La Coppa d’Africa non è solo calcio. È una vetrina politica e culturale con cui Rabat rivendica un nuovo ruolo: africano per storia, occidentale per infrastrutture e governance. In vista del Mondiale 2030, il Paese si propone come hub tra Africa ed Europa, usando lo sport come leva di potere e immagine.
La Coppa d’Africa, che si è da poco aperta e finirà gennaio in Marocco, non è soltanto un torneo continentale. È una dichiarazione politica. È una messa in scena accurata. È il modo con cui Rabat prova a raccontare al mondo chi vuole essere nei prossimi vent’anni. Il calcio, in questo disegno, non è un fine. È uno strumento. Serve a mostrare infrastrutture, capacità organizzativa, stabilità istituzionale. Serve a posizionare il Paese come interlocutore affidabile tra Africa, Europa e mondo arabo.
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
Il calcio ipotecato: così fondi e banche hanno messo le mani sul futuro dei club
Mentre i tifosi guardano il campo, il futuro del pallone si gioca su altri tavoli lontano dai riflettori. Fondi e banche finanziano stadi e mercato, ma incassano oggi su ricavi di domani. Il denaro arriva subito. Il peso delle scelte resta a chi deve poi sostenerle.
Il vero vincitore della trasformazione finanziaria del calcio europeo non scende in campo. Non indossa una maglia. E non porta un numero sul retro. Non sta in panchina. Non festeggia sotto la curva. Perché ormai nel mondo del pallone moderno il vincitore è sempre di più il capitale che presta, struttura e garantisce. Sono i fondi di credito privato e gli intermediari finanziari che monetizzano il tempo, l’urgenza e la volatilità di un’industria sempre più ossessionata dal risultato immediato.
Mentre i tifosi discutono di moduli e acquisti, su quotidiani sportivi sempre più sdraiati, i i club di tutta Europa si stanno riconfigurando come asset finanziari complessi. Il calcio resta spettacolo. Ma diventa anche una catena di flussi di cassa futuri già promessi. I bilanci assomigliano sempre meno a quelli di società sportive tradizionali e sempre più a quelli di aziende altamente indebitate, con ricavi stagionali, costi rigidi e un bisogno costante di liquidità.
Il debito non è più un incidente. È diventato una strategia. Serve a finanziare stadi e infrastrutture. Serve a sostenere il capitale circolante. Serve a stabilizzare ricavi che dipendono da una qualificazione europea, da un sorteggio favorevole, da un infortunio evitato. La banca commerciale arretra. Il fondo specializzato avanza. Accetta più rischio. Pretende più garanzie. Incassa rendimenti più alti.
Dentro questo passaggio c’è una figura che resta spesso invisibile. L’advisor. La banca d’affari. Il consulente che struttura l’operazione, valuta gli asset, imposta le garanzie, mette in contatto club e capitale. È qui che la partita diventa asimmetrica. Perché l’advisor viene pagato quando l’operazione si chiude. Non quando il modello regge nel tempo.
Il primo esempio è Barcellona. Tra il 2022 e il 2023 il club attiva le cosiddette “leve finanziarie” per oltre 800 milioni di euro. Vende circa il 25 per cento dei diritti televisivi della Liga per 25 anni, incassando poco più di 500 milioni. Cede quasi la metà di Barça Studios per altri 200 milioni. Ottiene cassa immediata per iscriversi ai campionati, registrare giocatori, sostenere il mercato. In cambio rinuncia a una parte rilevante dei ricavi futuri. Gli advisor incassano commissioni subito. Il costo reale emerge solo nel tempo.
Poi arriva lo stadio. Il progetto Espai Barça vale circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2023 una parte del debito viene ristrutturata con un’emissione obbligazionaria da 424 milioni, a un tasso medio superiore al 5 per cento e con rimborsi rinviati negli anni. Il club compra tempo. Il mercato applaude. Il rischio resta concentrato sulla capacità di generare ricavi extra per decenni.
Il secondo esempio è il Real Madrid. La ristrutturazione del Bernabéu viene finanziata con una struttura di project finance che cresce nel tempo. Il primo prestito, nel 2019, vale 575 milioni di euro. Nel 2021 viene aumentato di altri 225 milioni. Nel 2023 la linea complessiva arriva a circa 1,17 miliardi. I rimborsi iniziano nella stagione 2023-24. A metà 2025 il debito residuo supera ancora 1,1 miliardi. L’operazione è solida solo se lo stadio produce flussi continui da eventi, hospitality e utilizzo non calcistico. Le banche d’affari svolgono più ruoli. Strutturano il debito. Lo collocano. Incassano commissioni. Il rischio sportivo resta in capo al club.
Il terzo esempio è Tottenham. Il nuovo stadio costa circa 1,2 miliardi di sterline. Nel 2021 il club rifinanzia una parte rilevante del debito con un collocamento istituzionale da 250 milioni. La durata media supera i vent’anni. Una tranche arriva a trent’anni, con scadenza nel 2051. L’operazione riduce la pressione di breve periodo e allinea il debito alla vita dell’infrastruttura. Gli advisor chiudono il deal. Il club resta obbligato a massimizzare ogni giorno l’utilizzo commerciale dello stadio.
Il quarto esempio è Inter ed è il più rivelatore. Nel 2021 il club ottiene un finanziamento da circa 275 milioni di euro, con un costo complessivo che supera il 12 per cento annuo. La garanzia è la holding di controllo. Nel 2024 il rimborso complessivo, tra capitale e interessi, arriva a circa 395 milioni. Il pagamento non viene effettuato. Il creditore escute la garanzia e prende il controllo del club. Advisor legali e finanziari avevano certificato la sostenibilità dell’operazione tre anni prima. Le parcelle erano già state pagate. La proprietà cambia. Il tifoso scopre che il debito non era solo una leva, ma una porta.
Il quinto esempio è il Manchester United. A metà 2025 il club dichiara oltre 165 milioni di sterline di debiti a breve termine, contro poco più di 35 milioni un anno prima. A questi si sommano più di 500 milioni di debito a lungo termine legato a vecchie emissioni obbligazionarie. Le linee di credito servono a coprire il capitale circolante. I costi finanziari crescono. Le grandi banche d’affari seguono il dossier come consulenti per una possibile vendita, come finanziatori e come analisti. Ogni ruolo genera valore per l’intermediario. Nessuno dipende dai risultati sportivi.
Il sesto esempio riguarda la fascia più fragile del sistema. Club di medio-bassa classifica inglese ricorrono a prestiti da 70–80 milioni di sterline, con tassi che arrivano all’8 o 9 per cento annuo. Le garanzie includono stadi e immobili. Il finanziamento serve a restare competitivi. Se arriva la retrocessione, i ricavi crollano. Il fondo resta protetto. Il club entra in difficoltà. L’advisor ha già chiuso l’operazione.
In questo quadro le banche d’affari non sono semplici spettatrici. Sono architetti del sistema. Creano strumenti su misura per un’industria che vive di reputazione e aspettative. Spesso consigliano lo stesso club su più fronti. Ristrutturazione del debito. Ricerca di investitori. Valutazione degli asset. Ogni passaggio genera parcelle che, anche su percentuali minime, valgono milioni. Il movimento è premiato più della stabilità.
Il regolatore osserva e rincorre. Le nuove regole UEFA stanno provando a limitare la spesa per salari e cartellini in rapporto ai ricavi. Ma non entrano nel merito della qualità del debito. Non distinguono tra investimenti e rincorsa sportiva. Non guardano al ruolo degli intermediari. Il sistema resta legale. Non sempre resta sano.
Le conseguenze sul mercato sono evidenti. I trasferimenti diventano strumenti finanziari. I contratti si allungano per diluire i costi. Le plusvalenze diventano ossigeno contabile. I giovani diventano asset liquidi. Le scelte sportive rispondono sempre più spesso a vincoli scritti nei contratti di finanziamento, non solo alle idee dell’allenatore.
Cambia anche l’identità dei club. Lo stadio non è più solo casa. È una garanzia. I diritti televisivi non sono più solo ricavi. Sono promesse anticipate. La maglia non è più solo simbolo. È una linea di business da valorizzare. Il tifoso percepisce il cambiamento quando il prezzo sale, quando l’orario cambia, quando il club parla più il linguaggio degli investitori che quello della città.
Alla fine la domanda è semplice solo in apparenza. Questo modello rende il calcio più solido o solo più dipendente dal capitale che lo finanzia? Quando il debito serve a costruire infrastrutture che producono ricavi stabili, il sistema regge. Quando serve a inseguire risultati immediati, il rischio viene solo spostato in avanti.
In questa partita silenziosa, mentre l’attenzione resta sul campo, una cosa è già chiara. I fondi che prestano e i consulenti che strutturano hanno già vinto. Incassano prima. Incassano comunque. Tutti gli altri, club compresi, giocano a credito. E nel calcio, come nella finanza, il credito non è mai neutrale. Decide chi comanda quando il risultato non basta più.
Due accoltellamenti in poche ore, uno nella notte alla Barona e uno in pieno giorno davanti a una scuola a Sesto San Giovanni. È il segnale più chiaro di una violenza che ormai caratterizza sempre di più Milano e che oggi si mostra nei luoghi e negli orari in cui dovrebbe esserci maggiore sicurezza. Il capoluogo lombardo e la sua area metropolitana fanno i conti con un fenomeno che non è più episodico, ma strutturale.
Il primo episodio avviene poco dopo la mezzanotte di ieri in via Ovada, periferia Sud-Ovest della città. Un uomo viene aggredito da più persone, colpito con bastonate e diverse coltellate a testa, spalle e braccia. Poi la rapina. All’arrivo dei soccorsi perde i sensi e viene trasportato in codice rosso al Policlinico. Ha 24 anni, è di origine marocchina, ha precedenti.È fuori pericolo, ma resta ricoverato. Agli investigatori racconta di non conoscere i suoi aggressori, fuggiti subito dopo l’assalto.
Poche ore più tardi, la violenza cambia scenario ma non le modalità. A Sesto San Giovanni, davanti al liceo artistico De Nicola, uno studente di 18 anni di origine egiziana viene accoltellato all’addome all’uscita da scuola. Tre coetanei, anche loro egiziani, lo avvicinano e lo colpiscono, poi scappano. Alla base ci sarebbe una lite avvenuta il giorno prima su un autobus. Il ragazzo viene portato in codice rosso al Niguarda. È grave, ma non in pericolo di vita.
Questi due episodi si inseriscono in un quadro che i numeri ufficiali rendono difficile da minimizzare. Milano è oggi la Provincia con il più alto tasso di reati denunciati in Italia: quasi 7.000 ogni 100.000 abitanti. Secondo i dati del Viminale, nel 2024 in Italia sono stati denunciati circa 2,4 milioni di reati, con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. Milano, insieme a Roma e Firenze, concentra da sola quasi il 24% del totale nazionale.
Dentro questa massa di denunce, la voce che cresce di più è quella della violenza di strada. Le analisi presentate nei tavoli per l’ordine e la sicurezza in prefettura indicano che rapine e aggressioni restano elevate, soprattutto nelle aree urbane più dense e nei nodi della mobilità. Un dato pesa più degli altri: circa un reato predatorio su cinque, tra furti, rapine e aggressioni in strada, è commesso da minorenni o giovanissimi.
È in questo spazio che prende forma il fenomeno dei cosiddetti maranza. Non un’organizzazione strutturata, spiegano da tempo questura e prefettura, ma gruppi fluidi, spesso composti da adolescenti, che usano il coltello come strumento di intimidazione e affermazione. Nell’ultimo anno, nella sola area milanese, sono state segnalate quasi cento rapine commesse da minorenni con l’uso di lame: una ogni pochi giorni. Le lesioni aggravate tra under 18, in alcune zone, hanno registrato aumenti vicini al 50%. Il coltello diventa così un oggetto «normale», facile da portare, rapido da usare, difficile da controllare. Non sempre c’è l’intenzione di uccidere, ma spesso c’è l’illusione di poter gestire la violenza. Un’illusione che finisce in pronto soccorso.
A Sesto San Giovanni l’accoltellamento davanti alla scuola ha acceso lo scontro politico. L’opposizione parla di punto di non ritorno e accusa l’amministrazione di centrodestra di negare una realtà fatta di baby gang, aggressioni e paura quotidiana. Una distanza crescente tra la percezione dei cittadini e le risposte istituzionali. Il paradosso, sottolineano gli analisti della sicurezza, è evidente. Mentre alcuni reati tradizionali calano, la violenza di prossimità cresce. È più giovane, più impulsiva, più imprevedibile.
Due feriti, due storie diverse, una stessa città. E in messo una Milano che deve decidere se continuare a raccontare questi episodi come cronaca isolata o leggerli per quello che sono diventati: un segnale persistente di fragilità urbana e sociale, sottovalutata dalla giunta di centrosinistra di Beppe Sala.





