Il caso Bologna, perché di caso si tratta. Bologna che conferisce la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese malgrado altre città, governate dalla sinistra, gliela neghino. Bologna, dove l’università si oppone all’istituzione di un corso di laurea per gli iscritti all’Accademia militare. Bologna, dove la Chiesa è guidata dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. Bologna, di cui è sindaco il democratico Matteo Lepore, delfino di Elly Schlein, già vicepresidente della regione Emilia-Romagna, che lo indica spesso come esempio di amministrazione illuminata. Bologna, infine, dov’è difficile trovare chi abbia voglia di raccontare quello che succede davvero con l’attuale blocco di potere, che non è più quello dell’Ulivo. Questo coraggio ce l’ha Elena Ugolini, ex preside del liceo Malpighi, ex sottosegretario all’Istruzione e all’università del governo Monti, candidata sconfitta con il 40% dei consensi alle regionali di un anno fa con una lista civica che ha aggregato il centrodestra e ora battagliera consigliera regionale.
Che tipo di città è oggi Bologna?
«È una città sempre bella e “accogliente”, ma insicura, sporca e paralizzata dai lavori in corso per il tranvai. Una città dov’è impossibile trovare casa a un affitto ragionevole per uno studente o un giovane lavoratore. Una città piena di studenti che sono la sua ricchezza fin dal 1089, anno di fondazione dell’università, e ora anche di turisti. Una città in cui negli ultimi anni molti negozi sono stati chiusi a causa della politica penalizzante nei confronti dei piccoli esercizi commerciali. Infine, è una città con molte zone pericolose e non accessibili».
È esagerato definirla «una città estremista» come ha fatto il senatore di Fdi Marco Lisei?
«È una città nella quale il governo della parte più ideologica, fondamentalista, presuntuosa e moralizzatrice di una certa sinistra ne condiziona la vita e lo sviluppo».
Era la città dell’Ulivo, ora di chi è?
«Le persone che hanno costruito l’Ulivo, una sinistra dialogante non sempre in conflitto con la cultura cattolica, oggi sono molto a disagio. Adesso è la città di Lepore e del suo giro. E di chi accetta che i centri sociali la mettano a soqquadro, non una ma due volte, tre volte, quattro volte…».
È la città degli antagonisti?
«Certo. Dietro il tono in apparenza gentile di Lepore prevale l’antagonismo di sostanza, come ha fatto capire la richiesta al ministro degli Interni di pagare i 100.000 euro di danni causati dai cortei pro Pal in occasione della partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv».
Sul Foglio Giuliano Ferrara ha scritto un articolo accorato per il degrado intellettuale che la affligge.
«Quando scrive che è una città sporca e insicura dice il vero. Qualche giorno fa una storica guida turistica mi ha detto che un grande tour operator ha deciso di escludere Bologna dai suoi circuiti perché ha avuto troppe lamentele dai turisti per il degrado ambientale, la percezione di insicurezza e le molestie subite».
Mentre Firenze ha deciso di revocare la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, Bologna sembra decisa a confermarla.
«Al consiglio comunale di lunedì il sindaco ha avuto l’occasione di rivedere la decisione, invece ha detto che ci sono “cose più importanti” di cui occuparsi. E, confermando il riconoscimento, ha chiesto più attenzione alle parole della Albanese».
Nemmeno Romano Prodi lo farà recedere?
«Ne dubito. Prodi ha detto che perseverare è diabolico».
Oltre al dissenso del professor Gianfranco Pasquino già manifestato un mese fa e ribadito ieri al Corriere della Sera se ne sono registrati altri?
«Quello di Elisabetta Gualmini, arrivato prima ancora dell’agghiacciante dichiarazione della Albanese sull’assalto alla Stampa. Poi Virginio Merola, sindaco di Bologna prima di Lepore, si è dissociato lunedì con un post prima dell’inizio del consiglio comunale. E ci sono anche i dubbi di Stefano Bonaccini».
Perché il sindaco si è speso impedire la disputa della partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv?
«Perché per lui garantire l’ordine e la sicurezza consiste nel lasciare parti della città in mano ai centri sociali. C’è un filo di collegamento tra chi governa la città in modo apparentemente democratico e chi la occupa condizionandola con la violenza».
Era anche un modo per legittimare i contestatori?
«Con la motivazione della sicurezza si accetta che le attività della città siano interrotte perché i contestatori hanno più diritti degli altri».
Che idea delle istituzioni manifesta questo comportamento?
«Di istituzioni che danno messaggi contrastanti. Da una parte si chiede aiuto alle forze dell’ordine per evitare scontri, dall’altra non si accetta la creazione di zone rosse dove esercitare un controllo preventivo. Gli agenti della polizia locale sono in una situazione di debolezza. Per esempio, non hanno in dotazione il teaser».
Perché l’università ha negato la possibilità che gli studenti dell’Accademia militare di Modena frequentino un corso di laurea in filosofia?
«In realtà, la richiesta del capo di Stato maggiore dell’Esercito Carmine Masiello di iscrivere 15 cadetti alla facoltà di filosofia non è stata neanche messa all’ordine del giorno del dipartimento. I collettivi universitari hanno subito accusato la militarizzazione dell’università. Che, a quel punto, si è trincerata dietro problemi organizzativi e di costi. Ma l’Accademia era pronta a pagare i corsi. Il meccanismo è il solito: una parte del corpo docente ha il filo diretto con i collettivi che osteggiano la richiesta dell’Accademia».
Perché altri corsi in ingegneria, scienze politiche o diplomatiche che si tengono in seno all’Accademia o a Reggio Emilia non hanno trovato ostacoli e questo sì?
«Perché Bologna non è una città libera. Le faccio un altro esempio».
Prego.
«L’Alma Mater ha respinto la proposta di collaborazione di Leonardo, un’istituzione che collabora con oltre 100 atenei italiani ed esteri».
I collettivi hanno influenzato la decisione del rettore?
«Certo. Ma la responsabilità è del dipartimento che, nell’ambito dell’autonomia didattica, può dire faccio il corso oppure no».
Come si è comportato il sindaco in questa occasione?
«Si è lamentato dell’interferenza del governo, rivendicando l’autonomia di Bologna e dell’Università».
Giorgia Meloni poteva non intervenire sull’argomento?
«Credo che il governo non possa non occuparsi di Bologna perché si verificano fatti inaccettabili che richiedono un intervento. Al contrario, io ringrazio gli esponenti del governo perché non ci lasciano soli».
Com’è l’agibilità politica all’Alma Mater?
«Ci sono aule perennemente occupate. Soprattutto c’è un clima di insicurezza e di degrado in tutta la zona universitaria, nel centro della città, che dalle 18 del pomeriggio è ostaggio degli spacciatori e in balia dei collettivi. Qualche giorno fa l’università ha tolto i ponteggi dalle facciate appena ridipinte, ma il giorno dopo erano già piene di scritte contro Matteo Piantedosi e Antonio Tajani. Sebbene tutti conoscano gli autori di queste scritte, perché sono sempre i soliti, nessuno interviene».
Che tipo di rapporto intrattiene il sindaco con i centri sociali?
«Ci sono edifici pubblici anche in pieno centro cittadino stabilmente occupati da loro. È una situazione profondamente ingiusta e che perdura da diversi anni grazie a bandi che si aggiudicano sempre i soliti perché cuciti su misura sulle loro attività».
E sul terreno economico come si muove l’amministrazione?
«Anziché incoraggiare l’iniziativa dei cittadini tende a intimidirla. Alla convention nazionale di Confabitare di fine novembre si è sottolineato il turismo come fonte di ricchezza grazie alla crescita da 1 a 2,5 milioni di visitatori annui. L’ex capo delle Sardine, Mattia Santori, che ha la delega ai giovani e al turismo, è intervenuto per mettere in guardia sulla volatilità del turismo. C’è una mentalità recessiva… Le faccio un altro esempio…».
La ascolto.
«In queste settimane si sta esaminando un progetto della giunta regionale sugli affitti brevi: la relatrice Simona Larghetti di Avs ha postato un video in cui sventola trionfante il testo della legge: “Purtroppo, non possiamo mettere un tetto al prezzo degli affitti brevi, non possiamo espropriare”. Ma almeno con questa legge riusciremo a limitarli».
Come procede l’esperimento delle pipette per fumare il crack?
«È stata un’operazione di propaganda per proclamarsi città in cui ci si può sballare e drogare tranquillamente. Dall’analisi delle acque reflue emerge che Bologna, secondo i dati del dipartimento per la politica antidroga della Presidenza del consiglio, è la città con il più alto consumo di metanfetamine in Italia».
Che tipo di presenza ha la Chiesa guidata dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei?
«Una caratteristica che tutti riconoscono a Zuppi è che sa voler bene alle persone e ha costruito una trama di rapporti positivi. E questa trama di bene è un grosso dono che la Chiesa sta facendo alla città. Penso che sia fondamentale uscire dalle sacrestie e seguire ciò che ha detto papa Leone XIV ad Assisi: è bene che i cattolici intervengano nel dibattito pubblico senza farsi intimidire. Lo dovrebbero fare anche i cattolici che sono nel Pd e hanno responsabilità pubbliche».
Ci sono i cattolici nel Pd, ma il Pd va da un’altra parte?
«In questo momento sono una minoranza in grandissima difficoltà».
È stupita che nella classifica per la qualità della vita delle città Bologna sia al quarto posto?
«È una classifica giornalistica che non si basa su ricerche scientifiche. L’attrattiva di Bologna per i giovani, il turismo, la cultura e il tempo libero si basa su qualità che prescindono da chi la governa. Ripeto: bisogna vedere come vengono stilate queste graduatorie. Per esempio, sulla giustizia e la sicurezza siamo al centoduesimo posto».
Considerato che Matteo Lepore è una creatura di Elly Schlein dobbiamo immaginare che l’Italia governata da lei sarebbe pro Pal, amica degli antagonisti e pronta a liberalizzare l’uso degli stupefacenti?
«Temo di sì. Non dimentichiamo che la conquista di Bologna da parte di questa sinistra è cominciata nel 2013 proprio con la Schlein leader del movimento Occupy Pd. Bologna è un laboratorio importante. Per questo, se i cittadini che non si riconoscono in questa cultura si rassegnassero al dominio della sinistra, commetterebbero un gravissimo errore».
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Dal luglio scorso, quando, dopo una lunga malattia, è morto suo figlio Giorgio, faceva avanti indietro dal policlinico Gemelli. «Non bisognerebbe sopravvivere ai propri figli», aveva confidato in un’intervista. Il dolore per la grave perdita si era sommato alla fragilità derivata dai postumi di una frattura all’anca. «Spero, come tutti, di morire nel sonno», aveva detto sempre in quell’occasione. E in un’altra: «Seppellitemi sul Centrale» del Foro Italico, a testimonianza del legame indissolubile con lo sport che gli ha regalato soddisfazioni e celebrità. Notiziari, agenzie e siti sono alluvionati da dichiarazioni, ricordi, manifestazioni di gratitudine. «I successi sportivi e l’umana simpatia gli hanno procurato l’affetto di tanti italiani», così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «È stato un campione capace di ispirare diverse generazioni e che ha portato in alto il nome dell’Italia nel mondo», il premier Giorgia Meloni. «È sempre stata una persona che ha diviso proprio perché era coraggioso, trasparente e non ha mai avuto paura di prendere posizioni scomode, anche fino all’ultimo», lo ha ricordato Licia Colò, l’ultimo suo grande amore. «In una società dove tutti fanno gli equilibristi, io mi sono innamorata del suo coraggio».
Riconosciuto a lungo come il più grande tennista italiano di sempre, dal rovescio molto elegante, pativa un filo di imbarazzo nel dover riconoscere che qualcuno dopo di lui l’aveva superato. Aveva digerito male la sconfitta al quinto set da Adriano Panatta ai campionati italiani del 1970 che segnò un piccolo cambio d’epoca. Ora soffriva i trionfi e gli elogi universali a Jannik Sinner, «il miglior tennista italiano di tutti i tempi, forse austriaco», gli è scappato una volta, criticandolo anche per la rinuncia a disputare la Davis. Un’altra volta lo aveva elogiato: «Questo ragazzo on ha più un punto debole, è sempre perfetto. Anzi, è quasi noioso da quanto è bravo».
Ironico, megalomane al limite della strafottenza, amante della mondanità, tombeur de femmes («ma ho avuto solo quattro grandi amori e sono sempre stato lasciato»), Nicola Pietrangeli nasce a Tunisi da padre abruzzese ricco di famiglia e gran sportivo, e madre russa che, separata dal conte Chirinski, gli trasmette il titolo nobiliare. In quell’angolo d’Africa, protettorato francese, il padre viene internato in un campo di prigionia dove riesce a costruirsi un campo da tennis. È lì che, andato a trovare il papà, il piccolo Nicola prende in mano la sua prima racchetta. Espulsi dalla Tunisia, i Pietrangeli arrivano a Roma quando lui ha 13 anni, non sa una parola d’italiano, ma socializza giocando a calcio in Piazza di Spagna. Sebbene il padre lavori all’ambasciata francese, sceglie la cittadinanza italiana. Gli esordi sportivi sono nelle giovanili della Lazio, ma quando lo cedono alla Viterbese, il giovane Nicola sceglie il tennis, senza però abbandonare il calcio. «Ero amico di Maestrelli che mi faceva allenare con la Lazio dello scudetto», quella di Giorgio Chinaglia e altri campioni: «Se a diciotto anni non avessi smesso per fare il tennista, non si sarebbe sentito parlare di Gianni Rivera», ha sparato una volta tra il serio e il faceto. Dopo il secondo successo al Roland Garros, nel 1960 arriva ai quarti di Wimbledon, ma Rod Laver lo ferma battendolo 6-4 al quinto set. L’anno dopo però si rifà, sconfiggendo il grande australiano, in quel momento il più forte al mondo, nella finale degli Internazionali di Roma.
Nell’indole del campione, autoironia e autostima si mescolano a una certa permalosità. Nel 1968, iniziata la fase discendente della sua splendida carriera, ai quarti dei campionati italiani di Milano, Pietrangeli si trova davanti il campione juniores, un certo Panatta. «Attento, che il ragazzo gioca bene», lo avvertono. Inizia la partita e il ragazzo sfodera palle corte a raffica: «Regazzì, guarda che le palle corte le ho inventate io». Alla fine vince lui, ma in spogliatoio Panatta gli fa: «La saluta tanto mio padre». Solo allora Pietrangeli lo riconosce: era «Ascenzietto», il figlio di Ascenzio, il custode del tennis Parioli di Roma. Due anni dopo si ritrovano in finale agli Assoluti di Bologna e Adriano, non più Ascenzietto, la spunta. Il passaggio del testimone era previsto e naturale, ma per Pietrangeli, avanti 4-1 nel quinto set, la sconfitta è una detronizzazione. La ruggine non si dissolve nemmeno dopo la conquista della prima Coppa Davis italiana. L’anno prima la nazionale è stata eliminata al turno d’esordio. Nel 1976 Panatta ha appena vinto Roma e Parigi, ma è Pietrangeli a tenere insieme la squadra composta da personalità molto diverse e a convincere politici e media che la trasferta nel Cile di Augusto Pinochet s’ha da fare. Ci sono interrogazioni in Parlamento, proteste nelle piazze. Nicola si confronta con Giancarlo Pajetta, Domenico Modugno persino gli Inti Illimani. L’argomento che alla fine fa breccia è: «Noi vogliamo vincere la coppa non difendere Pinochet». L’anno successivo, sempre con Pietrangeli capitano, arrivano in finale, sconfitti a Sydney dall’Australia. Poi c’è la resa dei conti. Paolo Bertolucci si fa interprete della necessità di un cambio di rotta. Il sodalizio si rompe, ma Pietrangeli si sente tradito soprattutto da Panatta che, da figlio unico, con una certa enfasi considerava come «il fratello più piccolo che non avevo mai avuto». Oggi Panatta ha voluto sottolineare la loro grande amicizia: «Nicola era il mio amico, anche se ci beccavamo ogni tanto, ma era un gioco che facevamo. Lo voglio ricordare con allegria, è stato un personaggio straordinario, al di là di essere un campione assoluto. Alla mia nascita lui era già una promessa, poi abbiamo fatto un po’ il cambio della guardia. Abbiamo anche giocato insieme, ci siamo divertiti, abbiamo fatto le vacanze insieme. Io e Nicola eravamo molto amici». Bertolucci e Barazzutti lo hanno ricordato come il loro «primo eroe». Il capitano di Davis Filippo Volandri come «un gigante». A Licia Colò che pochi giorni fa è andata a trovarlo aveva confidato: «Sono stanco di essere stanco». Ora non lo è più.
La piena è passata e il giunco Francesco Saverio Garofani può tirare un sospiro di sollievo. Da giorni tutto tace e il consigliere di fiducia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sorveglia rinfrancato gli umori dei palazzi e i tam-tam dei media. Calma piatta, le ostilità si sono placate.
L’ultima onda fastidiosa risale alle dichiarazioni del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che, prima di rettificare - di poco - il tiro ha detto che un consulente del capo dello Stato non può restare al suo posto dopo che ha disegnato scenari politici comprendenti il cambio della legge elettorale, il verificarsi di provvidenziali scossoni, la nascita di una lista civica nazionale, tutto in funzione anti Meloni. A quel punto, la querelle si è brevemente rinfocolata e si è tornati pretestuosamente a parlare di attacco al Quirinale. Tra i cronisti e gli analisti del giornale unico nazionale l’aderenza ai fatti e il pragmatismo scarseggiano.
Da giorni però il silenzio sul caso politico più clamoroso dell’ultimo mese conforta Garofani. La piena sembra passata e, pur con una certa circospezione, può rialzare la testa. Càlati juncu ca passa la china (piegati giunco che passa la piena) recita un famoso detto popolare siciliano che il palermitano Mattarella conoscerà sicuramente. Chissà se l’avrà sussurrato al suo uomo di fiducia. Altrove, è vero, per esempio al ministero della Cultura, Pietro Tatafiore, portavoce di Alessandro Giuli, si è dimesso per molto meno dell’improvvida manifestazione di cui è stato protagonista il consigliere del Quirinale. Una mail ministeriale usata per segnalare la presenza dello stesso Giuli a un evento del candidato di centrodestra in Campania è bastata per lasciare l’incarico (né Giuli né Tatafiore sono siculi). Per le questioni che riguardano il Colle più alto di Roma, invece, ci pensa il bis-presidente a catalizzare i media, moraleggiando e strappando immancabili ovazioni che si tratti della commemorazione dei 75 anni del Cuamm di Padova o degli Stati generali della natalità a Roma.
Qualche decennio fa, le quotidiane esternazioni del sardo Francesco Cossiga erano vissute dai più come un’insopportabile camurria, sicilianamente parlando. Sta di fatto che, in quest’occasione, il famoso proverbio, citato pure da Franco Battiato in una sua canzone, potrebbe essere tornato utile. E makari, La Russa, siciliano pure lui, avrà provato a neutralizzarne certi effetti collaterali. Nell’uso comune il consiglio a piegarsi in attesa che cali l’ondata suggerisce di attendere tempi migliori, di resistere nelle crisi per poi riprendere l’iniziativa. Insomma, nel linguaggio di moda, sarebbe riassunto come un invito alla resilienza. Nel caso di Garofani, invece, sta funzionando come sostegno all’imbullonamento alla poltrona, che è quella di segretario del Consiglio supremo di difesa. Il quale, ora che le questioni militari stanno tornando all’ordine del giorno in tutta Europa, tornerà presto a riunirsi. Con quale faccia il giunco Garofani si siederà tra Mattarella, Giorgia Meloni e il ministro Guido Crosetto se non quella dell’arroganza del potere?





