Bruxelles di non limitarsi più a «reagire», bensì di passare alla controffensiva.
In ballo c’è l’interpretazione del concetto di deterrenza: in che modo la si ottiene? «Attraverso azioni di ritorsione», si è interrogato l’ammiraglio, oppure «attraverso un attacco preventivo?». Cavo Dragone ha preso ad esempio l’operazione Baltic Sentry, mirata a prevenire il taglio dei cavi sottomarini: da quando è iniziata, ha osservato, «non è successo nulla». I nemici hanno abbassato la cresta. Ma un conto è pattugliare nostre infrastrutture, un conto è danneggiare quelle degli altri. E un conto sarebbe portare a termine piccole iniziative, un conto sarebbe condurre un’unica missione più eclatante, a mo’ di avvertimento, un conto sarebbe iniziare una vera guerra ibrida su larga scala. Con il pericolo che il confronto si trasformi in uno scontro di artiglierie, duelli aerei e testate ipersoniche.
In Russia - era scontato - non l’hanno presa bene: le dichiarazioni del dirigente Nato, ha affermato Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, sono «un passo estremamente irresponsabile, che indica la volontà di continuare a spingersi verso un’escalation». Non che i sabotaggi di Mosca siano gesti di grande assennatezza...
Le cancellerie occidentali rimangono caute. Il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, ha confermato: «Certamente dobbiamo adottare delle contromisure» alle offensive russe. Quella delle minacce cyber, però, a suo parere «è una questione che deve seguire la Nato». Dopodiché, nell’Alleanza esiste un Consiglio incaricato di assumere le decisioni politiche e formato dai rappresentanti delle nazioni alleate. Per la Lega, «gettare benzina sul fuoco con toni bellici o evocando “attacchi preventivi” significa alimentare l’escalation. Serve responsabilità, non provocazioni». Sarebbe interessante conoscere la posizione ufficiale dell’Italia, visto che la Nato ha percorso un metro in più verso il baratro. I suoi Paesi membri, ha commentato col giornale inglese Cavo Dragone, hanno «molti più vincoli rispetto ai nostri avversari, a causa di etica, leggi e giurisdizione». Già. Ha dimenticato solo di citare quel fastidioso orpello che è la democrazia.





