Cari giornalisti di Repubblica, vi scrivo questa cartolina dopo aver letto il comunicato del vostro cdr (comitato di redazione): siccome fate appello «a tutte le forze sociali, politiche, sindacali e istituzionali», vorrei sapere se posso rispondere anch’io all’appello gridando «presente!» senza essere accusato di fascismo dal vostro Paolo Berizzi. Lo so che la mia solidarietà vale poco, perché di fronte a un attacco alle «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese», come denunciate, di fronte a una vendita che non è solo una vendita ma un atto che mette a rischio «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico», non dovrebbero mobilitarsi solo i poveri cronisti, come il sottoscritto. Dovrebbero mobilitarsi, come minimo, l’Onu, i Caschi blu, le forze intergalattiche, il consiglio di Uranio e Saturno e naturalmente San Pietro con gli arcangeli tutti. A proposito: com’è che non vi hanno ancora espresso solidarietà?
Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
Caro Gianfranco Fini, le scrivo questa cartolina per festeggiare un avvenimento importante: il suo ritorno ad Atreju, la grande festa nazionale del mainstream meloniano. L’altro giorno quando ho letto sulla Stampa che lei si «è commosso per l’invito» perché viene da «giovani che vogliono capire il passato», mi sono commosso per la sua commozione.
«C’è una continuità in una comunità che si percepisce tale», ha chiosato con quel suo tono da vergine sapientina che è tornato ad esibire pure nelle sortite in tv. Poi ha aggiunto: «Il tempo è sempre galantuomo». E come darle torto? Il tempo è galantuomo. Infatti non lo si può svendere come fosse una casa a Montecarlo.
Ad Atreju lei sarà protagonista di un duello amarcord con Francesco Rutelli, una riedizione del confronto per le comunali di Roma del 1993, che, a suo dire, segnò la fine del «lungo dopoguerra» e l’inizio di «una destra con cultura di governo». Insomma, uno dei momenti più importanti per l’umanità dopo la scoperta del fuoco. Comunque, ci si creda o no, sarà bello vedervi sul ring come due anziani pugili che ricordano quando ancora riuscivano a saltare la corda e non avevano la testa suonata dai troppi knockout. Uno spettacolo imperdibile in una kermesse che fra Mara Venier e Luigi Di Maio, Gianluigi Buffon e Raoul Bova, Giuseppe Conte e Ezio Greggio, promette ricchi premi e cotillons per tutti. Figuriamoci se poteva mancare il siparietto delle vecchie glorie. Glorie, si fa per dire, ovviamente.
Comunque è giusto che i ragazzi giovani la conoscano. Gianfranco Fini, bolognese, 73 anni, già uomo di fiducia di Giorgio Almirante e poi di Giorgio Napolitano (un Giorgio vale l’altro evidentemente), prima segretario del Fronte della Gioventù, poi leader del Msi, poi fondatore e affondatore di Alleanza nazionale, alla fine decise di staccarsi dalla sua storia per fondare Futuro e Libertà, un partito senza futuro e con la libertà un po’ condizionata dai suoi procedimenti giudiziari, relativi alla casa di Montecarlo, una proprietà del partito finita a prezzi di favore nelle mani del cognato. Per quella vicenda s’è beccato una condanna per concorso in riciclaggio. Trent’anni parlamentare, europarlamentare, già ministro degli Esteri, vicepremier e presidente della Camera, ora s’atteggia a nuovo guru della destra. Evidentemente deve averci preso gusto: dopo aver riciclato i soldi, tenta di riciclare sé stesso.
«La destra è un albero che ha radici profonde», dice ancora, ispirato e commosso nel celebrare il suo ritorno ad Atreju. E chi se ne importa se quelle radici lei ha fatto di tutto per reciderle strizzando l’occhio ai salotti chic, cedendo sui temi etici, su quelli dell’immigrazione, spingendo per lo ius soli, appoggiando Monti, vagheggiando «la grande lista civica nazionale», inciuciando con Napolitano, tramando contro il centrodestra e svendendo un pezzo di patrimonio del partito per arricchire la famiglia della sua compagna Elisabetta Tulliani, una specie di Boccia che ce l’ha fatta. Che importa? Tutto questo sul palco di Atreju verrà dimenticato: lo show può iniziare, e lei potrà pavoneggiarsi come Buffalo Bill al circo Barnum senza che nessuno abbia il coraggio di dirle la verità. Che in realtà sta già scritta nel suo nome: c’era una volta Gianfranco. Poi Finì.
Caro Gianrico Carofiglio, caro scrittore, nonché ex magistrato, nonché ex senatore pd, nonché ospite fisso in tv, nonché premio Strega mancato, nonché Simenon alle cime di rapa, nonché cintura nera di karate e di antipatia, Bruce Lee in salsa chic, già bimbo «sfigato e bullizzato» e poi rissaiolo da strada oltre che da talk, le scrivo questa cartolina perché lei, oltre a tutte queste cose, è anche un esimio maestro della libertà di stampa.
E l’altro giorno, durante Piazzapulita, ha impartito una delle sue imperdibili lectio magistralis. Si è detto certo, infatti, che Giorgia Meloni fosse a conoscenza in anticipo dello scoop della Verità sul consigliere del Quirinale e sull’ormai celebre «provvidenziale scossone». E ha aggiunto che, per questo, il premier doveva ordinarci di cambiare la prima pagina. La riflessione mi sembra talmente acuta che non riesco a definirla. Aspetti che chiamo Palazzo Chigi per farmi dettare l’aggettivo giusto.
Per fortuna c’è lei, Carofiglio, a difendere la vera libertà di stampa, quella per cui il premier ordina cosa pubblicare e cosa no. Mica come quei giornalacci di destra che, pensi un po’, scrivono di testa loro, senza manco farsi vidimare le pagine dalla presidenza del Consiglio. Ma come si permettono? Come si permette Maurizio Belpietro di pubblicare una notizia senza prima consultarsi con l’Agenzia Stefani-Fazzolari? E come si permette Giorgia Meloni di lasciare che si stampino prime pagine senza il suo consenso? Ma non la conoscono la libertà di stampa modello Carofiglio? Credere, obbedire, titolare. E chi non s’adegua, un colpo di karate, sinceramente democratico, in mezzo agli occhi.
Nato a Bari, 64 anni, amico di Michele Emiliano, come lui pm a Bari, poi senatore del Pd fra il 2008 e il 2013, quindi solo scrittore, autore di 19 romanzi, oltre a saggi, racconti e sceneggiature, lei ha raccontato di aver cominciato a menare gli altri a 16 anni quando fece nero un compagno di scuola. Poi si è ripetuto più volte in strada, stendendo i malcapitati con destri feroci, manco fosse Vittorio Feltri. Cintura nera, sesto dan. Si vanta: «Bisogna saper dare un pugno». In effetti lei è un maestro, anche se ora più che in strada preferisce picchiare (verbalmente) nei salotti tv. Chi la contraddice finisce male, com’è naturale che sia per un amante delle libertà come lei: qualche anno fa ha querelato un blogger che aveva osato criticare un suo libro («scritto con i piedi»). Agli avvocati che, in un dibattito a Torino, difendevano la separazione delle carriere, ha dato dei «maiali». Era una citazione di Shaw, certo. Ma anche il suo solito show.
Figlio di scrittrice, fratello di scrittore, roso dall’invidia (lo ha confessato lei stesso) durante il Covid si è distinto come ultras dei lockdown, del green pass e dei vaccini: ha fatto cinque dosi, si è iniettato di tutto, proponendosi come volontario per qualsiasi sostanza, e ha insultato chi rifiutava il magico siero («parassiti»). Due i grandi crucci della vita: la bocciatura al Csm nel lontano 1998 e non aver mai vinto il premio Strega, che ritiene di meritare per definizione. In effetti: non si capisce perché sia sempre stato negato a uno bravo come lei. Non sarà che anche i vincitori dello Strega, come i titoli di giornale, li decide Giorgia Meloni?





