La Corte d’Appello giustifica il predicatore di Torino, noto anche per favorire la poligamia: «Episodi datati e isolati». Il governo ha cacciato 215 musulmani pericolosi, ma con questa liberazione la sicurezza è a rischio.
Mohamed Shahin è «presente in Italia da oltre 20 anni, nonché perfettamente integrato e inserito nel tessuto sociale del Paese». Lo ha precisato in una nota, ieri, Alessandra Bassi, presidente reggente della Corte d’Appello di Torino, quella che ha bocciato il trattenimento dell’imam nel Cpr di Caltanissetta. La Verità ha scoperto che il predicatore è così ben «integrato e inserito» nel nostro Paese, che nella moschea di via Saluzzo, nel capoluogo piemontese, si mette a celebrare nozze poligame. Vietate dalle leggi nazionali. Le sue imprese, certo, non producono effetti giuridici. E lui rimane un «soggetto completamente incensurato», come hanno sottolineato i magistrati. Ma la sua non sembra una condotta da musulmano rispettoso dei costumi del Paese che lo ospita. E nel suo passato si annidano delle ombre: frequentazioni con noti jihadisti, che tuttavia le toghe hanno considerato irrilevanti.
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
Chi si rivede: il primato della Costituzione italiana sul diritto europeo. La tesi dei «controlimiti» alle norme Ue risale, addirittura, alle sentenze della Consulta degli anni Settanta; eppure, sembrava passata di moda. L’ha riesumata il giudice Luca Minniti, presidente della sezione immigrazione del tribunale di Bologna, in un’intervista al Manifesto di qualche giorno fa. A precisa domanda del quotidiano comunista sulle nuove misure di Bruxelles in materia di respingimenti e Paesi sicuri, che dovrebbero complicare l’opposizione delle toghe ai trattenimenti nei Cpr e ai rimpatri, il magistrato ha risposto che sì, esse potrebbero rivelarsi incostituzionali, in quanto incompatibili con l’articolo 10 della nostra Carta, sul diritto d’asilo.
Questo, infatti, «prevede un principio fondamentale del nostro ordinamento, non derogabile neppure da fonti internazionali. Insieme all’articolo 2», ossia quello che sancisce l’inviolabilità dei diritti umani, «può fungere da controlimite anche verso il diritto Ue, che non avrebbe ingresso in Italia».
Prodigi dell’ideologia: all’improvviso, il corpaccione di direttive e regolamenti europei non è più sacro, inviolabile, sistematicamente anteposto alle leggi nazionali; se di mezzo ci sono i rimpatri veloci, oppure l’idea che Egitto, Bangladesh e Tunisia siano Stati nei quali è lecito rispedire i migranti, i giudici riscoprono nella nostra Costituzione un argine. E anziché disapplicare le norme italiane, vietano l’«ingresso» a quelle europee.
Peraltro, Minniti, già candidato al Csm per Area, corrente di centrosinistra, nel 2021, era stato uno dei primi, un paio d’anni fa, a sconfessare la lista governativa dei Paesi sicuri: bocciò la decisione di infilarci dentro proprio la Tunisia. Va però segnalato che, a dispetto dell’omonimia con il ministro piddino, noto per aver messo un freno alle missioni delle Ong nel Mediterraneo, quello della Costituzione «come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero» - citiamo il titolo di un suo articolo del 2018 - era un vecchio pallino di Minniti. Ne scrisse già sette anni fa, appunto, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Tanto per fugare ogni eventuale dubbio sulla sua neutralità politica.
La posizione delle toghe, dunque, è questa: se le leggi italiane sono più severe delle norme europee in materia di immigrazione, allora bisogna snobbare le leggi nazionali, in nome del primato del diritto Ue, autenticamente umanitario; ma se l’Ue, su impulso dell’Eurocamera e del Consiglio, impone un giro di vite, allora il primato del diritto europeo va a farsi benedire, perché gli subentra il controlimite della Costituzione. Oltre alla possibilità, accordata dalla Corte di Lussemburgo ai magistrati e rivendicata da Minniti, di questionare gli elenchi dei Paesi sicuri.
È un meccanismo che si mette in moto ogni volta che Roma o Bruxelles cercano di moderare i flussi migratori e di accelerare le espulsioni. Ed è un peccato che, tra i «principi fondamentali del nostro ordinamento, non derogabili neppure da fonti internazionali», di cui parlava Minniti al Manifesto, insieme alle prerogative degli stranieri, non vengano considerate quelle degli italiani.
Nel novero dei «diritti inviolabili», sancito dall’articolo 2 della Carta, dovrebbero rientrare tutti quelli indicati dalla Dichiarazione Onu del 1948. Compresi il diritto alla vita e alla «sicurezza della propria persona». Che, a quanto risulta dalle statistiche del Viminale, sono messi a repentaglio dall’invasione degli immigrati, i quali vengono arrestati o denunciati per il 60% dei reati predatori, senza contare il 44% delle violenze sessuali, benché gli stranieri siano solo il 9% della popolazione.
E poi, la Costituzione non afferma che la sovranità appartiene al popolo? Nell’esercitarla, i rappresentanti eletti in Parlamento non possono certo perpetrare degli abusi sulle minoranze. Ma in mezzo ai tanti diritti intoccabili di bengalesi, egiziani e subsahariani, possibile non ci sia uno spazietto per il diritto del popolo a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione? A rendere più efficace e rapido il sistema dei rimpatri?
Non vogliamo spingerci fino a sostenere un argomento estremo: siccome la Costituzione fu sospesa durante la pandemia a detrimento degli italiani, rinchiusi, multati se circolavano dopo le dieci di sera, esclusi da lavoro e stipendio se non si vaccinavano, allora essa può ben essere sospesa allo scopo di controllare i confini e tutelare l’ordine pubblico. No, il punto è un altro: siamo così sicuri che rimandare a casa sua un adulto sano, che non rischia di essere perseguitato né ucciso in guerra, senza aspettare i consueti «due anni» che secondo Minniti impiegano le Corti per pronunciarsi, significhi fare carne di porco della nostra nobile civiltà giuridica? Va benissimo preoccuparsi della «protezione dello straniero». Ma gli italiani chi li protegge?
L’anno prossimo fanno 112. Era il 1914, quando Eugenio Marinella, nel cuore di Napoli, fondava quella che sarebbe diventata una delle più famose aziende tessili italiane. Rinomata per le cravatte, ma ormai specializzata in una vasta gamma di prodotti per uomo e donna. In questo periodo, persino decorazioni natalizie in seta. Il testimone di questa tradizione, oggi, è nelle mani di Maurizio e di suo figlio Alessandro, 30 anni, general manager di E. Marinella. Reduce da una grande soddisfazione professionale.
Alessandro, avete appena ricevuto una lettera dalla Casa Bianca, firmata Donald Trump. Ci racconta com’è andata?
«Entra in negozio un uomo. Non si presenta, ma ci chiede due cravatte da regalare a una persona “molto importante”».
Italiano?
«No, americano. Noi ci incuriosiamo e proviamo a fargli qualche domanda. Viene fuori che queste cravatte sarebbero finite al presidente Trump, con cui questa persona diceva di avere una “estrema vicinanza”».
Da Napoli a Washington.
«Mio padre ha voluto che fossero un omaggio. Qualche settimana dopo, ci è arrivata la lettera datata 17 novembre, con cui il presidente ci ringraziava. Anche per la nostra vicinanza negli anni».
Negli anni?
«È la terza lettera di Trump che riceviamo».
E le altre due?
«La prima volta fu negli anni Ottanta: c’era mio nonno e mio padre aveva una trentina d’anni. Offrì loro di aprire gratuitamente un negozio a New York, nella Trump Tower».
E i suoi cosa risposero?
«Fino a vent’anni fa, la nostra azienda era un negozio di 20 metri quadri. Mio nonno e mio padre si posero il problema: come gestiamo le sarte, il controllo qualità, la produzione, la vendita? Mio nonno non sapeva nemmeno parlare l’inglese. Per cui, lo ringraziarono e declinarono l’offerta».
Col senno di poi…
«Eh, vabbè. Ci sta».
E la seconda lettera?
«Verso la fine del secondo mandato presidenziale, fummo noi a mandare un presente a Trump. E lui ci ringraziò».
Prima o poi, queste cravatte gliele vedremo addosso. Ce le descrive, così magari le riconosciamo?
«Mi è sembrato che le abbia già indossate. Una è sul violetto, l’altra è azzurra-bluette».
Si parla di Trump e allora le chiedo: i dazi vi spaventano?
«No. Abbiamo una decina di negozi tra L’Italia, Londra e Tokyo, ma la nostra distribuzione in America è minima».
Gli americani devono sviluppare ancora il buon gusto?
«Siamo stati soprattutto noi a non spingere. È solo da poco che ci stiamo strutturando come vera e propria azienda».
Trump non è l’unico presidente che avete servito.
«Li abbiamo serviti tutti da Kennedy in poi. Oltre ai reali inglesi, al re di Spagna…».
E ai politici italiani.
«I presidenti della Repubblica».
È vero che Silvio Berlusconi vi piazzava degli ordini monstre?
«Ci chiedeva forniture incredibili, che noi puntualmente non riuscivamo a soddisfare».
Di che cifre parliamo?
«Partiva da 9.000 cravatte, poi iniziavamo a contrattare. Mio padre provava con 2.000, sapendo che, per produrle, le sarte avrebbero dovuto lavorare pure di notte. Alla fine, si chiudeva a 4, 5, 6.000».
Erano regali, ovviamente.
«Un migliaio di regali: cofanetti da sei cravatte».
Dei Vip che ha conosciuto, quale le è rimasto più simpatico?
«Re Carlo. Mi sono fermato a parlarci, abbiamo discusso del drink che stavamo bevendo».
È uno alla mano?
«Super».
Lei ha portato Marinella sui social e anche l’e-commerce è una sua invenzione.
«Ma tutto questo è solo la punta dell’iceberg di un lavoro più ampio. Quando ho iniziato, l’azienda era una bottega. Non avevamo nemmeno i dati delle vendite, non esisteva un organigramma. Ho cominciato a metterci mano, avviando un processo di aziendalizzazione».
Ha dovuto studiarci su?
«Università a Napoli e due master. La preparazione serve, però non occorre studiare economia per sapere che, per ordinare il quantitativo giusto di tessuto, devi prima sapere quanto ne vendi».
Fa il modesto?
«Io sono la quarta generazione della bottega, ma la seconda dell’azienda. Conosce il detto?».
Quale detto?
«La prima generazione crea, la seconda consolida, la terza distrugge. Sto cercando di consolidare».
L’e-commerce ha funzionato?
«Più 25% di fatturato; e intanto è aumentato anche quello dei negozi. Quando sono entrato in azienda, fatturavamo circa 12 milioni; adesso, chiudiamo a 20».
Come se lo spiega?
«Tanta gente, prima, mi diceva: conosco la vostra azienda, ho nell’armadio un sacco di cravatte del nonno… Ecco: intanto, abbiamo smesso di essere solo quelli della “cravatta del nonno”. Già nel 1914, d’altronde, eravamo nati come importatori di vari prodotti inglesi. La cravatta s’impose durante la Seconda guerra mondiale, quando il rapporto con il Regno Unito si interruppe e noi iniziammo a lavorare quei tessuti. Adesso abbiamo diversificato. Non vendendo solo cravatte, abbiamo un’utenza anche più giovane. E non più soltanto maschile. Poi, abbiamo introdotto nuove gamme di materiali sostenibili: abbiamo creato una serie di accessori in Lyocell, estratto dalla buccia delle arance insieme alla corteccia degli alberi».
Le cravatte si vendono ancora?
«Se ne vendono di più. La cravatta sta tornando di moda. Nelle grandi sfilate, la indossano pure le modelle».
Come mai questa rinascita?
«Un tempo, la si indossava prevalentemente per obbligo. Io, giovane, assunto in una Big four, ero costretto a mettere giacca e cravatta. Ma siccome la portavo tutti i giorni, ne acquistavo tante a poco prezzo nella grande distribuzione».
E ora?
«Dopo il Covid, tanta gente ha smesso di andare regolarmente in ufficio. Portare la cravatta, quindi, non è una costrizione: chi la compra è felice di indossarla. Ne cerca una di qualità, indossata dai presidenti americani, prodotta da chi se ne occupa da oltre un secolo».
E Marinella è un’icona.
«Nel 2017 ci fu una mostra al MoMa di New York. Esponevano i 111 oggetti più rappresentativi del secolo. C’era lo skateboard; c’era la minigonna; c’erano i tacchi a spillo di Louboutin; c’era la maglietta Supreme; c’era lo Chanel numero 5; e c’era la cravatta di Marinella».
Sui social, spopolano gli influencer di eleganza maschile. È in atto una riscoperta del classico?
«Assolutamente sì. È un po’ come nell’alimentare: quando uscirono le farine raffinatissime, la gente voleva solo quelle; oggi cerchiamo l’integrale, i grani antichi… Stesso fenomeno avviene nell’abbigliamento. È il ritorno a prodotto che abbia una storia, a un artigiano che realizzi giacca, camicia, pantalone, cravatta, personalizzando lo stile, le misure. Inserendo le iniziali...».
Ha partecipato a un video satirico della pagina Instagram «Napoli centrale», che inscenava una tenzone tra napoletani del Vomero e napoletani di Posillipo. Il vostro brand è diventato più pop?
«L’obiettivo era di sdrammatizzare un po’ la nostra nomea aziendale. Molti pensano che Marinella sia solo classicità e immaginano me e mio padre come due persone col bicchiere di vino davanti al camino, col maggiordomo e l’alano».
Non è per niente snob?
«Sono un normalissimo ragazzo di 30 anni, nato e cresciuto a contatto con tutte le persone di Napoli, di tutte le estrazioni sociali. La gente spesso si stupisce che io sia alla mano. E ci rimango male, perché sono sempre stato uno del popolo. E a questa città devo tanto».
Aveva un’attività già avviata, quindi nel suo caso, forse, il percorso è stato più facile. Però pensa che per il Sud ci sia speranza?
«C’è speranza per il Sud in generale. E vedo che Napoli, in particolare, sta crescendo. Due scudetti, aprono grandi catene alberghiere a cinque stelle - a breve arriverà Rocco Forte. Girano film internazionali. Ci sono aziende che si trasferiscono qui e qui investono. Ci sarà l’America’s cup di vela nel 2027. La vera sfida è mantenere tutto ciò che di buono sta arrivando».
Si rivolga ai suoi coetanei: qualche consiglio di stile?
«Innanzitutto, non focalizzarsi troppo sulle regole. Ciò che ha allontanato i giovani dal classico è stata la paura di sbagliare qualcosa, nel momento in cui si indossavano abiti formali. Bisogna stare molto più sereni. Io stesso infrango l’etichetta».
In cosa?
«C’è una regola secondo cui il colletto della camicia dovrebbe aderire perfettamente al bavero della giacca. A me, invece, piace portare colletti un po’ più piccoli. E me ne frego».
Come Gianni Agnelli, che metteva l’orologio sopra al polsino.
«Lo spirito è quello. Secondo consiglio: suggerirei di evitare il fast fashion. A me è successo di ingolosirmi, ad esempio, di una scarpa un po’ più estrosa del solito, per la quale non mi andava di spendere tanti soldi e di prenderla in quei negozi. Risultato: dopo una decina di volte che la indossavo, si distruggeva. Idem per la camicia: mi va stretta, faccio un movimento e si strappa, oppure scolorisce dopo vari lavaggi».
La fibra naturale non è più salutare per l’ambiente?
«Certo. Si riducono gli sprechi. Dura di più. E quando la sarta mi confeziona una camicia, mi fornisce pure i ricambi per le parti, tipo i polsini, che potrebbero consumarsi».
Ultima dritta?
«Beh, spesso mi chiedono come abbinare i colori e le fantasie delle cravatte agli abiti. È chiaro che, se si indossano una camicia a righe e una giacca pied-de-poule, o a quadri, o principe di Galles, magari si eviterà una cravatta a pois. Giusto per non creare confusione. Però non c’è una regola fissa. La vera regola è sentirsi a proprio agio, sicuri di sé. Uscire di casa e pensare: oggi sono proprio un figo».





