Una donna affetta da una malattia rara, ma tutt’altro che in fin di vita bensì semplicemente stanca di aspettare l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno, arriva a chiedere - e ottiene - la morte assistita. Sembra assurdo che un caso simile possa esistere e, probabilmente, lo è. Peccato sia una storia vera: quella che vede suo malgrado protagonista Jolene Van Alstine, 37 anni, residente nella provincia canadese del Saskatchewan. La donna soffre da otto anni di iperparatiroidismo primario normocalcemico, una malattia paratiroidea molto rara ma curabile. Il punto è che nel Saskatchewan pare non ci siano chirurghi in grado di eseguire l’operazione di cui ha bisogno. Per questo, la trentasettenne deve essere indirizzata fuori provincia, ma non può ottenere un’indicazione senza prima essere visitata da un endocrinologo e - di quelli della sua zona, alcune decine - nessuno accetta nuovi pazienti.
Di qui l’interminabile attesa, così interminabile da averla portata a chiedere la morte assistita. Che, a differenza del sospirato intervento, le è stata subito fissata. C’è già la data: il 7 gennaio 2026. Jolene Van Alstine ha scelto questa strada per porre fine a quello che, per lei, è un calvario: «I miei amici hanno smesso di venirmi a trovare. Sono isolata. Sono otto anni che me ne sto sdraiata sul divano, malata e rannicchiata in posizione fetale, aspettando che la giornata finisca». «Vado a letto alle sei di sera perché non riesco più a stare sveglia», ha aggiunto e suo marito, Miles Sundeen, ha detto che stanno cercando aiuto da molto tempo.
«È un caso complesso perché ha già subito diversi interventi chirurgici, ma non hanno avuto successo al 100%», ha spiegato l’uomo, «abbiamo davvero bisogno di aiuto per trovare un endocrinologo e un chirurgo che la prendano in cura e che abbiano molta familiarità con casi più complessi».
Le istituzioni sono al corrente di tutto, tanto che - stimolato dal ministro ombra dell’opposizione, Jared Clarke - il ministro della Salute del Saskatchewan, Jeremy Cockrill, ha incontrato la donna giorni fa per cercare di capire se poteva aiutarla, ma sembra che neppure il suo interessamento, per ora, sia riuscito a sbloccare la situazione. Con il risultato che, salvo sorprese, a inizio 2026 la Van Alstine potrebbe davvero ottenere la morte assistita a causa, di fatto, dei ritardi del sistema sanitario. Un caso che potrebbe diventare, se davvero così sarà, il primo d’una lunga serie dato che non in Canada non è già raro, anzi, morire in attesa delle cure.
Secondo i dati diffusi a fine novembre dal think tank canadese Secondstreet.org, infatti, tra aprile 2024 e marzo 2025 sono deceduti quasi 24.000 pazienti - 23.746, il numero esatto - che erano nelle liste d’attesa per le cure. Va però detto che il caso di Jolene Van Alstine sta scuotendo molto l’opinione pubblica ed è partita una vera e propria gara di solidarietà per salvarle la vita. In prima linea c’è il commentatore conservatore americano Gleen Beck, attivatosi dichiarando di volersi far carico delle spese di viaggio e mediche per Jolene esortando il Canada a porre fine a questa «follia». Gli aggiornamenti delle ultime ore da parte di Beck sono di cauto ottimismo. «Siamo in contatto con Jolene e suo marito! Continuate a pregare per la sua salute», ha infatti scritto su X. Staremo a vedere che sviluppi avrà la vicenda.
Quel che è certo è che l’odissea di Jolene Van Alstine non è casuale. E questo non solo per la gran facilità con cui è possibile accedere in Canada alla morte assistita - 90.000 casi dal 2016 ad oggi sono un numero oggettivamente enorme -, ma pure per il clima di abbandono terapeutico che la cultura eutanasica ha generato in un Paese dove, contestualmente all’introduzione del decesso on demand, si è subito iniziato a ragionare apertamente sui risparmi che ciò avrebbe comportato per le casse pubbliche.
Uno studio di Aaron J. Trachtenberg e Braden Manns, pubblicato ancora nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal, basandosi su stime realizzate nei Paesi Bassi, aveva quantificato in una forbice oscillante tra i 35 e i quasi 139 milioni di dollari l’anno i risparmi che la «dolce morte» può assicurare alle finanze pubbliche. Da parte loro, Trachtenberg e Manns avevano tenuto a sottolineare di non voler alcun modo incoraggiare la gente a morire, e ci mancherebbe, ma è ovvio che laddove la vita di alcuni cittadini, rei solo di non essere abbastanza sani o abbastanza giovani, inizia ad essere rubricata alla voce «costi evitabili», essi siano indotti a togliere il disturbo. Era già accaduto, restando sempre in Canada, qualche anno fa con l’atleta paralimpica Christine Gauthier - che aveva osato protestare per i ritardi nell’installazione in casa sua di un montascale, sentendosi offrire la morte assistita - e di fatto succede ancora oggi con il caso di Jolene Van Alstine che, a proposito della sbandierata libertà di scelta, ora ha davanti a sé due strade: la morte assistita o quella in attesa di cure. Bel modo di essere «liberi fino alla fine», non c’è che dire.
È donna e, benché nata in una famiglia modesta, è riuscita ad affermarsi come una delle tenniste più vincente di sempre, portandosi a casa 64 prove del Grande Slam: 24 in singolare, 19 in doppio e 21 in doppio misto. Avrebbe insomma tutte le carte in regola - tanto più in tempi in cui l’empowerment femminile attira tanta attenzione culturale e mediatica - per essere indicata a modello delle giovani di tutto il mondo, l’australiana Margaret Court. Eppure la leggendaria campionessa, che oggi ha 83 anni, ai giorni nostri è come dimenticata; di più: è evitata quasi come la peste. Tanto che, quando Oliver Brown del Telegraph ha scelto di dialogarci nei giorni scorsi, lei era quasi incredula: «Sei il primo giornalista ad intervistarmi in questo modo da anni. Gli australiani preferirebbero che il mio nome sparisse». Curiosamente, perfino il mondo del tennis sembra averla rimossa.
Il francese Patrick Mouratoglou, allenatore di Serena Williams, ha liquidato i suoi 24 titoli dello Slam come appartenenti a un’«era diversa», con il tennis ancora amatoriale fino al 1968 e meno giocatori internazionali disposti a viaggiare. Che la Court godesse però pure di molti meno privilegi rispetto alle atlete odierno, appoggiandosi ad alberghi ad una stella e non avendo certo un team di massaggiatori e psicologi, a quanto pare, conta nulla. Il pensiero di Mouratoglou non deve essere solo il suo, dato che la leggendaria tennista non è stata più invitata né al Roland Garros né agli Us Open - tornei che ha vinto cinque volte ciascuno - negli ultimi 15 anni. «Per qualunque altro campione di pedigree simile, un trattamento così sprezzante sarebbe impensabile», osserva Brown. Ed è vero.
Ma come mai Margaret Court è così dimenticata, snobbata, perfino evitata quasi avesse la peste? La sua non più verde età non basta certo a spiegare un simile atteggiamento. Che, come ben sottolinea il Telegraph, ha una radice ben precisa: la sua contrarietà alle rivendicazioni Lgbt - in primo luogo alle nozze gay. Era difatti l’anno 2013 quando l’ex tennista, a proposito del figlio della tennista australiana Casey Dellacqua e della sua compagna Amanda Judd, commentò: «Mi rattrista vedere che questo bambino è apparentemente privato di un padre». Non l’avesse mai detto. Attorno alla vincitrice di 64 Slam s’è creato il gelo. E la cosa è peggiorata quattro anni dopo, quando ha annunciato il boicottaggio di Qantas Airways Limited, la compagnia di bandiera australiana, per via del suo sostegno alla causa arcobaleno. La tennista - diventata, dopo il ritiro, pastore d’una congregazione - ha confidato a Brown anche la sua preoccupazione per l’educazione oggi data ai giovani: «I valori cristiani sono stati eliminati dalle scuole. Alcuni bambini non sanno nemmeno più se sono maschi o femmine. E questo è ciò che mi turba, perché guardo alla mia vita e da giovane ero un maschiaccio».
Quest’indole non ha però mai instillato nella Court nessun dubbio circa la sua identità sessuale: «Giocavo a football e a cricket, e battevo tutti i ragazzi. Ma sapevo comunque che i miei due fratelli erano diversi da me. Ora ci sono bambine che dicono: “Mi sento un ragazzo”». Forte, per questo motivo, la contrarietà della donna alle terapie ormonali sui ragazzi affetti da disforia di genere: «Restano intrappolati nei loro corpi e non possono tornare indietro. Cosa stiamo facendo ai nostri giovani?». Margaret Court è trattata come una reietta in patria così come anche nel mondo dello sport, probabilmente, pure per il suo punto di vista sull’Islam, che ricorda quello di Oriana Fallaci: «Ci sono moschee ovunque in Inghilterra. Pensiamo di non avere nulla di cui preoccuparci? Dobbiamo intervenire presto». Un peccato non sia più ascoltata, una che nonostante l’età è ancora capace di simili colpi di racchetta.
Che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) possa mettere fra parentesi la scienza e l’etica in favore di altri interessi, ideologici ma non solo, non è certo una novità. Tuttavia, le nuove linee guida globali sull’infertilità da poco - e per la prima volta - pubblicate appunto dall’Oms contengono passaggi che non possono non colpire, per quanto accompagnati anche da considerazioni di buon senso. Anzitutto, va detto che non si può che salutare positivamente il fatto che l’Oms si occupi dell’infertilità - ossia il mancato raggiungimento di una gravidanza clinica dopo 12 mesi o più di rapporti sessuali regolari non protetti -, dato che essa costituisce a tutti gli effetti una questione sanitaria mondiale.
Una quantificazione del fenomeno è infatti ardua, ma solo dal 1990 al 2010 - secondo un’analisi pubblicata su PLoS Medicine -, si stima che il numero assoluto globale di coppie affette da infertilità sia passato da 42 a 49 milioni, facendo segnare una crescita senza dubbio continuata, e continua, anche ai giorni nostri. Allo stesso modo, nessuno può trovare alcunché da ridire sul fatto che «l’assistenza alla fertilità, che include prevenzione, diagnosi e trattamento dell’infertilità, dovrebbe essere accessibile a tutti», come scrive nell’introduzione al documento Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms. Analogamente, che «una dieta sana, l’attività fisica e la cessazione del fumo» possano prevenire o arginare problemi di infertilità è qualcosa di pacifico.
Assai più problematico, viceversa, risulta il fatto che in «Guideline for the prevention, diagnosis and treatment of infertility» – questo il nome ufficiale delle linee guida – si parli spessissimo della fecondazione in vitro come rimedio all’infertilità, dimenticandosi che esistono non solo altre possibilità di cura dell’infertilità ma pure possibilità prive delle problematiche di ordine etico correlate alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; problematiche alle quali, va da sé, l’Oms pare non dare particolare peso. Al punto da arrivare perfino a raccomandare a livello internazionale l’accesso alla fecondazione in vitro per le coppie omosessuali e non solo. Per la verità, non si tratta d’una richiesta formulata a caratteri cubitali ma, a ben vedere, neppure così nascosta, anzi. Si trova infatti, a pagina 4, in una nota a piè di pagina che presenta più di una criticità.
Tanto per cominciare perché specifica che le linee guida utilizzano «termini come maschio e femmina (nelle sue raccomandazioni) e uomini e donne (nel testo che sintetizza la ricerca) per indicare il sesso biologico assegnato alla nascita». Dunque, secondo l’Oms, il sesso biologico è qualcosa di «assegnato alla nascita», dunque non di naturale bensì di convenzionale. Iniziamo bene. Ma questo è niente, perché nella stessa nota del documento si precisa che si precisa le linee guida si riferiscono, con il termine «coppie», alle «relazioni eterosessuali»; ma questo non significa che l’infertilità sia un problema solo di queste coppie. «Tuttavia», prosegue infatti il testo, «un’ampia varietà di persone, inclusi individui single o che vivono relazioni omosessuali o di genere diverso, potrebbe aver bisogno di servizi per soddisfare le proprie preferenze in materia di fertilità».
Che le «relazioni omosessuali» siano non accidentalmente bensì costitutivamente sterili, come osservava anni or sono il bioeticista Francesco D’Agostino, e quindi l’accostamento tra le due situazioni sia quanto meno opinabile, per l’Oms non rileva. Allo stesso modo, resta un piccolo alone di mistero su quali sarebbero le relazioni «di genere diverso» - forse quelle poligamiche o i cosiddetti poliamori? – cui bisognerebbe prestare attenzione. Sì, perché secondo l’Oms «chi si occupa di assistenza per la fertilità dovrebbe considerare le esigenze di tutti gli individui e fornire loro pari assistenza». Guai, insomma, a ricordare che una coppia di persone dello stesso sesso ha il rischio ma la certezza di trovarsi preclusa l’opzione procreativa.
In egual misura, tutto questo discorso trascura un punto di vista fondamentale: quello del figlio. A tal proposito, contattata dal portale LifeSiteNews, Samantha DeLoach del gruppo Them Before Us, ha fatto notare che «le linee guida dell’Oms trattano l’assistenza all’infertilità principalmente come una questione di accesso ed equità, ma non affrontano mai l’esperienza del bambino nell’ambito della fecondazione in vitro e delle tecnologie correlate». Che i figli della provetta possano scontare più rischi di salute, rispetto agli altri, è infatti un dato noto in letteratura: eppure l’Oms su questo sorvola. Proprio come sorvola sulle alternative alla provetta nella cura dell’infertilità.
Per esempio, una recente ricerca su oltre 1.000 coppie seguite in tre centri specialistici italiani – a cura del professor Giuseppe Grande e pubblicata sulla rivista Andrology – ha dimostrato che, a seguito di trattamenti mirati – antibiotici, integratori, terapia ormonale con Fsh – con l’obiettivo di ristabilire la fertilità naturale, il 41% delle coppie sono riuscite ad avere una gravidanza spontanea: una quota che supera in modo netto quelle medie delle tecniche di fecondazione assistita, soprattutto nelle donne sotto i 40 anni. Naturalmente, di questa ricerca non c’è traccia nelle 260 pagine delle linee guida dell’Oms. Forse perché attorno alla provetta c’è un giro d’affari infinitamente più vasto rispetto a quello di altre cure dell’infertilità? A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina.





