Il presidente americano Donald Trump tira dritto con la riedizione della Dottrina Monroe. Ha infatti annunciato un «blocco totale e completo» delle petroliere sanzionate in entrata o in uscita dal Venezuela.
«Il Venezuela è completamente circondato dalla più grande flotta mai radunata nella storia del Sudamerica. Non farà che aumentare, e lo choc per loro sarà come mai prima d’ora, almeno fino a quando non restituiranno agli Usa tutto il petrolio, la terra e gli altri beni che ci hanno precedentemente rubato», ha dichiarato su Truth l’inquilino della Casa Bianca, riferendosi verosimilmente agli espropri attuati da Hugo Chávez nel 2007. «L’illegittimo regime di Nicolás Maduro sta usando il petrolio di questi giacimenti rubati per finanziare sé stesso, il terrorismo della droga, il traffico di esseri umani, gli omicidi e i rapimenti», ha proseguito, per poi aggiungere: «Il regime venezuelano è stato designato come organizzazione terroristica straniera: pertanto, oggi ordino un blocco totale e completo di tutte le petroliere sanzionate che entrano ed escono dal Venezuela».
Il regime di Caracas, dal canto suo, ha replicato duramente alle parole di Trump, bollandole come «minacce guerrafondaie». Nel frattempo, il governo di Maduro ha stracciato i contratti sul gas naturale sottoscritti con la Repubblica di Trinidad e Tobago, accusando quest’ultima di aver assistito gli Usa nel recente sequestro di una petroliera al largo del Venezuela. Come che sia, dopo l’annuncio del blocco da parte dell’inquilino della Casa Bianca, il Brent è salito del 2,4%, mentre il Wti del 2,6%.
Ora, non è un mistero che l’amministrazione Trump abbia da tempo accusato Maduro di essere coinvolto in attività di narcotraffico perpetrate ai danni degli Stati Uniti. È innanzitutto in quest’ottica che, a partire da settembre, il Pentagono ha effettuato vari attacchi, in area caraibica, contro barche sospettate di trafficare droga. Washington ha anche schierato undici navi da guerra al largo del Venezuela, mentre l’amministrazione americana sta da settimane prendendo in considerazione l’eventualità di attacchi militari direttamente sul territorio del Paese latinoamericano. Inoltre, la settimana scorsa, Washington ha sequestrato una petroliera venezuelana, mettendone altre sei sotto sanzioni. In tutto questo, sono mesi che Trump invoca le dimissioni di Maduro: un Maduro che, secondo quanto rivelato alcune settimane fa dal Washington Post, avrebbe recentemente cercato di ottenere materiale bellico da Cina, Russia e Iran.
E qui veniamo al lato geopolitico della faccenda. Sì, perché l’obiettivo del presidente americano non si ferma alla pur cruciale questione del traffico di droga. Per capirlo, dobbiamo tornare alla strategia di sicurezza nazionale che la Casa Bianca ha pubblicato a inizio dicembre. «Vogliamo garantire che l’Emisfero occidentale rimanga ragionevolmente stabile e sufficientemente ben governato da prevenire e scoraggiare la migrazione di massa verso gli Stati Uniti; vogliamo un emisfero i cui governi cooperino con noi contro narcoterroristi, cartelli e altre organizzazioni criminali transnazionali; vogliamo un emisfero che rimanga libero da incursioni straniere ostili», si legge nel documento, che prosegue: «In altre parole, affermeremo e applicheremo un “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe».
Insomma, il presidente americano vuole rafforzare l’influenza statunitense sull’Emisfero occidentale non soltanto per contrastare il narcotraffico e l’immigrazione illegale, ma anche per arginare «incursioni straniere ostili»: un riferimento implicito, ma abbastanza chiaro, alla Cina, che ha nel regime di Maduro uno dei propri punti di riferimento in America Latina. D’altronde, è proprio Pechino a risultare il principale acquirente di petrolio venezuelano. In altre parole, aumentando la pressione su Caracas, Trump mira indirettamente a colpire la Cina. E lancia al contempo un monito a quei Paesi latinoamericani che, agli occhi della Casa Bianca, intrattengono legami troppo stretti con il Dragone.
Sotto questo aspetto, è interessante una recente analisi della Bbc, secondo cui, al netto delle dichiarazioni di facciata, né Pechino né Mosca si starebbero concretamente impegnando per sostenere Caracas nel suo duello con Washington. Se ciò fosse confermato, significherebbe che Cina e Russia starebbero riconsiderando il proprio ruolo in America Latina alla luce della riedizione della Dottrina Monroe promossa da Trump. Tra l’altro, vari Paesi della regione si stanno spostando elettoralmente a destra, avvicinandosi all’attuale amministrazione statunitense: l’ultimo, in ordine di tempo, è stato il Cile, dove, al ballottaggio presidenziale di domenica, ha trionfato il candidato conservatore José Antonio Kast.
È quindi all’interno di queste complesse dinamiche geopolitiche che va inserita la crisi in atto tra Washington e Caracas: un dossier che, per Trump, ha anche delle ricadute di politica interna. Secondo alcuni parlamentari statunitensi, l’inquilino della Casa Bianca non avrebbe l’autorità per agire militarmente nei Caraibi senza l’autorizzazione del Congresso. Trump, dal canto suo, si sta opponendo a questa interpretazione del War Powers Act, facendo ricorso a un precedente: l’intervento bellico in Libia, ordinato da Barack Obama nel 2011, che avvenne senza l’ok del potere legislativo.
L’Ue è finita in stallo sul dossier degli asset di Mosca. Lunedì sera, il Belgio ha respinto la proposta della Commissione europea di un prestito da 210 miliardi di euro all’Ucraina, che dovrebbe essere finanziato attraverso i beni russi congelati. In particolare, il governo guidato da Bart De Wever non ha ritenuto sufficienti le rassicurazioni messe sul tavolo da Ursula von der Leyen.
«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
Il Cile vira a destra. Il candidato presidenziale conservatore, José Antonio Kast, ha battuto al ballottaggio l’avversaria di sinistra, Jeannette Jara, ottenendo il 58% dei voti contro il 41% conseguito dalla rivale.
«Il Cile tornerà ad essere libero dalla criminalità, libero dall'angoscia, libero dalla paura», ha dichiarato il vincitore. «Criminali, delinquenti: le loro vite cambieranno. Li cercheremo, li troveremo, li giudicheremo e poi li rinchiuderemo», ha aggiunto. Sostenitore di Donald Trump, Kast, durante la campagna elettorale, ha promosso un programma politico securitario e all’insegna di una stretta contro l’immigrazione clandestina. Non solo. Ha anche promesso una politica economica liberista e improntata alla deregulation in determinati settori.
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.




