2025-07-13
Schlein confonde le carte per fingersi estranea alla fregola militarista
Senza interessi condivisi, la distinzione tra riarmo nazionale e difesa comune è fuffa. Mutuo soccorso e coordinamento sono già previsti dai trattati dell’Ue e della Nato.«L’andazzo», ha lamentato ieri Elly Schlein al convegno dei dem a Roma, «va molto più verso un riarmo dei 27 Stati nazionali anziché nella direzione della difesa comune europea. Insistiamo sul fatto che sono due cose diverse e, anzi, una rischia di allontanare gli obiettivi dell’altra». Il segretario del Pd lo ripete da tempo. E crede, così, di aver risolto la contraddizione di un partito diviso tra un’ala pacifista e una componente in linea con l’eurobellicismo, cui fanno capo esponenti di primo piano. Tipo la vicepresidente del Parlamento Ue, Pina Picierno, una delle più accese sostenitrici del fondo Safe e del piano Readiness 2030 di Ursula von der Leyen.L’inquilina del Nazareno sta diventando una campionessa di slalom tra le antinomie politiche. Stesso copione sulle guerre in corso: è molto meno favorevole al coinvolgimento occidentale in Ucraina rispetto al predecessore, Enrico Letta, ma non intende spingersi fino a fare concorrenza a Giuseppe Conte sul terreno del compromesso con Mosca; allora si butta sul presunto genocidio a Gaza, perché è molto più facile mobilitare le coscienze contro Benjamin Netanyahu e sui morti innocenti del Medio Oriente.Quanto alle spese militari, la Schlein confida che la patata bollente resti in bocca a Giorgia Meloni. Lei, intanto, ha buon gioco nel denunciare il rischio di tagli allo Stato sociale e nel fingersi indignata dall’Europa con l’elmetto. In realtà, la distinzione tra riarmo nazionale e difesa comune - «Sono due cose diverse» - non sta in piedi. Prima di tutto - e per ragioni strutturali - la gara a riempire gli arsenali non può che essere un affare di competenza dei singoli Paesi. Come ha ricordato venerdì il commissario Ue, Andrius Kubilius, l’Unione in quanto tale non è nemmeno autorizzata ad acquistare armi, trattati alla mano. E chiunque abbia messo in cantiere programmi seri per ristrutturare il proprio esercito, a cominciare dalla Germania, dall’Europa non ha preso neanche i soldi: Berlino ha varato una riforma costituzionale per spendere quasi 1.000 miliardi in deficit; e starebbe per stanziarne 25 solo per procurare 2.500 semoventi alla fanteria e un migliaio di carri Leopard 2. Si può essere tanto ingenui da credere che, poi, il cancelliere Friedrich Merz lasci che siano la connazionale Von der Leyen, o qualche burocrate delle sparute forze armate dell’Ue, dipendenti dall’Alto rappresentante Kaja Kallas, a decidere se, come e quando usarli?Esiste uno Stato maggiore continentale, ma non esiste una volontà politica unitaria. Non esiste un interesse strategico che sia uguale per tutti e, dunque, non esiste un’unica politica alla quale prestare l’esercito. E siccome la guerra, o comunque la potenza militare, è la continuazione della politica con altri mezzi, immaginare un’operazione corale è una pia illusione oppure un deliberato inganno. Al punto che lo stesso Trattato fondativo dell’Unione europea affida ogni decisione in materia a una delibera unanime del Consiglio. Ovvero, del vertice dei capi di Stato e di governo. Questo non vuol dire che sia impossibile identificare un requisito di sicurezza su cui tutti gli Stati membri possano convergere. Viene da sé che, se davvero tra cinque anni la Russia invadesse la Polonia o i baltici, l’intera Ue sarebbe colpita e minacciata, dunque tenuta a intervenire in soccorso degli alleati. È un principio di mutua assistenza già previsto dall’articolo 42, comma 7, del citato Trattato, oltre che dall’ormai famoso articolo 5 del Trattato Nato. Ai sensi di entrambi gli accordi, ciascun Paese scenderebbe in campo per assistere la vittima dell’aggressione, nel quadro di un’alleanza e probabilmente di un comando comune. Ma sempre su mobilitazione delle singole capitali; mica di Bruxelles.In altre occasioni, la leader del Pd ha confuso ancor più le acque, alludendo all’esigenza di integrare i sistemi d’arma. Né più né meno del concetto di «interoperabilità», che già rientra tra gli obiettivi della Nato e che non è certo un’innovazione del federalismo europeo. È un principio che non ha nulla a che vedere con una rigida divisione del lavoro bellico. Solo le circostanze, le priorità politiche e le risorse a disposizione possono vincolare una nazione a concentrarsi sul potenziamento di un settore piuttosto che di un altro. Chi accetterebbe che la Commissione Ue imponga a Roma, a Madrid o a Parigi su cosa specializzarsi e cosa demandare ai partner? In più, la cooperazione militare non è limitata al perimetro dell’Unione europea: ne è la dimostrazione l’intesa tra Francia e Regno Unito, le sole potenze del continente dotate di ordigni atomici, sulla condivisione dell’ombrello nucleare.Certo, la Schlein non è l’unica a essersi affidata al gioco delle tre carte, nel tentativo di dissimulare il contributo piddino al riarmo. Ieri, il viceministro degli Esteri, il meloniano Edmondo Cirielli, ha garantito che «le armi nei Paesi democratici servono per deterrenza» e non «per fare le guerre». Non scomodiamo il paradosso della sicurezza: la corsa agli armamenti, ancorché pensata in chiave difensiva, facilita lo scoppio di un conflitto. La storia, compresa quella molto recente, smentisce la sua rassicurazione: se una democrazia ha una proiezione imperiale, cercherà di conservarla, consolidarla e ampliarla pure tramite la forza. La politica deve riconoscere che gli italiani sono diventati adulti. Non ci sono pillole da indorare. Le nubi nere all’orizzonte le abbiamo viste tutti.
«The Iris Affair» (Sky Atlantic)
La nuova serie The Iris Affair, in onda su Sky Atlantic, intreccia azione e riflessione sul potere dell’Intelligenza Artificiale. Niamh Algar interpreta Iris Nixon, una programmatrice in fuga dopo aver scoperto i pericoli nascosti del suo stesso lavoro.