«Spara a Giorgia». Accanto, una stella a cinque punte, firmata con la sigla Br. Un messaggio diretto al premier Giorgia Meloni, sintetico e brutale, scritto su un muro del lungomare di Marina di Pietrasanta. A rilanciare la foto sui social ci ha pensato il responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia, il deputato Giovanni Donzelli, che denuncia con forza il gesto «firma dell’estremismo comunista delle brigate rosse». «Solidarietà a Giorgia», aggiunge: «Il linguaggio di odio di certa sinistra fa guadagnare qualche ospitata televisiva e molti like, ma rischia di fomentare i facinorosi e far ripiombare l’Italia in un clima che non vorremo mai più rivivere. Giorgia non si farà intimidire. Non ci fermeremo».
La polizia del commissariato di Forte dei Marmi ha avviato gli accertamenti per individuare i responsabili e sta verificando la presenza di telecamere nella zona che possano aver ripreso l’autore o gli autori del gesto. Non il primo ai danni del presidente del Consiglio, ma sicuramente annoverabile tra i più violenti.
Risale ad appena pochi mesi fa l’altra scritta che aveva suscitato parecchia indignazione: «Meloni come Kirk». Una frase per augurare al premier la fine dell’attivista americano Charlie Kirk, morto ammazzato durante un comizio a causa di una pallottola. Un gesto d’odio che evidentemente alimenta altro odio. La frase di Marina di Pietrasanta potrebbe essere una risposta a un’altra frase, pronunciata da Giorgia Meloni lo scorso 25 settembre in occasione di Fenix, la festa di Gioventù nazionale, partendo da una considerazione proprio sui post contro Charlie Kirk: «Non abbiamo avuto paura delle Brigate rosse, non ne abbiamo oggi». Fdi ha diffuso una nota dove si parla di «minacce al presidente Meloni, firmate dall’estremismo rosso: l’ennesima prova di un clima d’odio che qualcuno continua a tollerare». Nel testo si ribadisce che «la violenza si argina isolando i facinorosi, non strizzando loro l’occhio. La condanna unanime resta, per certa sinistra, ancora un esercizio difficile. Non ci intimidiscono. Non ci hanno mai intimidito». Anche la Lega ha espresso immediatamente la sua solidarietà al presidente del Consiglio. «Una frase aberrante, una minaccia di morte tutt’altro che velata. Auspichiamo una condanna unanime e bipartisan. Un clima d’odio inaccettabile che non può essere minimizzato», ha commentato Andrea Crippa, deputato toscano del Carroccio.
«Un gesto vile che conferma un clima di odio politico sempre più preoccupante. Da tempo denuncio questa deriva: nessun confronto può giustificare incitamenti alla violenza», commenta il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Parole di vicinanza e di condanna anche da parte del ministro della Salute, Orazio Schillaci, e dal ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «Un gesto intimidatorio inaccettabile».
«Ha ragione il ministro Crosetto: c’è il rischio di trovarsi da un giorno all’altro con le Brigate rosse 4.0 se si continuerà a minimizzare l’offensiva di violenza dell’estrema sinistra», sostiene il capo dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Piena solidarietà al Presidente del consiglio Giorgia Meloni per la scritta minacciosa», commenta Paolo Barelli (Fi): «È indispensabile uno stop immediato a questo clima avvelenato: serve una condanna unanime e trasversale, e occorre abbassare i toni per riportare il dibattito pubblico entro i confini del rispetto».
Per Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, si tratta di un fatto «gravissimo che va condannato senza ambiguità: evocare le Brigate rosse significa richiamare una stagione buia che l’Italia non vuole e non deve rivivere». Solidarietà anche da Maria Stella Gelmini .
Durissima la presa di posizione dell’Osservatorio nazionale Anni di Piombo per la verità storica, che parla di «atto infame» e di un gesto che «evoca la stagione del terrorismo e delle esecuzioni politiche».
Giornaliste italiane esprime «la più ferma condanna» per il gesto invitando «tutti i colleghi giornalisti, i media, le forze politiche, i rappresentanti della società civile a condannare e non far calare il silenzio su un episodio che colpisce le nostre istituzioni. Contribuire, ciascuno nel proprio ambito, alla costruzione di un clima pubblico rispettoso, lontano da logiche che alimentano tensioni e contrapposizioni assolute è una responsabilità che coinvolge tutti». Da Pd, Avs e M5s silenzio assoluto.
Prima della Scala, Milano inventa una Lady «sbagliata» e trova Dante dentro Shostakovich
- Il finale a sorpresa del regista esalta il Piermarini: Katerina uccide e muore nel fuoco, non nelle acque gelide. Un’idea che rimanda alla «Commedia». Undici minuti di applausi, Chailly acclamato al suo ultimo 7 dicembre.
- Proteste in tono minore di sindacati e pro Pal. Fontana: niente governo? Va bene così.
Lo speciale contiene due articoli.
Piovono rose (rosse e bianche) e applausi su assi di legno che sanno ancora di morte, mista a cherosene. Per raccontare il capodanno della Scala partiamo dalla fine (non dal finale «sbagliato», quello va metabolizzato e il suo odore pungente in teatro si sente ancora). Iniziamo dal Dopo la Prima, dal verdetto dei cronometristi che conferma il successo (per i trionfi il pubblico pretende titoli che conosce a memoria) di questo 7 dicembre, festa del patrono di Milano, Sant’Ambrogio, e stavolta pure di Dmitri Shostakovich, martire (artisticamente parlando) di Iosif Stalin.
Sono oltre 11, infatti, i minuti di giubilo certificati e da consegnare ai posteri per questa Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Non saranno gli irraggiungibili 92 giri d’orologio di fantozziana memoria (l’irripetibile stroncatura della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn da parte del mitico ragioniere sembra la parodia di quanto fece vergare sulla Pravda il dittatore comunista contro il povero Dmitri Dmitrievic), ma siamo a un soffio dalla fortunata - fa strano scriverlo perché dicono che porti sfiga - Forza del destino di Verdi dell’anno scorso.
L’applausometro, che rileva le vibrazioni del Piermarini, è inequivocabile: il cuore del pubblico se l’è rubato il soprano venuto dal Michigan per impossessarsi del ruolo principale, Sara Jakubiak. Partita un po’ frenata, ha saputo ridare vita alla tragedia di Katerina L’vovna. Dalla romanza dell’atto iniziale ha preso fiducia, coprendo il primo squillo di cellulare della serata (non succederà quasi più, ma ne cadranno a terra molti). Solo di qualche decibel inferiore il boato per Alexander Roslavets, basso bielorusso con il physique du rôle - tra il tenente Kojak e Mastro Lindo - che ha portato in scena la versione virile del claustrofobico Boris: suocero, ma soprattutto spirito maligno, che tormenta la protagonista anche da morto. Anche se accolto quasi dallo stesso entusiasmo - ma non è una gara e non siamo a X Factor, con buona pace di Achille Lauro, ben accomodato - ha forse convinto meno Najmiddin Mavlyanov, tenore uzbeko, nei panni dell’amante Sergej.
In pieno controllo di una partitura più che impegnativa, dai mille stili e colori (valzer viennese, Mahler, Offenbach e molto altro), il direttore musicale, Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione. Gli applausi tra un atto e l’altro (molti i «Bravo Maestro», urlati prima del terzo e quarto) sapevano di grazie per questi anni e lasciavano presagire l’abbraccio finale, che è puntualmente arrivato.
Riavvolgiamo il nastro. Neanche il tempo di aprire il sipario alle 18.01 - dopo un inno nazionale mai così poco partecipato (anche al Loggione calma piatta) - che il regista moscovita Vasily Barkhatov - pure per lui solo ovazioni e complimenti - ha già fatto tre mosse: del villaggio russo del 1860 non c’è traccia, l’azione si svolge a Mosca, al tramonto dell’era Stalin (morirà nel 1953, 17 anni dopo aver censurato questo capolavoro). L’azienda rurale degli Izmailov è diventata un ristorante. Ma soprattutto il caso è già chiuso. Katerina sta «cantando». Non in senso letterale - dove sarebbe la notizia? - ma in gergo mafioso. Nella prima scena la bella moglie (a questo punto vedova) del ricco mercante siede a un tavolino Ikea da interrogatorio. Accetta le sigarette dello sbirro in uniforme bianca e collabora. Tra i capelli il beffardo velo delle nozze con Sergej, stroncate dalla polizia dopo il ritrovamento del cadavere del pingue marito.
Primo strappo: nel libretto deve succedere tutto, sul palcoscenico il giallo è risolto (altro che Garlasco e cold case all’italiana). Giudicando con le orecchie, la Izmajlova soffre di noia cronica, «da impiccarsi». E nemmeno immagina che uno stalliere (pardon, cameriere) sta per stravolgerle la vita. Per lui però sarà disposta persino a condire i funghi del suocero con il veleno per sorci (il tema di Boris è una marcetta da topo, lo spiega su Youtube Pietro Rigacci). Per l’occhio invece è svanita ogni suspense. Da qui alla fine, la narrazione sarà un ping pong perpetuo tra ricordi del passato e disperante attualità di una confessione che prepara l’inevitabile condanna. A indicare dove siamo nella linea spazio-tempo ci pensano i cambi di luce e le morbose incursioni dei poliziotti che obbligano i Bonnie e Clyde sovietici a rimettere in scena ogni cosa, compresa la loro sfrenata passione. Terribile quando i due sono costretti a replicare il loro primo amplesso con le manette ai polsi (una delle trovate con le quali il regista riesce a non essere didascalico nelle scene di sesso, lasciando fare ai glissando di tromboni e alle percussioni). Pochi letti, si fa l’amore su tavoli. Il fantasma di Stalin, dal palchetto dei dittatori, storce il naso.
I piani temporali cambiano all’istante, come quando i due amanti strangolano Zinovij, mentre al poveretto cascano i pantaloni. Una scena da commedia di Lino Banfi (dramma e grottesco insieme, sarcasmo shostakovichiano in purezza). Un secondo dopo, il corpo del consorte soffocato si trasforma in manichino, svelando il flashback: una ricostruzione da Quarto Grado, da plastico di Porta a Porta.
Ma è l’epilogo «opposto» a ciò che sulla carta dovrebbe accadere a offrire una prospettiva originale e metafisica a questa rappresentazione lacerante e sarcastica nello stesso tempo.
Ultimo atto: le domande dei celerini finiscono, Katerina si ritrova in una landa desolata. Manca solo la scritta «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» per far diventare Divina quella che non è mai stata una commedia, ma una «tragedia satirica». Sulle teste dei prigionieri cadono fiocchi candidi. Nessuno però pensa al «Natale con la neve» di Vasco. I brividi dei condannati rimandano alla Siberia e all’Inferno dantesco. A quel «pozzo scuro» e freddo che ripaga i traditori, lasciandoli al gelo. «L’acqua è nera come la mia coscienza», canta quest’anima tormentata che, a breve, dovrebbe trascinare con sé la rivale nell’abisso. Invece - nello choc del pubblico in smoking - si inonda di benzina e sceglie di finire nel fuoco, insieme a Sonetka (da film l’ingresso delle due torce umane, con le fiamme che sfiorano i nobili tendaggi rossi). È lei l’ultima conquista di quello «sciupafemmine» di Sergej (che non merita di essere più chiamato amorevolmente Sëreza) per il quale aveva inutilmente scommesso la vita, alla ricerca di un’inafferrabile felicità.
Viene il sospetto che Barkhatov sia un fan di Una pura formalità di Giuseppe Tornatore. La suggestione si fa strada pensando che questa centrale di polizia sia un po’ il tribunale celeste, alla fine dei tempi. Chi è sottoposto al giudizio rivede e rivive la sua esistenza scegliendo liberamente il proprio destino finale. Impressioni? Ipotesi? Lapidario il commento di un’elegante sciura milanese alla consegna dei cappotti: «La Katerina che prende fuoco, pure questa mi toccava vedere…».
Cori contro la Venezi, lodi all’imam di Torino
Come ogni anno la Prima della Scala rappresenta l’occasione per un ricettacolo di proteste più o meno variopinte. Questa volta, con un pizzico di fantasia in più, i manifestanti hanno persino creato dei cartonati del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con scritto «Lady MacMelon», allegoria del vero spettacolo di ieri sera. Una manifestazione dal carattere prettamente antifascista e antisemita. All’altoparlante, in collegamento telefonico, è intervenuto anche Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione palestinesi d’Italia, che ha ricevuto un foglio di via di un anno da Milano. Tanti gli slogan e gli striscioni pro Pal e in solidarietà a Mohamed Shanin, l’imam di Torino colpito da un decreto di espulsione per un comizio in cui parlava del 7 ottobre. Per i manifestanti, l’appuntamento sotto il Piermarini (al quale hanno partecipato anche le sigle sindacali Cgil e Cub) e davanti al municipio di Milano «non è una ricorrenza, ma resistenza». Nel mirino, come detto, anche Giorgia Meloni: «Lady Mac Melon del distretto è venuta qui a ricordarci come la cultura non serve a niente, o meglio, non tutte le culture servono. Quelli come lei dicevano, libro e moschetto, fascista perfetto», ha proclamato un manifestante nel bel mezzo di un vero e proprio spettacolo inscenato in strada.
Tra fumogeni e slogan, sul palco dei contestatori sono comparsi anche i personaggi caricaturali del ministro Giuseppe Valditara, vestito da militare, del ministro della Cultura, Alessandro Giuli, del sindaco Beppe Sala e di Manfredi Catella, l’imprenditore (ceo di Coima) coinvolto nell’inchiesta sull’urbanistica a Milano. Infine, cori contro la neo direttrice della Fenice di Venezia, Beatrice Venezi. Un militante, sul piccolo palcoscenico di fortuna sui cui campeggiava la scritta «Il teatro delle complicità», ha detto: «Non vogliamo essere complici di un genocidio e non vogliamo un sindaco che dice “Palestina libera” e poi il Comune continua a incassare soldi da Israele».
Per Riccardo De Corato, deputato Fdi ed ex vicesindaco di Milano, «in piazza della Scala a Milano abbiamo assistito a nuove dichiarazioni offensive al presidente del Consiglio. In particolare, da parte di una consigliera ed esponente del Movimento 5 stelle sono state pronunciate frasi inaccettabili nei confronti di Giorgia Meloni», accusa. In scena, anche la protesta di una decina di ucraini, per tenere accesi i riflettori sulla guerra nel loro Paese.
Dentro il teatro, scarsa come annunciato la rappresentanza politica nazionale: niente Sergio Mattarella, niente Giorgia Meloni, il solo ministro della Cultura Alessandro Giuli per l’esecutivo: la star è la senatrice Liliana Segre. Tanto che il governatore lombardo Attilio Fontana ha buon gioco a fare l’autonomista: «Governo assente? Ce ne faremo una ragione».
Quattordici anni e nove mesi di carcere e mezzo milione di risarcimenti. Questo il prezzo da pagare per Mario Roggero, questa la pena inflitta a chi non ha ricevuto la protezione e la sicurezza che gli sarebbe spettata di diritto. Il gioielliere di Grinzane Cavour che nell’aprile 2021, durante una rapina nel suo negozio, uccise due banditi e ne ferì un terzo, oggi inevitabilmente è chiamato a pagare per le sue azioni.
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.





