L’America Latina sta vivendo una profonda ed evidente svolta politica a destra. Da La Paz a Santiago, in Sudamerica una nuova ondata conservatrice spazza via la fallimentare eredità della sinistra. La frustrazione popolare per il collasso economico e il caos criminale ha posto fine all’era dell’utopia ideologica, aprendo la porta a leader che promettono il classico binomio legge e ordine.
Questa svolta è guidata da una profonda frustrazione popolare e da un desiderio tangibile di misure più drastiche per affrontare le crisi economiche e la crescente ondata di criminalità. La cattiva gestione economica da parte dei governi di sinistra sta rafforzando i politici pro mercato in tutta la regione.
La fine del dominio socialista in Bolivia è l’emblema di questo cambiamento. Dopo quasi vent’anni di governo ininterrotto della sinistra, gli elettori hanno recentemente cacciato il partito socialista Msa. Il neoeletto presidente, Rodrigo Paz, un centrista favorevole alle imprese, è entrato in carica questo mese promettendo di attrarre investimenti stranieri e frenare la spesa, affrontando la più profonda crisi economica boliviana degli ultimi quarant’anni. La sinistra ha lasciato il Paese andino con un’inflazione in rampa di lancio (22,2% ad ottobre, mentre nel gennaio 2024 era all’1,86%), un deficit di bilancio in forte crescita e una grave carenza di dollari e carburante, problemi che Paz ha il compito enorme di risolvere, cercando un accordo con il Fondo monetario iternazionale.
In Argentina, la vittoria sorprendente del presidente Javier Milei nelle elezioni di medio termine ha cementato un mandato per riforme radicali di libero mercato. Milei ha ottenuto un sostegno inaspettato anche tra le classi popolari e gli elettori più poveri. Un argentino su tre vive in povertà, ma molti argentini hanno preferito dare fiducia alla sua terapia d’urto liberale piuttosto che rischiare di rivivere il disastro economico vissuto con i peronisti. La paura del ritorno al caos economico ha giocato un ruolo cruciale nel successo di Milei.
Il Cile è ossessionato dalla crisi della sicurezza cittadina, che ha monopolizzato la campagna elettorale. La rabbia per l’aumento della criminalità e, in particolare, per l’immigrazione illegale in gran parte proveniente dal Venezuela impoverito, ha dato un forte slancio alla destra politica. Il crescente potere delle bande criminali ha spinto gli elettori verso candidati con posizioni dure.
Il 14 dicembre il ballottaggio presidenziale cileno vedrà scontrarsi Jeannette Jara del Partito comunista e José Antonio Kast, l’ex parlamentare ultraconservatore che, secondo i sondaggi, è ampiamente previsto vincitore. La preferenza per i candidati di destra è schiacciante, considerato che circa il 70% degli elettori ha sostenuto i candidati di destra al primo turno.
Kast ha capitalizzato l’inquietudine sociale, promettendo di sigillare la frontiera settentrionale con Bolivia e Perù e di scavare fossati e costruire muri o recinzioni elettriche. Per il Cile, questo risultato è considerato «il ripudio più chiaro della sinistra in quasi un secolo».
La virata a destra del Sudamerica non poteva arrivare in un momento migliore per il presidente americano Donald Trump, la cui amministrazione ha ripreso un marcato interesse per il proprio «giardino di casa» dopo anni di disimpegno. Trump ha rimodellato il ruolo di Washington nella regione con una forza e un uso del potere militare ed economico che non si vedevano da decenni, trattando l’area come una sfera di influenza esclusiva. Anche le elezioni in Honduras confermano questa tendenza, con Trump nettamente schierato con il candidato Nasry Asfura alle elezioni presidenziali. Un analista ha definito questa politica «dottrina Donroe», un gioco di parole che richiama la dottrina Monroe del XIX secolo.
La regione è cruciale per gli obiettivi di Trump di frenare la migrazione e il flusso di droga, oltre a contrastare l’influenza della Cina. In gioco ci sono le vaste riserve minerarie e petrolifere della regione, ora più facilmente accessibili con l’ascesa al potere di leader pro mercato come Milei e Kast. Argentina, Bolivia e Cile possiedono insieme circa la metà delle risorse mondiali di litio, mentre il Cile è un produttore chiave di rame.
L’amministrazione Trump sta altresì intensificando la pressione militare nella regione, con una campagna che, secondo alcuni, è al confine tra la lotta al narcotraffico e il cambio di regime.
Il presidente Trump ha accusato la Colombia e il Venezuela di essere dei governi narcotrafficanti. Il leader venezuelano, Nicolás Maduro, è stato descritto dagli Stati Uniti come a capo del Cartel de los Soles (Cartello dei Soli), una rete diffusa di militari e funzionari di alto rango che facilitano il traffico di cocaina. Trump ha autorizzato operazioni segrete della Cia in Venezuela e ordinato il più grande dispiegamento militare nei Caraibi degli ultimi decenni, includendo attacchi letali su presunte imbarcazioni di droga.
Parallelamente, Trump ha attaccato il presidente colombiano di sinistra, Gustavo Petro, definendolo un «illegal drug leader» e minacciando di sospendere tutti gli aiuti statunitensi a Bogotá e imporre nuovi dazi, accusandolo di non fare nulla per fermare la produzione di droga.
La Cina rappresenta un elemento di complicazione strategica, essendo ormai il principale partner commerciale del Sudamerica e una fonte cruciale di investimenti e finanziamenti. L’amministrazione Trump sta cercando di contrastare l’influenza di Pechino.
In questo contesto, l’Argentina di Milei presenta una notevole contraddizione: pur essendo un fervente alleato ideologico di Trump, il Paese è economicamente legato alla Cina, che è il principale cliente argentino della soia. Gli affari con la Cina sono destinati a continuare, nonostante gli sforzi di Washington per limitare l’influenza di Pechino in settori sensibili come la sicurezza. Anche in Perù, dove uno dei diversi candidati di destra è probabile che vinca le elezioni del prossimo anno, e in Colombia, la crescente presenza cinese è una realtà.
Il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva rimane l’ultimo governo di sinistra di rilievo nel subcontinente. In quanto peso massimo regionale, il Brasile è un membro fondatore dei Brics (che ora includono dieci Paesi). Questo blocco è visto come una necessaria copertura contro un ordine globale sempre più frammentato e un modo per costruire un mondo meno centrato sull’Occidente. La Cina sta approfondendo costantemente la sua presenza in Brasile attraverso investimenti in energia, agricoltura e infrastrutture, inclusa una ambiziosa ferrovia transcontinentale.
La svolta a destra in America Latina, alimentata dalla stanchezza per la crisi politica, economica e sociale lasciata in eredità dalla sinistra, offre agli Stati Uniti una vasta opportunità strategica. Ma, come dimostrato nel caso brasiliano, il cammino richiede cautela, poiché il sentimento antiamericano persiste, anche tra gli elettori conservatori, e l’intreccio affaristico con la Cina è ormai strutturale.
l GNL statunitense in sofferenza sui margini. Le raffinerie private cinesi si aggiudicano il petrolio iraniano. Londra tassa le auto elettriche. L’Ue dà l’addio definitivo al gas russo dal 2027.
La Commissione europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, si conferma campione della globalizzazione, con l’annuncio dell’apertura di una revisione sui dazi applicati alle auto elettriche prodotte in Cina dal Gruppo Volkswagen.
La ex potenza industriale Europa si sta trasformando in una colonia commerciale e il simbolo di questa triste parabola è la disastrosa imposizione dell’auto elettrica da parte dell’Unione europea, che ora si arricchisce di un nuovo capitolo: esentare dai dazi le importazioni delle auto Volkswagen prodotte in Cina.
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.





