Caro Mimmo Lucano, caro sindaco di Riace nonché eurodeputato, le scrivo questa cartolina per esprimerle la mia solidarietà: non capisco perché le abbiano negato il permesso di gemellarsi con Gaza. Ha ragione lei: si tratta di una «persecuzione contro un Comune guidato da un antifascista». Lei vuole appellarsi al presidente Mattarella. Ma non basta. Dovrebbe appellarsi all’Onu, alla Corte di Strasburgo o forse meglio a quella dell’Aja, perché negare il gemellaggio tra Riace e Gaza si configura come un vero crimine di guerra.
Anche perché, ne siamo tutti consapevoli, una volta siglato il gemellaggio con Riace per la popolazione di Gaza cambierebbe tutto. Basta dolore, basta strazio. Con Riace comincerebbe finalmente l’era della felicità. E se basta così poco, perché il governo glielo impedisce? Le motivazioni ufficiali dicono che lei, così, rischia di gemellarsi con i terroristi di Hamas e che questo gesto arreca pregiudizio alla politica estera italiana. Ma è chiaro che si tratta di una scusa per bloccare «un Comune guidato da un antifascista». Noi che la conosciamo bene sappiamo quanto lei ci tenga alle istituzioni e al rispetto delle leggi, ce lo ricordiamo da quando leggemmo le intercettazioni in cui diceva: «Io odio lo Stato italiano»; e poi ancora: «Io vado contro la legge»; e poi ancora: «Sono un fuorilegge, io». Come diavolo si fa a non fidarsi di uno che parla così? Fossimo nel governo non solo le autorizzeremmo il gemellaggio con Gaza. Ma le chiederemmo di gemellare Riace anche con Kiev, col Donbass, con il Venezuela, la Nigeria e anche con la Groenlandia (a scopo preventivo). Così finalmente finiranno tutte le guerre. Altro che papa Leone XIV. Papa Mimmo I da Riace. Il profeta della pace.
Qualcuno potrebbe pensare che lei fa tutto ciò, sfruttando pure le sofferenze di Gaza, solo per un po’ di visibilità. Ma noi che la conosciamo sappiamo che non è così. Originario di Melito di Porto Salvo, 67 anni, perito chimico e medico mancato, ha svolto per anni la professione di insegnante in Piemonte, fino a quando ha sentito forte il richiamo della sua terra. Tornato a Riace ha trasformato il paese nell’esempio di quello che dovrebbe essere l’Italia secondo quelli come lei: su 1.800 abitanti, 450 immigrati. Per favorire i quali, da sindaco, ha calpestato qualche legge (18 anni di condanna in Cassazione per truffa) e arrecato un sostanzioso danno all’erario. Del resto il suo motto è chiaro: io odio lo Stato italiano. E amo i clandestini.
E così che le si è spalancata davanti una carriera meravigliosa. Idolo della sinistra accogliona (copyright Capezzone), celebrato nel Paese, insignito della cittadinanza onoraria qua e là e infine eletto eurodeputato nel giugno 2024. Celebre il suo esordio a Bruxelles in tenuta strettamente istituzionale: maglietta blu elettrico con colletto bianco. Del resto, se uno per principio disattende le regole, potrà mica osservare proprio le regole del dress code? Perciò, in attesa del via libera al gemellaggio con Gaza, le suggeriamo il gemellaggio con Soumahoro che entrò in Parlamento con gli stivali e ora cerca una candidatura a destra. C’è chi soffre e chi s’offre, si capisce. Ma insieme fareste una coppia splendida: i nuovi bronzi di Riace. La vostra faccia è già del materiale giusto.
A volte senti parlare il ministro Giuli e ti chiedi che diavolo voglia dire. A volte, invece, purtroppo lo capisci benissimo. Ieri per esempio ha pensato bene di rispondere a un educatamente critico articolo di Marcello Veneziani sulla destra al governo prendendosela con la «pelle esausta» del medesimo Veneziani, con la sua «bile nera», il suo «animo ricolmo di cieco rimpianto», proponendo per l’intellettuale di destra, colpevole di aver disertato dalla leva dei leccaculisti, addirittura una terapia obbligatoria a base di «vaccino anti-nemichettista» che egli stesso, il ministro, si propone di «inoculare volentieri». Credere, obbedire e purgare, si capisce: la destra meloniana avanza spedita verso la deriva dei folli, anzi dei folletti. Giuli e giulivi.
Il dio Pan, evidentemente, acceca la mente di chi vuol perdere. L’articolo pubblicato domenica sulla Verità da Veneziani era una riflessione pacata e onesta: «Da quando è al governo la destra», ha scritto, «non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di cittadini, di contribuenti e anche in qualità di intellettuali, di patrioti e di uomini di destra. Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare». Seguiva un esame della realtà, forse spietato, ma certo lucidissimo, in cui accanto agli inevitabili riconoscimenti al lavoro svolto dalla premier Giorgia Meloni («ha governato con abilità, astuzia, prudenza e con una verve passionale che suscitano simpatia. Si è affermata a livello interno e internazionale»), Veneziani avanzava dubbi sul resto: «Solo vaghi annunci, tanta fuffa, piccole affermazioni simboliche», mentre «nulla di significativo e sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno». Persino in Rai «ancora Vespa, Benigni e Sanremo». Niente di nuovo, insomma. «Da nessuna parte».
Di fronte a un’analisi di questo tipo si può essere d’accordo o no, chiaro. Ma se si è ministri della Repubblica, saliti al potere per altro in nome della lotta al conformismo e al pensiero unico, se si è ministri di un governo che ogni giorno si dichiara a favore del libero confronto e del rispetto dell’opinione altrui, una sola cosa si deve fare: ringraziare per il contributo critico e impegnarsi a fare meglio. Invece, no. Giuli no. Lui, ministro, decide di attaccare un opinionista di un giornale colpevole soltanto di non avergli leccato gli stivali con cui marciava al passo dell’oca. E non solo lo attacca (cosa già di per sé sbagliata), ma lo attacca pure nel modo più volgare possibile, parlando di «pelle esausta» e di «bile nera», e accusandolo di un «cieco rimpianto» perché – sostiene Giuli – Marcello Veneziani avrebbe a suo tempo rifiutato l’incarico di ministro della Cultura. Cosa che, se fosse vera, potrebbe suscitare rimpianto solo nel Paese, visto chi ricopre adesso quella poltrona. E come si è ridotto.
Non basta evidentemente tatuarsi un’aquila sul petto per dimostrare di saper volare alto. E non basta parlare di «apocalittismo difensivo» e «infosfera globale» per sembrare intelligenti. Tanto meno per esserlo. Adesso Giuli va tutto fiero del nuovo ritornello governativo, la nuova parola d’ordine dei gerarchi ottusi, e se la prende con il «nemichettismo»: per Veneziani ci vuole addirittura un premio «honoris causa» - dice il ministro - ma in fondo del «nemichettismo» è vittima tutta la «presunta destra», colpevole di non inchinarsi a baciare la pantofola e di pretendere ancora (ma come si permettono?) di pensare con la propria testa, anziché «incoraggiare» senza se e senza ma lo straordinario lavoro del medesimo ministro Giuli e di tutti i suoi eccellentissimi colleghi. A chi i leccaculo? A noi. Anche questo, in fondo, è un segnale del decadimento della destra al potere: in attesa dell’oro alla patria, si accontentano della saliva.
Una volta avrebbero detto: tanto nemichettismo, tanto onore. Adesso invece si spaventano anche delle più pacate critiche, dimostrando così che il vero nemichettismo è quello che regna tra loro e la realtà. Ci devono aver bisticciato quando sono entrati nei palazzi, perché da allora hanno perso il senso della misura. L’adoratore del dio Pan e della dea Dia, già suonatore di flauti pagani, seguace dei fauni e sospettoso nei confronti del cristianesimo (prima di diventare direttore del cristianissimo Tempi, si capisce), gran cultore dei lupi, dandy di destra amato dai salotti di sinistra, capace di definire «mammolette» i militanti del Fronte della Gioventù e allo stesso tempo di conquistare Lilli Gruber, lui, Alessandro Giuli, forse dimentica di essere diventato ministro solo in virtù di una Boccia, nel senso di Maria Rosaria, che ha tolto di mezzo Gennaro Sangiuliano. E di esserlo diventato dopo aver seminato disastri al museo Maxxi (meno 30 per cento nei biglietti venduti, meno 44 per cento nelle sponsorizzazioni, un convegno con Morgan e Sgarbi finito in caciara e inevitabili scuse…). Se il potere non gli avesse dato alla testa più del dio Pan, verso un intellettuale vero come Veneziani, Giuli mostrerebbe solo rispetto. Lo ringrazierebbe e lo inviterebbe a prendere un caffè per cercare di capire come migliorare. Altro che «pelle esausta».
Anche perché da migliorare al ministero della Cultura c’è molto. Da quando è arrivato lui, il nemichettista di sé stesso, s’è distinto per: a) una laurea in filosofia presa in tutta fretta per cercare di mascherare le lacune del curriculum più ricco di druidi e tori in calore che di tutto il resto; b) una clamorosa gaffe in Parlamento con la trasformazione di Spoleto in provincia (a proposito di cultura); c) l’approvazione alla censura del baritono russo Ildar Abdrazakov che doveva esibirsi a Verona e che è stato silenziato tra gli applausi dei veri democratici come Pina Picierno e Alessandro Giuli, per l’appunto; d) l’invito tafazziano al ministero dell’Economia ad aumentare i tagli alla cultura, salvo poi cercare di mascherare il tutto facendo passare come nuovi finanziamenti soldi già stanziati, roba che al confronto il gioco delle tre carte è un’operazione di rara limpidezza. In tutto il resto, per dirla con Veneziani, al ministero della Cultura «non è cambiato nulla». E forse avrò anche io la «pelle esausta», ma continuo a sperare, per la stima che ho in lei, che sia più esausta la Meloni di aver accanto persone come Giuli.
Caro Stefano Lo Russo, caro sindaco di Torino, le scrivo questa cartolina per farle i complimenti: lei gli amici non li molla. E se gli amici sono dei teppisti delinquenti, che importa? La coerenza prima di tutto. «Il Patto con Askatasuna non si tocca», aveva detto subito dopo il loro assalto alla Stampa. «Il Patto con Askatasuna va avanti», ripete ora. Ha solo avuto un momento di debolezza nel momento dello sgombero, proprio mentre le forze dell’ordine entravano nel palazzo occupato trovando palesi violazioni degli accordi. «Il Patto è finito», ha detto allora sconsolato.
Ma è stato solo un momento. Sono bastate poche ore di riflessione, e qualche tirata d’orecchie dei suoi alleati della sinistra radicale, per tornare sui suoi passi: «Il Patto non è finito», ha ribadito infatti l’altro giorno con voltafaccia immediato. Si capisce, caro sindaco: vorrà mica abbandonare i violenti solo perché sono violenti? Ci dorma su ancora un paio di notti e vedrà che le verrà qualche altra proposta brillante. Magari Askatasuna Nobel per la pace. E i suoi militanti educatori alla scuola d’infanzia.
con Askatasuna va avanti», ripete ora. Ha solo avuto un momento di debolezza nel momento dello sgombero, proprio mentre le forze dell’ordine entravano nel palazzo occupato trovando palesi violazioni degli accordi. «Il Patto è finito», ha detto allora sconsolato. Ma è stato solo un momento. Sono bastate poche ore di riflessione, e qualche tirata d’orecchie dei suoi alleati della sinistra radicale, per tornare sui suoi passi: «Il Patto non è finito», ha ribadito infatti l’altro giorno con voltafaccia immediato. Si capisce, caro sindaco: vorrà mica abbandonare i violenti solo perché sono violenti? Ci dorma su ancora un paio di notti e vedrà che le verrà qualche altra proposta brillante. Magari Askatasuna Nobel per la pace. E i suoi militanti educatori alla scuola d’infanzia.
Qualcuno ha osato darle dell’illuso: ma come si permettono? Solo perché ha fatto diventare «bene comune» un palazzo occupato dove si organizzavano attentati violenti in mezza Italia? Solo perché ripete che «Askatasuna è un luogo di inclusione», nonostante quest’«inclusione» stia mettendo a ferro e fuoco la città? Solo perché crede al «principio di coesione» anche quando la coesione va in frantumi insieme con le vetrine e le teste dei poliziotti? Vada avanti, sindaco, noi siamo orgogliosi di lei. E le suggeriamo di estendere il metodo del dialogo anche con altre fattispecie di delinquenti: perché, per dire, non credere nella «coesione» con stupratori o pedofili? Perché non chiudere un occhio anche sui loro crimini, in nome dell’«inclusione»? Torino, si sa, è una città magica. Tutto può succedere: anche vedere gli elefanti che volano, lei che diventa sindaco e Askatasuna che diventa «bene comune».
Torinese, 50 anni compiuti a ottobre, laureato in geologia con dottorato in geologia ambientale e specializzazione nello studio della caduta dei massi (sarà per questo che non la spaventano i sassi lanciati dagli antagonisti), lei, caro sindaco, è entrato in politica nel 2003, prima nella Margherita, poi nel Pd, consigliere comunale dal 2006, assessore all’urbanistica con Fassino, quindi sindaco nel 2021 dopo aver vinto (per 297 voti) le primarie meno frequentate della storia e poi (per un soffio) le elezioni comunali con il più alto tasso d’astensionismo della storia. Diciamo che lei è per i votanti quello che l’Autan è per le zanzare.
In compenso da quando è sindaco la città di Torino è precipitata al 57° posto per qualità della vita (2025) perdendo 26 posizioni in quattro anni, e facendosi notare per l’arrivo dei cinghiali a Mirafiori, i blackout di corrente elettrica e il disastro dei trasporti. Anche sul fronte della sicurezza Torino è messa male, ma lei ha sempre detto no al taser. Invece se l’è presa con i proprietari di case, proponendo di requisire gli appartamenti sfitti da due anni. Al che mi viene un dubbio: non è che vuole dare anche quelli ad Askatasuna? Sarebbe un’idea geniale e dimostrerebbe che lei per gli amici è disposto a tutto, ma proprio a tutto. Anche a perdere la faccia. E la poltrona.





