Facciamo il punto novembrino del confronto referendario: intanto, chi è il frontman della campagna del No?A rigor di logica e per obbligo di mandato correntizio dovrebbe essere il vertice Anm (il presidente Cesare Parodi, ndr), non foss’altro perché rappresenta quel sistema che dal sorteggio risulterebbe più che sconfitto; secondo altri, dovrebbe essere il procuratore di Napoli (Nicola Gratteri, ndr), per la migliore conoscenza dei salotti televisivi; secondo altri ancora dovrebbe essere il presidente del Comitato del No (Enrico Grosso, ndr), un accademico insigne e molto ottimista («Una volta emerso quel sistema opaco con Luca Palamara, è stata fatta pulizia. Lo stesso Csm ha dimostrato che le degenerazioni appartengono al passato», ha dichiarato sulla Repubblica del primo novembre).
Tre Giulio Cesare nello stesso esercito. La felicità di ogni legionario. Almeno finché i vari condottieri vanno d’accordo. Cosa di cui è lecito dubitare, visto che il procuratore è a favore del sorteggio («L’unica via d’uscita allo strapotere delle correnti è il sorteggio del Csm», ha fatto sapere in un’intervista a La7 nel 2021); il presidente, invece, è contrario e il professore ottimista pure.
Due Cesari contro uno. Clima da De bello civili. Meglio cambiare zona e andare a Napoli, dove, però, l’aria è altrettanto elettrica: l’attuale procuratore generale (Aldo Policastro, ndr), giusto per dare un tocco di levità al dibattito, un paio di settimane fa ha pensato bene di lanciare sui riformatori nientedimeno che l’accusa di «piduismo»: lo scopo della riforma «è esattamente quello che, nel 1981, era previsto nel Piano di rinascita nazionale della P2 […] nel Piano di rinascita nazionale era scritto nero su bianco: “Separazione delle carriere. Sottomissione del pm all’esecutivo. Riforma del Csm”» (La Repubblica, 8 novembre).
Accusa ricalcata su quella del professor Tomaso Montanari, assiduo ospite di salotti tv: «Oggi all’inferno esulta pure Licio Gelli» (La7, 29 ottobre).
Siamo andati (almeno noi) a leggerlo, questo diabolico Piano P2. E siamo arrivati alla conclusione che - ad applicare il metodo neocartesiano-aristotelico usato dai critici suddetti - quelli del Sì sono effettivamente dei piduisti. Esattamente come quelli del No.
Per esempio: il punto A3 del Piano diabolico, capoverso primo, progettava di ridurre il numero dei parlamentari. Cioè esattamente lo stesso obiettivo (raggiunto) del referendum del 2020 voluto dal Movimento 5 stelle, concluso con il 69,96% dei voti favorevoli. Naturalmente tutti voti «piduisti», almeno secondo la logica neoaristotelico-cartesiana di cui sopra.
Ed è un bel guaio, visto che gli antipiduisti citati all’ inizio ora si trovano a lottare contro la riforma «piduista» in compagnia proprio dei grillini «piduisti». Ma non basta: il punto A2 del Piano diabolico, capoverso quinto, intendeva «sopprimere le Province». Coincidenza: anche la riforma costituzionale Renzi-Boschi prevedeva la modifica del titolo V della Costituzione e faceva sparire proprio le Province. Anche Renzi e la Boschi, dunque, pericolosi «piduisti». O magari «piduisti» a metà, visto che oggi Italia viva pare si astenga sulla riforma «di Licio Gelli».
Insomma, ad applicare i nuovi sillogismi aristotelici dei moderni antipiduisti, oggi «piduisti» saremmo un po’ tutti, perfino i compagni degli attuali antipiduisti. Perfino tutti i Csm dal 2006 a oggi, visto che il punto A1 capoverso quinto del Piano diabolico prevedeva una «riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati», cioè esattamente i criteri introdotti dalla riforma Mastella. E immaginiamo, infatti, che anche gli attuali dirigenti giudiziari tali siano diventati per merito - appunto - e non per tessera.
Non siamo fautori di questo nuovo modello cartesiano, sicché non c’è alcun rischio che arriviamo a conclusioni che, a parti rovesciate, sarebbero profondamente ingiuste prima ancora che sgradevoli anche per gli stessi antipiduisti di oggi, dei quali non saremo certo noi a mettere in discussione i meriti.
Però riconosciamo la comodità dialettica del nuovo modello: si scompone il Piano diabolico in tanti pezzettini per poi lanciarne qualcuno alla bisogna contro l’interlocutore che per avventura incroci nei paraggi. Naturalmente, previa oculata scelta, sicché la riduzione delle Province della riforma Renzi è una cosa non piduista. Mentre la separazione di Carlo Nordio è, invece, una cosa moltissimo piduista.
La verità è che una simile procedura dialettica sconta l’insormontabile alterazione dei fatti storici: la P2 non fu condannata per la separazione delle carriere o per l’ abolizione delle Province, ma per i metodi da entrismo trotzkista che utilizzava per colonizzare i luoghi istituzionali: «Una organizzazione che, per le connivenze stabilite in ogni direzione e a ogni livello e per le attività poste in essere, ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico […] tale in sostanza è stata la Loggia P2, e tali sono […] le forme associative di stampo mafioso (Relazione Anselmi, pagina 63, nda)».
Un’organizzazione eversiva e «mafiosa».
Si può usare un parallelo simile per una riforma che ormai unisce un Parlamento normalmente eletto, migliaia di avvocati, tanti magistrati e accademici, milioni di comuni cittadini, approvata anche da Augusto Barbera (insigne giurista progressista), desiderata perfino da un Giuliano Vassalli (autore del Codice di procedura penale in vigore, ndr)?
Siamo tutti piduisti, tutti malfattori, tutti ladri. La verità è che espedienti polemici di questo tipo sono poca cosa. Al correntismo togato, primo responsabile dell’enorme delegittimazione della nostra magistratura e negatore incallito del proprio fallimento, non rimane che un gioco di rimessa basato su argomenti emozionali (la mafia, la P2 et similia). Il guaio è che la spinta emozionale va bene solo in un contesto di consenso diffuso, in cui chi vi ricorre può contare sulla disponibilità collettiva ad accogliere anche la forza degli stimoli e delle suggestioni. Ma se il consenso non c’è affatto, puntare solo sugli argomenti emotivi è un po’ pretenzioso. E dà l’idea di una debolezza di fondo, perché scantonare dal dibattito di merito significa non essere in grado di accettare la sfida della ragione. E, infatti, come volevasi dimostrare, il vertice dell’Anm ha rifiutato il confronto diretto col ministro, ufficialmente - dicitur - per «evitare il rischio che l’Anm appaia come un soggetto politico di opposizione» (Parodi sulla Stampa del 14 novembre, ndr).
Ma ci dobbiamo credere veramente, dopo che proprio lo stesso vertice Anm qualche mese fa aveva organizzato una manifestazione anti riforma inneggiando nientedimeno che all’antifascismo? E dopo che un prestigioso esponente delle correnti egemoni (Nello Rossi, ndr) ha tuonato ancora contro le «suggestioni che verranno profuse a piene mani dalla potente armata dell’informazione di destra» (sull’Unità del 21 novembre)?
Sicché il nemico sarebbe la Destra «suggestionista» contro la magistratura, che dunque sta a «sinistra», visto che si oppone alla informazione «di destra». Peppone e Don Camillo. Mafia, fascismo e piduismo. Lo stragismo ancora no. Il
terrorismo e il cannibalismo arriveranno il mese prossimo. E dopo tutti questi anatemi papali da Medioevo in fiamme, ora l’Anm scopre di «non volere la contrapposizione politica».
Insomma, non sarà contrapposizione, ma di sicuro è confusione. L’obiettivo chiarissimo della riforma Nordio è il correntismo. Ma può essere accettato il confronto su questo punto centrale da chi sul correntismo ci si è seduto sopra per anni? Meglio scappare rubando il pallone e lanciando condanne divine sulla squadra avversaria. E pazienza se oggi si contraddicono le cose che si dicevano ieri e quelle che si diranno domani. Alla fine, fare discorsi sensati non è mica obbligatorio, tanto qualcuno che applaude si trova sempre.
Comunque sia, non facciamoci il sangue amaro. Come diceva Ennio Flaiano: coraggio, i prossimi errori saranno diversi da quelli di prima. E magari, aggiungiamo noi, perfino divertenti.
Giuseppe Bianco, magistrato penale
Ora che la riforma Nordio è passata, c’è grande polemica ed è meglio stemperare un po’ le tensioni, magari parlando di Sanremo. Perché - ci si creda o no - Sanremo è una tappa cruciale nell’analisi critica del correntismo: nell’anno del Signore 2020 qualcuno ricorderà che a presentare il festival era Amadeus. Circondato da bellissime fanciulle, il presentatore ebbe l’ardire di fare ciò che in altri tempi sarebbe stato solo un atto di galanteria o al limite una gaffe: si mise a lodare un po’ maldestramente la bellezza di una valletta. Non l’avesse mai fatto: con riflesso pavloviano una deputata si erse a vindice delle femmine offese e il povero Amadeus fu accusato di mille cose.
Il fatto è però che - con riflesso altrettanto pavloviano - anche una corrente di magistrati, una di quelle più militanti, rispose al grido di dolore con un comunicato ufficiale dal titolo ansiogeno e un po’ faticato: «Promuovere il rispetto della dignità delle donne è un dovere per chi conduce un evento come il Festival di Sanremo. Chi svilisce le donne rende fertile il terreno su cui matura la violenza di genere» (18 gennaio 2020).
Cioè: Amadeus padre morale di tutti gli stupratori. Roba da ergastolo. Altri magistrati si guardarono di sottecchi: cosa c’entra la magistratura con Sanremo Dio solo lo sa.
Ma il punto è proprio questo: Dio lo sapeva perfettamente, e sapeva che quell’episodio, a prima vista insignificante, era solo l’ennesimo campanello di allarme di un processo storico ancora in corso, in cui alcune correnti giudiziarie si muovono ormai non secondo una logica onestamente sindacale, ma come veri e propri partiti politici che - come tutti i partiti - si fanno portatori di un progetto globale di governo. Ed è in nome di questo progetto globale che questi partiti politico-giudiziari si sentono legittimati a sconfinare in materie del tutto estranee ai temi istituzionali della funzione.
Possono occuparsi di Sanremo, della fame nel mondo, ma anche del conflitto arabo-israeliano. Per esempio: se il 3 ottobre scorso alcuni partiti giudiziari hanno aderito ufficialmente a uno sciopero generale «per Gaza» indetto dalla Cgil e da altre sigle sindacali, altri magistrati - sempre delle correnti più militanti - hanno raccolto le firme a favore di una iniziativa della neonata associazione «Giuristi per Gaza», secondo cui in tutti i tribunali del Regno, prima di ogni udienza, i giudici dovrebbero leggere ogni giorno un comunicato che solleciti il rispetto delle pronunce della Corte penale internazionale, con chiara allusione al mandato d’arresto emesso dalla camera preliminare della Corte a carico del premier israeliano, Benjamin Netanyahu.
Secondo questo neo correntismo lottatorio il fatto che i giudici - non in quanto cittadini, ma proprio in quanto giudici - esprimano una aperta scelta di campo in questioni di politica internazionale dove sono in corso difficilissimi negoziati non rappresenta affatto una uscita dal seminato, mentre diventa irrilevante il fatto che dopo un proclama del genere un imputato israeliano potrebbe anche sentirsi a disagio e poco garantito davanti a quel giudice che lo avesse letto.
Pazienza. Ma è davvero così normale utilizzare le aule di tribunale come un pulpito da cui lanciare proclami di politica internazionale? Se questa è libertà di parola, ci sarebbe - banalmente parlando - tempo e luogo anche per la libertà di parola.
Altro tema connesso: restando in ambito di Corte penale internazionale, due avvocati francesi hanno deciso di denunciare ben 120 politici di tutti i governi europei presenti e passati per crimini contro l’umanità a danno dei clandestini. La tesi di base - par di capire - è che ogni tentativo di regolamentare i flussi migratori sarebbe niente di meno che un delitto contro l’umanità, e ciò perché quello di superare i confini - legalmente o no - sarebbe addirittura un diritto umano.
Sicché si profila una specie di arci-super-maxiprocesso contro politici di qualunque partito e di qualunque nazione, messi alla sbarra della Cpi come mafiosi. E non basta: ci sarebbe poi un altro super processo all’orizzonte: quello a carico di tutto il governo italiano (premier in testa), denunciato anch’esso alla Cpi da altre associazioni per presunta complicità nei fatti di Gaza.
Insomma: è notte fonda. Ma proviamo a leggere le stelle.
1Prima riflessione: in Italia sono nati veri e propri partiti giudiziari con progetti universalistici che contendono il posto a quelli tradizionali. A differenza degli altri, che hanno l’investitura elettiva di milioni di famiglie, questi hanno una investitura circoscritta al piccolo ambito di categoria (qualche migliaio di voti su di un bacino elettorale di non più di 10.000 anime). Ma, a differenza degli altri, sono partiti che - attraverso il sistema dell’autogoverno di cui hanno il perfetto dominio correntizio - possono anche arrivare a influenzare indirettamente la stessa giurisdizione. A differenza ancora degli altri, non hanno alcuna responsabilità politica. Marmificati come sono nell’amministrazione, che l’opinione pubblica sia d’accordo o no con le loro aspirazioni ecumeniche è per loro un dato del tutto irrilevante.
2Seconda riflessione: il fenomeno dei partiti giudiziari italiani si muove all’interno di un globale movimento ipergiurisdizionalista che pretende non di affiancare in termini equilibrati la giurisdizione alla politica elettiva, ma di imporre l’egemonia assoluta della prima sulla seconda. Questa ideologia pangiudiziaria si basa su due presupposti di fondo, che peraltro sono esattamente le pregiudiziali un po’ qualunquiste del globalismo: il primo assioma è che le classi politiche elettive sarebbero per loro natura inette e corrotte; il secondo è che gli Stati nazionali sarebbero intimamente portati alla guerra.
Per ovviare a questi deficit presunti, la soluzione sarebbe quella di imbrigliare tutto lo scibile in un circuito processuale e dare l’ultima parola al tecnicismo giudiziario, perfino sui grandi rebus di politica internazionale, dove forse - più che semplici giureconsulti - servirebbero la finezza e la pazienza tessitrice di un Metternich o di un Cavour.
Il problema è che questa logica, nata con la generosa intenzione di ridurre le tensioni del mondo, si contorce e si ritorce contro sé stessa, perché incarcerando la politica elettiva in una scatoletta processuale al di là di ogni ragionevole punto di equilibrio, le tensioni non le diminuisce ma le aumenta, perché impedisce alla politica di svolgere la sua funzione naturale, che è appunto quella di regolare il conflitto sociale. Ed è esattamente ciò che sta succedendo.
Insomma, un cortocircuito. Alla fine questa dinamica processuale totalizzante - al di là delle generose velleità dei suoi ambasciatori nostrani o internazionali - rischia solo di essere un tremendo buco nero di Calcutta, dove la politica, la diplomazia e la ragione umana vanno a morte per asfissia.
Quanto all’Italia, il correntismo giudiziario di oggi, sempre più monopolio di alcuni veri e propri gruppi-partito, appare completamente impregnato di questa aspirazione universalistica e sempre più calato nella polemica politica mondana, e finisce con il proporre - senza che si renda conto dell’abnormità - la figura del giudice addirittura come guida politica e morale del Paese. Ma siccome il sistema associativo opera ormai su base oligarchica, ecco che alla fin fine il modello proposto non è nemmeno quello dei 10.000 magistrati, ma solo quello dei 50 dirigenti di vertice che controllano il sistema complessivo.
Insomma: anche no, grazie. Almeno su Sanremo, lasciate liberi di decidere 60 milioni di Italiani. E magari - se possibile - anche i 10.000 magistrati.
Sostituto procuratore di Roma
Ad Assisi, in un convegno recente sui temi della giustizia, l’attuale segretario dell’Associazione nazionale magistrati Rocco Maruotti ha detto che un tempo il Parlamento mandava al Csm «personalità di rilievo», mentre oggi consiglieri non li conosce nessuno: altro non sono che avvocati di partito (sintetizzo dal Fatto Quotidiano del 17 settembre). Le personalità del Csm, certificate in blocco come «non di rilievo», se ne sono comprensibilmente adontate. Per giunta, la risposta più dura è involontariamente arrivata proprio da chi ha provato a minimizzare: un consigliere Csm in quota Pd ha paragonato l’episodio a «un ubriaco che ti offende» (ancora sul Fatto). Il giorno dopo tutto il vertice Anm - segretario e presidente - ha provato a metterci una toppa: non sapevo, non volevo, non si ripeterà. Non dubitiamo che le scuse siano sincere. E poi capita a tutti di sbagliare. Il problema però è che gli infortuni cominciano a essere tanti. E non sempre hanno il volto dell’impulsivo segretario dell’Anm. Spesso si nascondono negli interstizi invisibili e nei toni bassi. Passano inosservati, ma emergono al microscopio.
Qualche esempio: l’attuale presidente Anm, non il segretario, in una intervista sulla Stampa del 3 settembre scorso, ci fa sapere che il patto stretto dall’«esecutivo di centrodestra» con i propri elettori «ha impedito l’efficacia di un dialogo sulle modifiche in gioco». «Centrodestra»: dice proprio così, non «governo», come forse sarebbe stato più opportuno parlando di soggetti istituzionali che in quanto tali andrebbero menzionati senza riferimenti ideologici o di partito. Anche questo è un linguaggio che lascia un po’ interdetti, al pari di quella critica al «patto elettorale vincolante»: ma a che serve il voto di massa se non a consacrare appunto un «patto vincolante» fra eletti ed elettori? E perché gli eletti dovrebbero rompere il «patto» con milioni di elettori e stringerne un altro - post voto - con il microsistema associativo?
E poi non c’è solo il linguaggio: in occasione del referendum della Cgil dello scorso giugno, era chiarissimo che lo schieramento politico si stava dividendo proprio sulla scelta astensionista. Ciò malgrado, il solito vertice Anm ha dichiarato candidamente di preferire il voto, e ha finito - si spera involontariamente - per lanciare un sostanziale endorsement a favore di una delle squadre in campo. Come se non bastasse, la stessa Anm ha pensato bene di organizzare una manifestazione anti-riforma Nordio subito a ridosso delle giornate referendarie. L’ idea era più o meno questa: il referendum Cgil passerà a vele spiegate, sull’ onda dell’entusiasmo per la Grande Vittoria organizzeremo anche noi la nostra manifestazione sulla giustizia e faremo un figurone, perché legheremo la lotta dei lavoratori della giustizia a quella di tutti gli altri lavoratori d’Italia in festa.
Calcolo sbagliato: i lavoratori la pensavano all’incontrario. La nuova manifestazione Anm è passata solo come una specie di «coda» della politicissima e partiticissima campagna referendaria Cgil. Fallita la prima e fallita la seconda. Un ulteriore colpo all’ immagine di terzietà dell’intera categoria. Mezze frasi sfuggite, tempi sbagliati. Poi ci sono anche i silenzi: nel 2023 un magistrato della Procura di Padova si trovò a impugnare la registrazione comunale di vari atti di nascita a favore di coppie omosessuali. La cosa innescò la reazione furente di tutta l’area politico-giornalistica pro Lgbt: la Procura padovana fu, a dir poco, assediata: «Atto vergognoso e incivile»; «Omofobia di Stato», «Volontà di discriminare» (sul Gazzettino del 20/6/23, solo per citare il primo giornale a caso). Assalto mediatico asfissiante, ingiusto. E l’Anm? Silenzio assoluto.
Molta ed appassionata invece fu, pochi mesi dopo, la solidarietà dell’Anm con il magistrato Jolanda Apostolico, protagonista indimenticata delle note vicende catanesi, che la risvegliata Anm non esitò a difendere a spada tratta come la vittima di una «campagna di persecuzione mediatica» (La Repubblica, 16/10/23). Dall’indifferenza assoluta per il magistrato di Padova (inviso all’area Lgbt) alla difesa a testuggine di quello di Catania (eletto a eroe dallo schieramento pro immigrazione). Donne entrambe, sia a Padova sia a Catania. In genere basta questo a infiammare Sigfrido nella lotta contro il drago maschilista. Ma a Padova Sigfrido non c’era. E se c’era, dormiva. Errori di comunicazione dell’Anm di ieri e di oggi, probabilmente. Errori non proprio trascurabili, però. Il riferimento al «centrodestra» sfuggito nell’intervista citata all’inizio non è esattamente piccola cosa, perché dire che il dialogo col centrodestra «è più difficile» autorizza la lettura inversa: «Per noi il dialogo con il centrosinistra è più facile».
Mezze frasi e frasi intere, silenzi, urla e comitati vari. Domanda: non è che magari non si tratta affatto di errori di comunicazione, ma di una precisa scelta di campo? Perché i silenzi su Padova e le urla di Catania - e tutto il resto - finiscono col restituire all’opinione pubblica l’immagine di un correntismo che pende pericolosamente sempre dalla stessa parte dello schieramento politico. E le cose non sembrano destinate a cambiare.
La verità è che, a certi livelli, la forma conta anche più del merito. Perché è la forma che garantisce l’equilibrio del dialogo democratico. Il guaio è però che il recupero dell’equilibrio è una missione impossibile, almeno finché l’attuale correntismo si rifiuterà di fare una seria seduta psicoanalitica su sé stesso: dall’ epoca degli scandali del 2019, le burocrazie associative non hanno saputo produrre nessuna idea di autoriforma. E dopo un’inerzia di sei lunghissimi anni, riversare oggi ogni colpa sul governo di «centrodestra» (come ci si è ingenuamente lasciati scappare) è uno scaricabarile troppo palese per sfuggire agli occhi esasperati dell’opinione pubblica.
Questo correntismo che difende le figlie catanesi e abbandona le figliastre padovane, che riconosce un po’ maldestramente di preferire il dialogo con una precisa parte dello schieramento politico, che rifiuta qualsiasi critica, che è incapace di autoriformarsi, che non si accorge dell’enormità di un potere istituzionale terzo e neutrale lanciato a folle corsa nel più grossolano scontro pseudo ideologico ed elettoralistico, sta solo seguendo il cattivo esempio di certi sindacati italiani, caduti prigionieri della loro autoreferenzialità.
Nati per difendere i lavoratori, hanno finito col difendere solo i sindacalisti e col provocare la sconfitta degli uni e, purtroppo, anche degli altri.




