2025-08-06
Ong, porti chiusi, protocollo Albania. Per i giudici ogni scusa è buona
Magistrati al palazzo di Giustizia di Catania contro la riforma della giustizia (Ansa)
Dai processi a Matteo Salvini al caso Almasri: la guerra dei magistrati alla politica non ha tregua. Ma così salta l’equilibrio dei poteri. Ormai è guerra aperta. Dalle Ong, ai rimpatri, dal processo Open Arms, ai Cpr in Albania, quello che la politica fa di giorno, una parte della magistratura sembra ben decisa a disfarlo «di notte». Una versione moderna della tela di Penelope che vede i giudici, da legittimi garanti del sindacato giurisdizionale e quindi della costituzionalità delle leggi, entrare sempre più a gamba tesa nelle decisioni dello Stato e del consenso democratico sul quale si regge. La decisione della Corte di giustizia europea (Cgue) sui Paesi sicuri, salutata con giubilo da molti giudici italiani, in primis dalla presidente di Magistratura democratica Silvia Albano, toga del tribunale di Roma che per prima aveva rifiutato di convalidare i trattenimenti dei migranti nei Cpr di Gjadër, è infatti solo l’ultimo di un lungo elenco di casi nei quali la magistratura ha alzato un argine contro i provvedimenti del governo in materia d’immigrazione. Mentre la Germania rimpatria i migranti in Afghanistan, l’Italia rischia di trovarsi le mani legate nei confronti di quanti provengono da Paesi considerati sicuri come Egitto e Bangladesh per i quali sarebbe prevista la procedura di frontiera accelerata e quindi il trasferimento nei Cpr dell’Albania. Secondo la Cgue infatti, nonostante sia diritto degli Stati stabilire un elenco di Paesi sicuri, tale decisione resta sempre sindacabile dai giudici nazionali. Che hanno dunque l’ultima parola. Una tegola che arriva dopo che lo scorso ottobre il tribunale di Roma, chiamato a convalidare i trattenimenti in Albania, aveva pensato bene di cercare una sponda nella Cgue e di coinvolgerla tramite ricorso pregiudiziale. Una richiesta di aiuto legittima ma che si inserisce in un quadro di continue e sistematiche messe in discussione delle decisioni prese dal governo. E persino dagli stessi tribunali quando serve.Linea che dati i funambolismi giuridici messi in campo nel caso del processo Open Arms contro Matteo Salvini, è difficile non leggere come ai limiti dell’accanimento. Dopo l’assoluzione in primo grado del 20 dicembre «perché il fatto non sussiste», il 19 luglio la Procura di Palermo ha fatto ricorso direttamente in Cassazione, saltando dunque l’appello. Una procedura prevista dal codice di procedura penale ma estremamente inusuale, motivata dalla Procura sulla base di una sorta di rilettura delle motivazioni all’origine del processo. Secondo l’accusa infatti, il tribunale ha assolto Salvini sulla base di un errore di diritto perché non avrebbe effettuato un’analisi dei fatti bensì delle leggi italiane e delle convenzioni internazionali secondo le quali l’Italia non era obbligata a far sbarcare i migranti nel proprio territorio. Motivo per cui, neanche a dirlo, ha deciso di rivolgersi direttamente al terzo grado di giudizio mettendo nuovamente in discussione la legittimità delle scelte di un ministro della Repubblica.Continue bordate alle decisioni del governo arrivano poi dagli stop ai fermi amministrativi disposti dalle autorità nei confronti delle Ong. L’ultimo assist è di ieri e riguarda la nave Aurora della tedesca Sea Watch che esce da un fermo di 18 giorni dopo aver deciso di sbarcare a Lampedusa nonostante le fosse stato assegnato il porto di Pozzallo. Una decisione presa in completo sfregio delle leggi dello Stato che il tribunale di Agrigento ha evidentemente appoggiato accogliendone il ricorso. «Le motivazioni del giudice ribadiscono che il capitano ha rispettato il diritto internazionale, portando al sicuro 70 persone», ha affermato lo staff di Sea Watch evidentemente convinto di avere il supporto necessario per fare politica e dettare legge ad uno Stato che dovrebbe invece essere sovrano. Come se non bastasse ha infatti aggiunto che «bloccare Aurora in un periodo dagli intensi flussi migratori, come quello estivo, è un atto volto a ostacolarci nel salvare vite in mare. Un altro colpo per la legge Piantedosi che ha conseguenze che ricadono solo e soltanto sulle migliaia di persone che ogni giorno rischiano la vita a Sud delle nostre coste». Il riferimento è alle regole di comportamento fissate dal decreto Piantedosi, il d.l. 1/2023, e il messaggio non poteva essere più chiaro visto che grazie ai giudici, le Ong le possono ignorare. Era successo anche l’11 febbraio con il tribunale di Roma e circa un anno fa con quello di Reggio Calabria dei confronti di Sea Eye. Decisioni dalle quali si evince che le Ong possono sbarcare dove vogliono, sguazzare in acque Sar libiche ed effettuare soccorsi senza coordinarsi con la Guardia Costiera Libica nonostante il decreto preveda diversamente visto che la Libia ha un suo centro di coordinamento (Mrcc) competente. Un’altra picconata è arrivata lo scorso 6 marzo quando la Corte di Cassazione ha deciso che il governo, e quindi i cittadini italiani, devono risarcire i 41 migranti che nell’agosto del 2018, erano rimasti 6 giorni sulla nave della Guardia Costiera Diciotti e che sarebbero stati privati della libertà personale. Una decisione curiosa visto che persino sulle Ong, e ben prima del governo Meloni, i tempi di permanenza medi sulle navi di soccorso erano di 5 giorni con Conte. Addirittura 6 con Draghi. Frangenti in cui mai nessuno ha lamentato limitazioni della libertà o sequestri di persona, accusa per cui è invece finito a processo Salvini. Ciliegina sulla torta, il cortocircuito del caso Almasri, con il tribunale dei Ministri che «salva» la premier ma si mette di petto contro i ministri Piantedosi, Nordio, per il sottosegretario Mantovano di cui chiede il processo. Fronti che, c’è da giurarci, non finiscono certo qui.
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