Caro Gianrico Carofiglio, caro scrittore, nonché ex magistrato, nonché ex senatore pd, nonché ospite fisso in tv, nonché premio Strega mancato, nonché Simenon alle cime di rapa, nonché cintura nera di karate e di antipatia, Bruce Lee in salsa chic, già bimbo «sfigato e bullizzato» e poi rissaiolo da strada oltre che da talk, le scrivo questa cartolina perché lei, oltre a tutte queste cose, è anche un esimio maestro della libertà di stampa.
E l’altro giorno, durante Piazzapulita, ha impartito una delle sue imperdibili lectio magistralis. Si è detto certo, infatti, che Giorgia Meloni fosse a conoscenza in anticipo dello scoop della Verità sul consigliere del Quirinale e sull’ormai celebre «provvidenziale scossone». E ha aggiunto che, per questo, il premier doveva ordinarci di cambiare la prima pagina. La riflessione mi sembra talmente acuta che non riesco a definirla. Aspetti che chiamo Palazzo Chigi per farmi dettare l’aggettivo giusto.
Per fortuna c’è lei, Carofiglio, a difendere la vera libertà di stampa, quella per cui il premier ordina cosa pubblicare e cosa no. Mica come quei giornalacci di destra che, pensi un po’, scrivono di testa loro, senza manco farsi vidimare le pagine dalla presidenza del Consiglio. Ma come si permettono? Come si permette Maurizio Belpietro di pubblicare una notizia senza prima consultarsi con l’Agenzia Stefani-Fazzolari? E come si permette Giorgia Meloni di lasciare che si stampino prime pagine senza il suo consenso? Ma non la conoscono la libertà di stampa modello Carofiglio? Credere, obbedire, titolare. E chi non s’adegua, un colpo di karate, sinceramente democratico, in mezzo agli occhi.
Nato a Bari, 64 anni, amico di Michele Emiliano, come lui pm a Bari, poi senatore del Pd fra il 2008 e il 2013, quindi solo scrittore, autore di 19 romanzi, oltre a saggi, racconti e sceneggiature, lei ha raccontato di aver cominciato a menare gli altri a 16 anni quando fece nero un compagno di scuola. Poi si è ripetuto più volte in strada, stendendo i malcapitati con destri feroci, manco fosse Vittorio Feltri. Cintura nera, sesto dan. Si vanta: «Bisogna saper dare un pugno». In effetti lei è un maestro, anche se ora più che in strada preferisce picchiare (verbalmente) nei salotti tv. Chi la contraddice finisce male, com’è naturale che sia per un amante delle libertà come lei: qualche anno fa ha querelato un blogger che aveva osato criticare un suo libro («scritto con i piedi»). Agli avvocati che, in un dibattito a Torino, difendevano la separazione delle carriere, ha dato dei «maiali». Era una citazione di Shaw, certo. Ma anche il suo solito show.
Figlio di scrittrice, fratello di scrittore, roso dall’invidia (lo ha confessato lei stesso) durante il Covid si è distinto come ultras dei lockdown, del green pass e dei vaccini: ha fatto cinque dosi, si è iniettato di tutto, proponendosi come volontario per qualsiasi sostanza, e ha insultato chi rifiutava il magico siero («parassiti»). Due i grandi crucci della vita: la bocciatura al Csm nel lontano 1998 e non aver mai vinto il premio Strega, che ritiene di meritare per definizione. In effetti: non si capisce perché sia sempre stato negato a uno bravo come lei. Non sarà che anche i vincitori dello Strega, come i titoli di giornale, li decide Giorgia Meloni?
Cara Laura Boldrini, questa che le scrivo non è una cartolina: è una resa. Alzo bandiera bianca: ha vinto lei. Quando ho visto il centrodestra votare compatto il «consenso libero e attuale», legge nata da una proposta di cui lei è stata prima firmataria, ho capito che non abbiamo più speranza: altro che fascismo, qui siamo al boldrinismo. Siamo, cioè, al regime del follemente corretto, al manganello femminista, all’olio di ricino se non ora quando. Siamo di fronte alla marcia su Roma in salsa rosa, anzi rossetto, rossetto&littorio. E lei, cara Boldrini, di questa rivoluzione è la grande guida. L’unico duce. Anzi, pardon, l’unica duca. Boldrinisti, a noi.
La Camera dei deputati (che da oggi, anno I dell’era boldriniana, viene ribattezzata Camera delle deputatesse) ha approvato all’unanimità una norma straordinaria: in pratica, ogni volta che si farà un atto sessuale, bisognerà essere in grado di dimostrare che si aveva il consenso del partner. L’onere della prova viene ribaltato: non è più chi denuncia a dover dimostrare di essere stato violentato, ma chi è denunciato a dover dimostrare la sua innocenza. E come farà? Ci vorrà una carta bollata per ogni abbraccio? Un atto notarile per ogni bacio? Lei s’immagini, cara Boldrini, una coppia che litiga: lui la lascia e lei va in tribunale a dire che si ricorda benissimo che una volta, il 24 settembre 2024, avevano fatto sesso senza il suo consenso «libero e attuale». «Ora tu devi dimostrare il contrario». E come faccio? Lei ha vinto, cara duca, perché è stata geniale: credere, obbedire e soccombere. Ma, soprattutto, mai trombare.
Marchigiana, originaria di una famiglia cattolica, una giovinezza spesa a inseguire i miti dell’America Latina, indios, sandinisti e revolucion, lei è passata poi alla Fao e quindi all’Alto commissariato per i rifugiati, e di qui direttamente alla politica. Eletta con Sel nel 2013, è diventata presidente della Camera, poi nel 2019 è passata al Pd. Memorabili le sue battaglie contro il sessismo linguistico («Chiamatemi la presidenta»), contro le Barbie e le pentoline giocattolo, contro le modelle in Tv, contro con le donne in cucina nelle pubblicità, e a favore dei migranti, pardon «risorse» definite «l’avanguardia del nostro stile di vita». Ogni tanto le è capitato qualche scivolone come quando disse che le donne rappresentano il 50 per cento della popolazione femminile o come quando fu accusata di maltrattamenti dalla sua ex colf moldava. Ma ovviamente, noi boldrinisti della prima ora, ce ne freghiamo.
Ora qui, davanti a lei con il dovuto rispetto, cara Boldrini, ci prepariamo ai prossimi passi della rivoluzione boldrinista: l’abolizione per legge delle Barbie, la bonifica della palude linguistica con imposizione del dizionario femminista, e la nuova battaglia del grano, che consisterà nel togliere il grano agli italiani per darlo agli stranieri, adeguandoci così al loro stile di vita. L’anno I dell’era Boldrini è cominciato, e i balilla esultano abbracciandosi l’un l’altro, ma solo dopo aver firmato il consenso libero e informato. Ci resta solo un dubbio, cara Laura: potrebbe chiedere al centrodestra che ci sta a fare al governo?
Il premio Furbitzer per il giornalista più sagace del Paese va senza dubbio a Massimiliano Scafi del Giornale. Da vecchio cronista qual è, infatti, lui ci ha tenuto subito a far sapere che quella «storia», cioè la notizia delle esternazioni del consigliere del Quirinale Francesco Saverio Garofani, lui ce l’aveva. Eccome. Gli era arrivata in redazione il giorno prima, nientemeno, e con un testo firmato Mario Rossi, nota formula usata dai più sagaci 007 del mondo quando vogliono nascondersi. C’era tutto. Proprio tutto.
Soprattutto c’erano le frasi di Garofani ascoltate «di straforo» durante «un incontro conviviale in un luogo pubblico». Ma lui non ha indagato. Non ha approfondito. Ha buttato tutto. Che ci volete fare, ragazzi, quando uno è bravo è bravo, niente da dire, certe cose le intuisce al volo. Scafi lo scafato, giornalista dall’intuito sopraffino, ha subito capito che non si trattava di una notizia ma per l’appunto di una «storia», anzi una «polpetta avvelenata», di più: una «trappola». E per questo ha cestinato il foglio di Mario Rossi con grande soddisfazione. E la soddisfazione forse sarebbe anche rimasta tale se il giorno dopo, andando in edicola, il nostro cronista geniale non avesse scoperto che quella che lui ha cestinato non era una «storia», non era una «polpetta avvelenata» e nemmeno «una trappola». Era proprio una notizia, confermata non da Mario Rossi (chiunque esso sia). Ma dallo stesso Garofani.
La rassegna stampa del giorno dopo (il giorno dopo allo scoop della Verità, s’intende) è uno spasso. Perché mentre a pagina tre del Corriere c’è l’intervista al consigliere di Mattarella che candidamente conferma la notizia pubblicata dal nostro giornale («Era una chiacchierata in libertà tra amici», ha provato a giustificarsi Garofani, senza riuscirci) dall’altra c’è l’intera (o quasi) schiera dei giornali italiani che quella notizia s’affanna a nasconderla, sminuirla, smentirla, ridurla a «fango», «attacco», «attacco violento», «attacco ingiustificabile», «allusione ingiustificabile», «macchinazione», «intimidazione», «provocazione». La nota allergia della stampa italiana nei confronti delle notizie evidentemente ha lasciato il segno. «Ovviamente non esiste nulla», scrive per esempio Flavia Perina sulla Stampa. Nulla, chiaro, a parte la conferma del fatto. «Quel confine superato», s’intitola invece l’editoriale in prima pagina di Repubblica. E in effetti, lo ammettiamo, abbiamo superato un limite insuperabile per molti giornali italiani. Quello tra una notizia e la sua pubblicazione. Ogni tanto ci capita. Chiediamo scusa.
Noi, comunque, siamo vicini ai colleghi in questo momento difficile. Perché immaginiamo, dopo tutto l’impegno messo nel picconare la notizia, il loro sconforto ieri mattina nel trovare lì, proprio sul Corriere della Sera, il protagonista che quella notizia invece la conferma papale papale. Se fossimo in Garofani, a questo punto, cominceremmo ad avere paura. Ma non tanto dell’ira di Mattarella, macché. Dell’ira dei giornalisti italiani. Me li immagino, infatti, infuriati come bisce: ma come, penseranno, noi ce l’abbiamo messa tutta per dire che era una «polpetta avvelenata», una «trappola», abbiamo dato fondo alle scorte di condizionali, virgolette, «presunti qui» e «presunti là», e tu vai a rovinarci tutto con quella tua ammissione? Daniela Preziosi sul Domani dopo aver sparso un po’ di dubbi sulla conversazione riportata dal nostro giornale («l’interlocutore non viene nominato», nota con grande acume), ci fa sapere che la notizia era così irrilevante che «nella rassegna quotidiana del Quirinale gli articoli della Verità non c’erano». Quando si dice un lavoro fatto bene, eh? Immaginiamo che anche l’autore della rassegna stampa del Quirinale sia un genio della notizia. Caso mai ci fosse bisogno di sostituire Scafi, al Giornale sanno già chi cercare.
L’unica eccezione, va detta a onore del vero, è stata quella di Marco Travaglio che fin dalla sera prima a Otto e mezzo (lasciando senza parole Lilli Gruber) e poi ieri mattina sul Fatto Quotidiano, ha riconosciuto la notizia e ha scritto quello che c’era da scrivere: «Garofani ha solo due strade: o smentisce, sperando di non essere sbugiardato da testimoni o registrazioni; o si dimette». Ragionamento piuttosto lineare, che però sfugge al resto dei colleghi. I quali preferiscono (La Stampa, pagina 2) inventare che La Verità «presenta il Colle come luogo di malaffare» (ma quando mai?), arrivando a tirare in ballo l’omicidio del fratello di Mattarella da parte della mafia (ma che c’entra?). Oppure preferiscono correre dietro all’ipotesi sempre affascinante del complotto russo. Ha stato Putin, chiaro. Lo confermano colleghi assai informati: «Certi giochi scandalistici rendono felice un nemico alle porte», scrive per esempio Flavia Perina; «Maria Zakharova ne sarà soddisfatta», conferma Ugo Magri. Mentre Annalisa Cuzzocrea su Repubblica, scrive una lunga ricostruzione dei fatti, per arrivare alla domanda fondamentale di tutta questa vicenda: «Meloni sta con l’Ucraina o è pronta a cedere alla visione di Salvini e Orbán?». Ecco una che ha centrato davvero il problema.
Purtroppo noi non abbiamo un cervello così fino come Cuzzocrea, siamo ragazzi ingenui di campagna. E ci sembrava che la domanda da fare fosse più semplice, senza scomodare l’Ucraina o Orbán. E cioè: il consigliere di Mattarella quelle parole le ha dette oppure no? Risposta ufficiale: sì, le ha dette. E allora ci si potrebbe porre altre domande. Per esempio: è opportuno che il consigliere di Mattarella faccia «chiacchiere in libertà» su temi politici e istituzionali mentre mangia pesce ed evidentemente beve in abbondanza davanti a tante gente? E poi: chi è che mette davvero in difficoltà il Quirinale: chi si comporta così o chi lo fa notare? E qual è il compito dei giornali: quello di dare notizie che si rivelano vere o di cestinarle per non dare fastidio a chi sta nei palazzi? Potremmo proporre il tema per il prossimo corso di scuola di giornalismo. La lectio magistralis, ovviamente, la farà Massimiliano Scafi.





