Il Brasile di Lula è stretto tra i dazi punitivi di Trump e gli aiuti interessati di Xi
Mentre il Sudamerica abbraccia il libero mercato con le vittorie elettorali di Javier Milei in Argentina, Rodrigo Paz in Bolivia e José Antonio Kast in Cile, tra i grandi Paesi del subcontinente il Brasile resta l’ultimo fortino di una sinistra asfittica. Tra un debito pubblico fuori controllo, un apparato giudiziario sotto sanzioni Usa e il pesante processo all’ex presidente Bolsonaro, l'amministrazione di Luiz Inácio Lula da Silva tenta di sopravvivere agitando lo spauracchio dell’interferenza esterna.
Il panorama politico dell’America Latina sta vivendo un cambiamento generazionale senza precedenti. Il «pendolo» si è spostato drasticamente verso destra: dall’Argentina di Javier Milei, che ha ridotto l’inflazione dal 200% al 30%, alla Bolivia che ha chiuso vent’anni di socialismo, fino al Cile che ha decretato il «più chiaro ripudio della sinistra in quasi un secolo». In questo scenario, il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva appare come una vistosa anomalia ideologica, un’isola rossa che tenta di resistere a un’ondata conservatrice che invoca sicurezza, disciplina fiscale, mercato e sovranità.
Lula, giunto al suo terzo mandato da presidente, ha impostato una politica estera nel segno di un attivismo multilaterale, rafforzando la presenza del Brasile nei Brics e rilanciando i rapporti con Cina e Russia.
Tuttavia, la tenuta di Lula è tutt’altro che solida. All'età di 80 anni, il leader del Partito dei lavoratori (Pt) governa un Paese profondamente polarizzato, dove il consenso è fragile e i segnali di insofferenza crescono. Sebbene Lula guidi ancora i sondaggi per il 2026, la sua popolarità ha subito duri colpi, specialmente dopo aver definito i narcotrafficanti come «vittime» del sistema, una dichiarazione che ha scioccato una popolazione stremata dalla criminalità organizzata.
Il cuore della crisi brasiliana risiede nello scontro frontale tra i poteri dello Stato e l’opposizione bolsonarista. La condanna di Jair Bolsonaro a 27 anni di carcere per un complotto golpista ha spaccato il Paese in due. L’ex presidente è diventato un martire per milioni di brasiliani che vedono nella magistratura, in particolare nel giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes, un braccio politico dedito alla persecuzione dell’opposizione.
L’arresto di Bolsonaro, avvenuto dopo che l’ex leader ha ammesso di aver manomesso il suo braccialetto elettronico con un saldatore (con la bizzarra giustificazione di aver avuto allucinazioni causate da farmaci per il singhiozzo) ha ulteriormente radicalizzato le posizioni. Per i suoi sostenitori, si tratta di una caccia alle streghe orchestrata da un regime che usa il diritto come arma. Questa tensione ha paralizzato il dibattito pubblico, spostandolo dai temi economici alla sopravvivenza delle istituzioni democratiche.
In questo clima incendiario, l’amministrazione di Donald Trump ha deciso di intervenire con una forza d’urto che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda. Washington ha adottato quella che qualcuno, come abbiamo già visto, ha ribattezzato la «Dottrina Donroe», considerando il Sudamerica come il proprio dominio strategico e punendo severamente chi non si allinea.
L’attacco è stato duplice, giudiziario ed economico. Il Dipartimento del Tesoro Usa ha imposto sanzioni al giudice De Moraes e revocato i visti a otto degli undici membri della Corte Suprema brasiliana, accusandoli di gravi violazioni dei diritti umani. Ma il colpo più duro è arrivato sul fronte commerciale, allorquando Trump ha imposto dazi del 50% sulle esportazioni brasiliane, una tariffa punitiva senza precedenti motivata ufficialmente dalla «persecuzione politica» contro Bolsonaro. Nonostante il Brasile non abbia un surplus commerciale con gli Usa, Washington sta usando il commercio come leva esplicita per influenzare la politica interna e favorire un cambio di rotta nel 2026.
Schiacciato dalla pressione americana, Lula ha reagito rispolverando la retorica del nazionalismo populista. Il presidente ha dichiarato che «la democrazia e la sovranità del Brasile non sono negoziabili», cercando di trasformare l’aggressione di Trump in un «regalo» politico per rinsaldare le proprie file. Questa mossa ha effettivamente generato un effetto «rally around the flag» (raccolta attorno alla bandiera, tipica reazione nei momenti di difficoltà di un Paese), portando i sondaggi di gradimento del presidente brasiliano dal 24% al 33% in pochi mesi.
Tuttavia, questo scudo patriottico non può nascondere le difficoltà economiche che gravano sul Paese. Il settore dell’agrobusiness, storicamente vicino a Bolsonaro e vitale per il Pil, prevede perdite per un miliardo di dollari solo nella seconda metà dell’anno a causa dei dazi statunitensi. Anche i settori conservatori, inizialmente favorevoli a Trump, iniziano a vedere con sospetto un’interferenza che danneggia la competitività delle esportazioni nazionali.
Mentre i vicini argentini attuano cure da cavallo libertarie, il Brasile resta profondamente statalista. Il debito pubblico è previsto all’81,8% del Pil per il 2026, ma gli investitori temono che supererà l’83,8%. Il bilancio approvato per l’anno elettorale è un colabrodo di eccezioni: miliardi destinati alle poste statali, ai militari e ai sussidi sociali che trasformano il surplus primario promesso in un deficit reale. La spesa obbligatoria per pensioni e sussidi cresce al 10% annuo, ben oltre i limiti legali che il governo stesso si era imposto.
Per compensare l’ostilità di Washington, Lula sta accelerando l’allineamento con la Cina. Pur non avendo formalmente aderito alla Nuova Via della Seta cinese, per il Brasile Pechino è già il primo partner commerciale e sta occupando ogni spazio strategico, dai minerali critici (il Brasile ha le seconde riserve mondiali di terre rare) alla costruzione di una ferrovia transcontinentale per collegare l’Atlantico al Pacifico. Il Brasile punta sull’alleanza Brics per ridurre la dipendenza dal dollaro, ma rischia di scambiare una dipendenza con un’altra, diventando un satellite economico di Pechino in cambio di ossigeno finanziario immediato.
Mentre il ministro delle Finanze Fernando Haddad annuncia le dimissioni per preparare la campagna elettorale a sostegno di Lula, il centrodestra brasiliano cerca un erede credibile dopo Bolsonaro. Il governatore di San Paolo, Tarcísio de Freitas, è visto dal mondo finanziario come l’unica alternativa pragmatica capace di battere Lula. Tuttavia, il clan Bolsonaro oppone resistenza, con il senatore Flávio Bolsonaro che rivendica per sé il testimone del padre. Il giovane candidato si presenta come un «Bolsonaro moderato e vaccinato» (sic) per attirare i moderati. La spaccatura interna alla destra può essere l’unica vera ancora di salvezza per l’anziano Lula nelle elezioni che si terranno nell’ottobre 2026, tra meno di un anno. A quella data Lula avrà 81 anni, e chissà che da qui ad allora, per evitare un effetto Biden, il suo partito non decida di proporre un candidato alternativo, più giovane, in grado di dare maggiore slancio futuro. Al momento però tale candidato non si vede.
Il Brasile, dunque, si trova a un bivio carico di significati. Schiacciato tra un’amministrazione Trump che non fa sconti e una Cina che attende di incassare i suoi crediti, il Paese rischia di implodere sotto il peso del proprio debito e della polarizzazione sociale. Il governo Lula sta cercando di sopravvivere trasformando ogni dazio americano in una medaglia al valore nazionale, ma i fondamentali economici non mentono.
Il Brasile possiede quella che è stimata, come la seconda riserva mondiale di terre rare, con circa 21 milioni di tonnellate metriche (pari al 23,3% delle riserve globali, ma secondo sondaggi recenti anche di più), a pari merito col Vietnam e superato solo dalla Cina che ne detiene 44 milioni. Questi 17 elementi sono un po’ la spina dorsale della civiltà industriale moderna. Senza di essi non esistono magneti per turbine eoliche, motori per veicoli elettrici, semiconduttori o sistemi di guida per missili e jet. Energia, trasporti, elettronica e difesa sono i settori che più di tutti hanno estrema necessità di questi componenti.
Ad oggi, la Cina controlla il 70% della produzione mineraria e oltre il 90% della lavorazione di questi minerali. Questa posizione di quasi-monopolio permette a Pechino di esercitare un’influenza enorme sui prezzi e sulle catene di fornitura globali, una vulnerabilità che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Il Brasile, grazie ai suoi depositi di argille ioniche (più facili, economici e meno inquinanti da estrarre rispetto alle rocce dure di Australia e Usa) rappresenta il tassello mancante per il de-risking perseguito dall’Occidente.
Ma in anni di disinteresse di Washington, la Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile, assorbendo volumi enormi di soia, minerali di ferro ed energia. Ma l’influenza cinese va ben oltre il semplice scambio commerciale. Grandi compagnie minerarie come China Molybdenum (Cmoc) sono già profondamente radicate nel Paese attraverso joint venture strategiche.
Il simbolo della rinascita mineraria del Brasile è la città di Minaçu, nello stato di Goiás. Qui, dove un tempo si estraeva amianto, la società Serra Verde (controllata dal fondo americano Denham Capital) ha avviato nel 2024 la produzione commerciale di concentrato contenente le quattro terre rare più ambite per i supermagneti: neodimio, praseodimio, disprosio e terbio.
Tuttavia, emerge un paradosso tipico di questo settore. Nonostante il capitale sia statunitense, i primi carichi di minerali estratti a Minaçu sono stati esportati proprio in Cina per la raffinazione. Pur avendo il minerale, il Brasile manca di un’industria di trasformazione completa, rendendolo di fatto un fornitore di materie prime per il suo principale partner commerciale, Pechino. Neppure gli Stati Uniti, del resto, hanno una industria sviluppata che permetta di raffinare le terre rare, dunque la Cina, che controlla il 90% del mercato mondiale della raffinazione, è la destinazione obbligata dei minerali estratti.
Donald Trump sta adottando una tattica antica ma sempre efficace, il bastone e la carota. Mentre impone dazi pesanti, gli Stati Uniti stanno usando anche incentivi finanziari diretti. La U.S. International Development Finance Corporation (Dfc) ha stanziato fino a 465 milioni di dollari per espandere Serra Verde, mentre la Export-Import Bank (Ecim) ha manifestato interesse per finanziare con 250 milioni di dollari il progetto Caldeira della australiana Meteoric Resources nel Minas Gerais. L’obiettivo di Washington è costruire una catena di fornitura di terre rare che escluda Pechino, spingendo le aziende brasiliane a verticalizzare la produzione internamente o in Paesi alleati.
Il governo Lula ha risposto con il piano Nova Indústria Brasil (Nib), una strategia di neo industrializzazione che mira a stanziare oltre 50 miliardi di dollari per sviluppare settori tecnologici sovrani. Recentemente, la Finep (Financiadora de Estudos e Projetos) e il Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social) hanno selezionato 56 progetti, per un valore potenziale di 8 miliardi di dollari, di cui 10 progetti specificamente dedicati alle terre rare.
Tuttavia, il Consiglio Nazionale di Politica Mineraria (Cnpm), istituito formalmente nel 2022, è rimasto inattivo per anni e solo recentemente è stato installato per aggiornare un Piano minerario nazionale fermo al 2011. Inoltre, il settore soffre per un’agenzia regolatrice (Anm) definita fragile e sottofinanziata, e per tempi di autorizzazione che possono durare un decennio. Le piccole compagnie minerarie si sono recentemente unite nell’Associazione dei Minerali Critici (Amc) per chiedere al governo garanzie finanziarie reali, poiché senza flussi di cassa immediati rischiano di dover cedere la produzione futura a investitori stranieri.
Sullo sfondo rimangono i conflitti socio-ambientali. Sebbene l’estrazione dalle argille ioniche sia definita sostenibile da Serra Verde, le comunità locali vicino alla miniera denunciano la contaminazione dei corsi d’acqua e impatti sulla salute. Il Brasile rischia di ripetere la sua traiettoria storica, cioè esportare minerali grezzi e restare dipendente dalle tecnologie estere. Sarebbe necessario creare un polo di raffinazione nazionale che rassicuri sia i militari, desiderosi di autonomia per il loro programma di sottomarini nucleari, sia gli investitori internazionali.
In conclusione, il Brasile ha tra le mani le chiavi di una importante cassaforte di preziose materie prime. Molto dipende da come il governo Lula saprà agire. Se in maniera pragmatica, cercando un compromesso tra le opposte spinte di Cina e Stati Uniti, o se sceglierà di gettarsi da una parte e in questo modo determinare uno squilibrio che sarà da valutare nella sua portata. Il rischio è che il grande Paese imploda sotto la pressione dei dazi di Trump o finisca per diventare una semplice colonia estrattiva per la fame di risorse della Cina.
- Boom delle gemme sintetiche, miniere in crisi e nuovi gusti dei consumatori: preziosi sotto quota 4.000 dollari al carato.
- I valori ritoccano i massimi storici, spinti dal taglio dei tassi e dal nuovo presidente Fed.
Lo speciale contiene due articoli
C’erano una volta i diamanti: eterni, costosi, luccicanti, rassicuranti come una promessa sussurrata al momento giusto. La favola, però, ultimamente ha perso il fascino e la luce. E così, mentre l’oro corre sui massimi storici come bene rifugio in piena paranoia globale, la pietra più preziosa del mondo è scivolata ai minimi del secolo.
Le gemme più ricercate viaggiano sotto i 4.000 dollari al carato, contro i 6.811 del 2022. In tre anni un tonfo del 40%. Altro che taglio brillante: qui a essere tagliato è il portafoglio di chi ha comprato scommettendo sull’eternità del brillante e del suo valore. E così si spengono anche le certezze.
La discesa è talmente verticale che persino i grafici di Bloomberg sembrano una pista nera appena battuta. Il «re delle gemme» è sceso dal trono e ora guarda con sospetto i cugini sintetici fino a poco tempo fa considerati pura paccottiglia. Ora, invece, si scopre che sono più economici, più etici, più giovani e soprattutto più in sintonia con lo spirito dei tempi. D’altronde, se i regali di Natale 2025 devono obbedire ai canoni della spesa intelligente, che cosa c’è di più furbo di una pietra nata in laboratorio, che brilla uguale - se non di più - inquina di meno e non si porta dietro il racconto, sempre meno romantico, di miniere, fatica e sfruttamento di tanti lavoratori dalla pelle nera?
I diamanti, insomma, possono anche essere i migliori amici di una donna, ma si stanno rivelando il peggior incubo per i listini. Che cosa è successo nel regno luccicante del lusso extralarge? Presto detto: i mercati chiave si sono raffreddati. La Cina, soprattutto, è passata dall’euforia alla glaciazione, come un anello dimenticato nel secchiello dello champagne. I consumi rallentano, la fiducia pure, e il lusso - che vive di desiderio prima ancora che di reddito - ne paga il conto.
Nel frattempo, i diamanti nati in laboratorio e non nel ventre della Terra hanno invaso il mercato con la ferocia di una tempesta di glitter: identici agli originali, ma con prezzi capaci di far impallidire le miniere. Risultato? Le pietre naturali arrancano, e le miniere sudafricane guardano le centrifughe chimiche con la stessa simpatia con cui un vecchio libraio osserva Amazon.
Il comportamento del consumatore è cambiato: oggi si compra «sostenibile», «etico», possibilmente «carbon neutral». Un diamante scavato nel ventre di una miniera ha smesso di sembrare una storia d’amore e ha iniziato ad assomigliare a un problema di coscienza.
Come se non bastasse, anche la catena produttiva ha avuto la sua dose di guai. In India, cuore pulsante del taglio e della lucidatura, le fabbriche faticano. La domanda rallenta, la produzione pure, e i magazzini si riempiono di pietre che aspettano tempi migliori. De Beers, la storica regina dei diamanti, naviga in acque agitate: Anglo American, la casa madre, ha deciso di venderla, scatenando un’asta che ha più il sapore degli equilibri di potenza che del mercato. L’Angola punta alla maggioranza, il Botswana non ci sta, gli equilibri della geopolitica del Continente Nero si intrecciano con quelli finanziari.
Nel frattempo il mercato resta freddino. De Beers ha tenuto i prezzi fermi nelle ultime vendite e ha persino concesso agli acquirenti la libertà di dire «no, grazie». In un settore dove rifiutare un lotto era considerato quasi un sacrilegio, oggi è diventata prassi. Segno che l’aria è cambiata davvero.
Eppure, non tutto è grigio nel firmamento del lusso. Lvmh continua a mostrare i muscoli grazie a Tiffany & Co., che brilla di luce propria nel portafoglio del gruppo francese. Anche Kering, con Boucheron e Qeelin, rivendica vendite in crescita. Ma la sensazione diffusa è che il diamante, pur restando il simbolo universale dell’amore eterno, stia pensando seriamente di divorziare dal mercato.
In Europa e in Italia lo scenario non è molto diverso. I prezzi sono espressi in dollari, ma al dettaglio entrano in gioco margini, Iva e costi di finitura che rendono tutto apparentemente più caro. In realtà, il valore intrinseco si è assottigliato: se un tempo il diamante era sinonimo di investimento sicuro, oggi rischia di diventare un gioiello da indossare con ironia più che da custodire in cassaforte.
Il paradosso è servito: il diamante, eterno per definizione, ha scoperto di non esserlo affatto. Almeno quando si parla di prezzi.
Il mondo indebitato punta sui metalli. Oro, argento e platino da record
Il 2025 si sta delineando come l’anno della consacrazione per i metalli, sia preziosi che industriali. Oro, argento, platino e rame hanno infranto quest’anno una serie di record storici, spinti da una convergenza di fattori macroeconomici, domanda industriale, restrizioni dell’offerta, tensioni geopolitiche e una crescente sfiducia nelle valute fiat.
L’oro ha superato per la prima volta nella storia la soglia dei 4.400 dollari l’oncia, segnando un incremento del 67% dall’inizio dell’anno, la migliore performance annuale dal 1979. L’oro gestito dalla Banca d’Italia ha visto il suo valore aumentare di 96 miliardi di euro in un solo anno.
Non è da meno l’argento, che ha registrato un rally vertiginoso del 128%, sostenuto da forte domanda industriale e limitazioni strutturali dell’offerta. Il rame si sta dirigendo verso i 12.000 dollari a tonnellata, trainato dalla corsa ai data center e dai possibili dazi americani in arrivo. Il platino fa segnare un +110% nell’anno, anch’esso sostenuto da domanda reale.
Il decollo dei prezzi non è un fenomeno isolato, ma il risultato di un mondo che è cambiato profondamente rispetto a solo un anno fa.
Mentre su argento, rame e platino a guidare il rialzo dei prezzi è un equilibrio precario tra offerta e domanda reale, in un momento in cui il ciclo delle commodity può innescare una rampa di rialzi vertiginosi, per poi cadere a fine ciclo. L’incognita, qui, è la durata del ciclo.
Sull’oro, invece, influisce soprattutto l’incertezza legata all’economia mondiale. Vi è il tema delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, ad esempio, oltre che l’incertezza sull’economia negli Usa, tra inflazione, tassi di interesse e occupazione. Infine, la guerra in Ucraina e i timori di una sua prosecuzione o, peggio, allargamento.
A monte di tutto questo, però, c’è forse un aspetto più rilevante. Un fattore cruciale che alimenta la corsa all’oro è la percezione del rischio legata alle valute. Molti investitori sono preoccupati per l’erosione del valore dei titoli di Stato e delle valute fiat e si rivolgono quindi a valori tangibili. È un fenomeno noto come debasement trade. In questo contesto, l’aumento del debito, non solo di quello pubblico, ma anche di quello privato, spinge i capitali verso beni che preservano il valore nel tempo. Non è importante che ciò accada realmente, si tratta sempre di aspettative.
Ma sono soprattutto il congelamento delle riserve valutarie russe dal 2022 e le discussioni su un loro eventuale esproprio ad aver accelerato e rafforzato questa tendenza in maniera macroscopica, poiché il ruolo dell’oro come attivo di riserva, che può resistere alle sanzioni, ha acquisito importanza. Questo fattore, che possiamo ascrivere alla politica, si somma alle crescenti preoccupazioni sulla svalutazione della moneta e ha rafforzato l’incentivo anche per le banche centrali a mantenere una certa domanda di oro. Tutto ciò ha provocato un aumento delle riserve in oro delle banche centrali, infatti. Complessivamente, nel solo 2025 le banche centrali dei diversi paesi hanno comprato 850 tonnellate di oro da destinare a riserva.
Vi è poi in ballo il futuro della Federal Reserve. Regna una profonda incertezza sulla direzione futura della banca centrale americana. Non si tratta solo di capire chi sarà il prossimo presidente dell’istituto, ma di valutare quanto la FED sarà conciliante rispetto alle richieste del governo americano.
Il rally dei metalli nel 2025, insomma, non è una bolla speculativa, ma il riflesso di un riassetto globale. La combinazione di una domanda tecnologica forte e di una offerta limitata, delle tensioni belliche e di un debito in crescita ha creato un terreno fertile per i metalli. Per l’oro, mentre le banche centrali competono con gli investitori privati per l’offerta fisica limitata, lo sguardo rimane fisso sulla FED. Goldman Sachs recentemente ha ipotizzato che l’oro possa arrivare a 4.900 dollari nel 2026. Certo, ora siamo in quel territorio di confine in cui le profezie si autoavverano, ma i metalli oggi stanno agendo come un barometro della instabilità globale.





