2025-10-17
Eni-Nigeria, confermate in Appello le condanne a De Pasquale e Spadaro
Non hanno depositato atti favorevoli alle difese: ribadite le pene per 8 mesi di carcere.Non è bastato il tentativo di addossare la responsabilità a Paolo Storari, il magistrato che per primo aveva segnalato irregolarità interne e trasmesso agli organi competenti atti d’indagine sul caso “Loggia Ungheria”. La Corte d’appello di Brescia, presieduta da Anna Dallalibera, ha confermato in Appello la condanna a otto mesi di reclusione per rifiuto d’atti d’ufficio nei confronti dei pubblici ministeri milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, riconoscendo che i due magistrati «omisero consapevolmente il deposito di atti favorevoli alle difese» nel processo Eni-Nigeria.In aula, poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, Sergio Spadaro (ora in forza alla Procura europea) ha letto una dichiarazione anche a nome del collega. «Questo processo è il frutto di un’indagine svolta in violazione delle garanzie fondamentali della pubblica accusa e, in sostanza, un processo profondamente ingiusto», ha detto, ribadendo che non ci sarebbe stato alcun «rifiuto d’atti d’ufficio», ma solo la volontà di «resistere a una richiesta sbagliata, illegittima e arbitraria» del collega Paolo Storari, colpevole, a loro dire, di aver voluto introdurre nel dibattimento «un materiale erroneamente interpretato e irrilevante».Spadaro e De Pasquale hanno definito l’intervento di Storari «una interferenza» e hanno sostenuto che la decisione di non depositare gli atti fosse stata «condivisa» con l’allora procuratore capo Francesco Greco e la procuratrice aggiunta Laura Pedio. «Non c’è stato rifiuto né omissione», hanno detto, «ma un atto compiuto secondo coscienza e diritto». Poi la rivendicazione più netta: «A meno di non immaginare un pm teleguidato o a sovranità limitata, il pubblico ministero deve poter scegliere autonomamente come condurre le proprie indagini». Una frase che sembra una difesa di principio, ma che trascura l’aspetto decisivo del processo: l’autonomia del pm non può giustificare il silenzio su prove già acquisite e potenzialmente favorevoli alla difesa.Nel passaggio più polemico, i due magistrati hanno evocato la vicenda della «loggia Ungheria», accusando Storari, «reo confesso di una fuga di notizie senza eguali», di aver condizionato la pubblica accusa bresciana con le sue «malevoli suggestioni». Ma la Corte non ha accolto questa versione dei fatti, ritenendo che il ruolo di Storari sia stato solo quello di segnalare una mancanza di trasparenza all’interno della stessa Procura. Del resto, già nelle motivazioni di primo grado, ora confermate, si legge che «un magistrato del medesimo ufficio aveva sollecitato i colleghi a depositare gli atti, preoccupato per il vulnus arrecato dalle condotte omissive al corretto sviluppo del processo Eni-Nigeria». Quelle sollecitazioni furono ignorate.I giudici d’Appello hanno respinto ogni accusa di complotto o interferenza, stabilendo per la seconda volta che la condotta di De Pasquale e Spadaro ha travalicato i limiti della discrezionalità e violato il principio di lealtà processuale. D’altra parte, come avevano chiarito già le motivazioni di primo grado, oscurare prove già raccolte è «condotta penalmente rilevante». Tra gli atti trattenuti figurano il «video Bigotti» e alcune chat Whatsapp che mettevano in dubbio la credibilità del testimone chiave dell’ex manager Vincenzo Armanna, su cui era stato costruito, insieme con le accuse delle Ong, l’architrave dell’accusa. La mancata produzione di quel materiale, hanno scritto i giudici, «ha condizionato indebitamente l’intero iter del processo». La Corte d’appello ha confermato la pena di otto mesi, limitando però al danno morale la condanna civile, come chiesto dal procuratore generale. Una decisione che chiude il processo, ma non le contraddizioni che lo circondano: Fabio De Pasquale è tuttora in servizio come pubblico ministero a Milano e, fino a poche settimane fa, ha rappresentato l’accusa nel processo contro Aliyu Abubakar, l’imprenditore nigeriano ritenuto figura chiave della presunta tangente Opl 245. Anche quel procedimento si è concluso con l’assoluzione piena «perché il fatto non sussiste», come già accaduto per Eni, Shell, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni. A 12 anni dall’inizio dell’inchiesta, la tangente da oltre un miliardo di dollari non è mai esistita: l’unica condanna rimasta è quella dei pm che avevano guidato l’accusa.Il Tribunale di Brescia aveva ricordato lo scorso anno che la legge impone al pm di condividere anche le prove favorevoli alla difesa e che l’autonomia non può trasformarsi in arbitrio: la verità processuale non è proprietà dell’accusa, ma del processo. Viene naturale il confronto: mentre un carabiniere indagato per aver inseguito Ramy in fuga rischia carriera e stipendio già al primo grado, De Pasquale e Spadaro, condannati due volte, restano in servizio e continuano a rappresentare lo Stato in aula.
«The Iris Affair» (Sky Atlantic)
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