È un alone nebuloso quello che circonda al momento il processo diplomatico ucraino. L’altro ieri, l’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, hanno avuto al Cremlino un colloquio di cinque ore con Vladimir Putin sul piano di pace statunitense.
Il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov, ha, sì, definito l’incontro «utile, costruttivo e molto concreto», ma ha anche precisato che resta «molto lavoro da fare». «Non siamo certo più lontani dalla pace», ha poi specificato. «Siamo riusciti a concordare alcuni punti, altri hanno suscitato critiche, ma l’essenziale è che si sia svolta una discussione costruttiva e che le parti abbiano dichiarato la loro volontà di proseguire negli sforzi», ha continuato, pur sottolineando che sulla questione dei territori «non è ancora stata scelta alcuna soluzione di compromesso», nonostante «alcune proposte americane possano essere discusse». «Apprezziamo la volontà politica del presidente Trump di continuare a cercare soluzioni. Siamo tutti pronti a incontrarci tutte le volte che sarà necessario per raggiungere una soluzione pacifica», ha dichiarato, dal canto suo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha anche accusato gli europei di «rifiutare» il dialogo con Mosca, per poi sostenere che Putin non avrebbe respinto in toto il piano di pace americano.
«Quello che stiamo cercando di capire è se è possibile porre fine alla guerra in un modo che protegga il futuro dell’Ucraina e che entrambe le parti possano accettare», ha affermato, martedì sera, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, commentando il colloquio svoltosi al Cremlino. «Penso che abbiamo fatto qualche progresso, ma non siamo ancora arrivati al traguardo», ha aggiunto, per poi specificare: «Solo Putin può porre fine a questa guerra da parte russa». Ricordiamo che, ieri, Rubio, oltre a parlarsi telefonicamente con Antonio Tajani sulla mediazione statunitense in Ucraina, non ha preso parte alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato, facendosi rappresentare dal suo vice. Un’assenza a suo modo significativa che il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, ha comunque cercato di minimizzare, affermando: «Non leggiamo più di quanto non ci sia». «C’è solo una persona al mondo che è in grado di sbloccare la situazione quando si tratta della guerra in Ucraina, ed è il presidente americano Donald J. Trump» ha anche detto, puntando così a rinsaldare le relazioni transatlantiche. Relazioni tuttavia un po’ scricchiolanti: secondo Politico, ieri, al vertice Nato, il vicesegretario di Stato americano, Christopher Landau, ha criticato gli europei per aver allentato i loro legami con l’industria della difesa statunitense.
Nel frattempo, sempre ieri, è saltato l’incontro che avrebbe dovuto tenersi a Bruxelles tra Witkoff e Volodymyr Zelensky. «Dopo Bruxelles, Rustem Umerov e Andrii Hnatov inizieranno i preparativi per un incontro con gli inviati del presidente Trump negli Stati Uniti», ha dichiarato, poco dopo la notizia, il presidente ucraino. «I rappresentanti ucraini informeranno i loro colleghi in Europa su quanto emerso dai contatti avvenuti ieri a Mosca da parte americana e discuteranno anche della componente europea della necessaria architettura di sicurezza», ha aggiunto. Una doccia fredda sull’Ucraina è frattanto arrivata dal presidente finlandese, Alexander Stubb. «La realtà è che anche noi finlandesi dobbiamo prepararci al momento in cui la pace sarà ristabilita e che tutte le condizioni per una pace giusta di cui abbiamo tanto parlato negli ultimi quattro anni hanno poche possibilità di essere soddisfatte», ha affermato.
È in questo quadro ingarbugliato che Emmanuel Macron continua a cercare di ritagliarsi il ruolo di anti-Trump. Il presidente francese si è recato a Pechino, dove, secondo la Bbc, ha intenzione di discutere della crisi ucraina con Xi Jinping, per cercare di convincerlo a fare pressione su Putin. Si tratta, in sostanza, della stessa strategia portata avanti per anni dall’amministrazione Biden, che però non ha avuto alcun effetto concreto. È d’altronde tutto da dimostrare che Pechino auspichi realmente una conclusione del conflitto ucraino. Se all’inizio dell’invasione si era presentato come l’uomo del dialogo con Mosca, dal 2024 l’inquilino dell’Eliseo si è riscoperto falco antirusso (pur non disdegnando di mandare, lo scorso maggio, l’ambasciatore francese all’insediamento presidenziale di Putin). Adesso, nel suo iperattivismo inconcludente, Macron sta tentando di aprire un non meglio precisato percorso diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tenendo la mano al rivale sistemico degli Usa: il che rischia di portare indirettamente a nuove fibrillazioni tra Washington e Bruxelles.
In tutto questo, ieri, al vertice della Nato, il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha discusso con gli omologhi di Bulgaria e Romania dei recenti attacchi ucraini nel Mar Nero. Attacchi che, lunedì, Tayyip Erdogan aveva severamente criticato, affermando: «Non possiamo in nessun caso accettare questi attacchi, che minacciano la sicurezza della navigazione, dell’ambiente e della vita nella nostra zona economica esclusiva». Un’irritazione, quella di Ankara, che potrebbe avere impatti negativi sulla posizione negoziale di Zelensky, che già deve gestire le difficoltà legate al caso Yermak. Fidan ha inoltre reso noto che il presidente turco continua a essere in contatto con Putin. «La cosa principale è che i negoziati continuino e che si trovi una via di mezzo. Credo che Witkoff, che attualmente sta mediando, possa svolgere un ruolo positivo. Ha sufficienti competenze», ha affermato.
Le trattative sulla crisi ucraina sono a un punto di svolta? Ieri sera, Vladimir Putin ha ricevuto al Cremlino l’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner. Prima che iniziasse la sessione a porte chiuse, Witkoff - che avrebbe cenato in un ristorante stellato con piatti a base di caviale quaglia e carne di cervo - ha definito Mosca «una città magnifica». Nel momento in cui La Verità andava in stampa, il colloquio, a cui hanno preso parte anche i consiglieri presidenziali russi Kirill Dmitriev e Yuri Ushakov, non era ancora terminato, anche perché, secondo la Cnn, lo zar avrebbe fatto attendere la delegazione Usa, non rispettando la tabella di marcia prevista. Il meeting è del resto iniziato con più di due ore di ritardo. Poco prima dell’incontro, il presidente russo ha accusato i governi europei di sabotare i negoziati di pace. «L’Europa sta impedendo all’amministrazione statunitense di raggiungere la pace in Ucraina», ha tuonato, bollando le richieste europee come «inaccettabili per la Russia». «Se l’Europa vuole combattere la guerra, siamo pronti adesso», ha aggiunto. «Se le forze di Kiev continueranno ad attaccare petroliere e altre navi nel Mar Nero, la Russia risponderà nel modo più radicale, isolando l’Ucraina dal mare», ha continuato il presidente russo.
Nel frattempo, sempre prima che iniziasse il colloquio al Cremlino, ha parlato anche Volodymyr Zelensky dall’Irlanda. «Ora più che mai c’è la possibilità di porre fine a questa guerra», ha dichiarato, per poi aggiungere: «Attualmente ci sono 20 punti sviluppati a Ginevra e ulteriormente perfezionati in Florida, ma da quello che ho visto, alcune cose devono ancora essere elaborate». «L’America sta prendendo seri provvedimenti per porre fine alla guerra in un modo o nell’altro», ha proseguito il presidente ucraino, invocando una «pace decente e dignitosa». Zelensky, che si è detto anche disposto a incontrare direttamente Trump, ha poi reso noto che avrebbe avuto dei contatti con il team negoziale statunitense subito dopo la conclusione dell’incontro tra Witkoff e Putin. «Un po’ di ottimismo c’era nelle mie parole, dovuto alla velocità dei negoziati e all’interesse americano. Ciò dimostra che l’America non si sta ritirando da alcun tipo di dialogo diplomatico, e questo è positivo», ha comunque affermato in serata il presidente ucraino, che ha però aggiunto di temere che gli Usa possano perdere interesse per i negoziati. Zelensky incontrerà Witkoff e Kushner oggi, in un paese europeo non ancora specificato prima che il giornale andasse in stampa.
«Un ruolo importante può essere giocato dall’Italia grazie alle sue capacità di mediazione che ha culturalmente e storicamente», ha detto ieri papa Leone XIV conversando con i giornalisti sul volo che lo ha condotto da Beirut a Roma.
Vale la pena di sottolineare come l’incontro di ieri al Cremlino abbia fatto seguito ai colloqui, tenutisi domenica a Miami, tra la delegazione di Washington e quella di Kiev: colloqui che non sono riusciti ad appianare tutte le divergenze sul tavolo. Non è del resto un mistero che continui a registrarsi una certa distanza tra Stati Uniti e Ucraina su una serie di questioni, a partire dalle garanzie di sicurezza e dalle cessioni territoriali. Soprattutto su quest’ultimo tema, Zelensky sta cercando di puntare i piedi, mentre la Casa Bianca lo spinge ad ammorbidire la sua linea. Il nodo principale, sotto questo punto di vista, riguarda specialmente il destino del Donbass, che Putin vuole interamente sotto il controllo di Mosca. Il presidente ucraino, dal canto suo, deve frattanto affrontare un indebolimento della propria posizione negoziale a causa dello spinoso caso Yermak.
Come che sia, probabilmente anche per cercare di mettere sotto pressione Washington, proprio ieri, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha avuto un colloquio con l’omologo cinese, Wang Yi, dedicato (anche) al conflitto ucraino. Secondo una nota di Mosca, durante il confronto «è stata prestata notevole attenzione alle prospettive di risoluzione della crisi in Ucraina, affrontando le cause profonde del conflitto e tenendo in debita considerazione gli interessi fondamentali della Federazione russa». In tutto questo, sempre ieri, mentre Witkoff e Kushner parlavano con Putin, Trump ha tenuto una riunione di gabinetto, affermando: «Ho risolto otto guerre. Questa sarebbe la nona, e la nostra gente è in Russia in questo momento per vedere se possiamo risolvere la situazione. Non è una situazione facile, lasciatemelo dire, che casino. È una guerra che non sarebbe mai scoppiata se fossi stato presidente, nemmeno per sogno». «Mentre vi parliamo ora, Steve Witkoff è a Mosca per cercare di trovare un modo per porre fine a questa guerra», ha aggiunto il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
Non è comunque escluso che, durante i colloqui di ieri al Cremlino, si sia parlato anche di Medio Oriente. Witkoff e Kushner sono d’altronde i principali autori dell’accordo tra Israele e Hamas. Inoltre, Trump e Putin hanno bisogno l’uno dell’altro in questa regione. Il presidente americano necessita della sponda dello zar per arrivare a un’intesa sul nucleare con l’Iran. Il Cremlino ha invece necessità della Casa Bianca per recuperare influenza in Siria, farsi includere nella ricostruzione di Gaza e non restare tagliato fuori dal rilancio degli Accordi di Abramo. È quindi verosimile che Trump punti a usare la leva mediorientale per arrivare indirettamente a un accordo con Putin sull’Ucraina.
Ucraina, oggi Witkoff incontra Putin. Zelensky e Macron insistono per non cedere territori
- Ieri il colloquio del presidente ucraino con l’omologo francese, Rutte, diversi leader europei e Starmer. Meloni: «Convergenza Usa-Unione, Mosca dia il suo contributo».
- Col debito Ue armiamo Kiev anziché l’Europa. Fondi Safe di 15 Stati con aiuti alla resistenza. Bruxelles insiste sui beni russi, il Belgio: «Rischio bancarotta».
Lo speciale contiene due articoli.
Washington continua a tessere la tela diplomatica per cercare di portare a conclusione la guerra in Ucraina. L’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, sono attesi oggi a Mosca, dove incontreranno Vladimir Putin. Ci si attende che i tre discuteranno della proposta di pace in 19 punti, emersa dai colloqui di Ginevra tra Washington e Kiev. Alcuni giorni fa, il Telegraph aveva riferito che, nella sua visita in Russia, Witkoff avrebbe sottoposto un’offerta allo zar: gli americani riconoscerebbero la sovranità di Mosca su Crimea e territori occupati, mentre il Cremlino, dal canto suo, accetterebbe un accordo di pace. Non sappiamo se Witkoff avanzerà realmente questa proposta al presidente russo. È tuttavia abbastanza chiaro che il suo viaggio a Mosca potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle trattative.
Tra l’altro, ieri, lo stesso Witkoff ha avuto modo di parlare con Volodymyr Zelensky, Emmanuel Macron e l’attuale capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, in quello che il presidente ucraino ha definito un «briefing importante». «Abbiamo concordato di discutere personalmente maggiori dettagli: i team coordineranno i programmi per possibili contatti futuri», ha aggiunto. Poco prima, il leader ucraino aveva avuto una conferenza con i leader europei, a cui aveva preso parte anche Giorgia Meloni, la quale, in una nota di Palazzo Chigi, aveva «ribadito l’importanza della convergenza di vedute tra partner europei e Stati Uniti quale fondamento per il raggiungimento di una pace giusta e duratura», auspicando «che Mosca offra a sua volta un fattivo contributo al processo negoziale».
Non solo. Witkoff era anche presente, insieme al segretario di Stato americano Marco Rubio, ai colloqui tenutisi domenica a Miami tra la delegazione statunitense e quella ucraina, guidata da Umerov. «Abbiamo avuto una sessione molto produttiva. Non vogliamo solo porre fine alla guerra, ma rendere l’Ucraina sicura per sempre», ha dichiarato Rubio dopo il meeting dell’altro ieri, per poi tuttavia precisare che «c’è ancora molto lavoro da fare». Da parte ucraina, i colloqui in Florida sono stati definiti «intensi, ma non negativi». «Ci sono ancora alcune questioni difficili che devono essere risolte», ha comunque dichiarato ieri Zelensky, riferendosi al meeting di Miami.
Secondo The Hill, il nodo principale continuerebbe a risiedere nella questione delle cessioni territoriali e in quella delle garanzie di sicurezza all’Ucraina: due dossier, rispetto a cui si registra ancora una certa distanza tra Washington e Kiev. E infatti ieri, in conferenza stampa con Macron a Parigi, il presidente ucraino ha detto che soltanto l’Ucraina può prendere decisioni sui propri territori. «La Russia deve fermare l’aggressione. Non ha dato alcun segnale, nessuna prova in tal senso», ha inoltre dichiarato, aprendo alla possibilità di un colloquio diretto con Trump per discutere delle «questioni chiave», dopo che Witkoff sarà tornato dalla Russia. «Dobbiamo fare in modo che la Russia non abbia l’impressione di ottenere una ricompensa per la guerra», ha proseguito il presidente ucraino, mentre Macron, sentendo Trump al telefono, ha sottolineato la necessità di garanzie di sicurezza per Kiev.
Il problema, per Zelensky, è che le manovre diplomatiche stanno entrando in una fase delicata proprio mentre lui si è indebolito politicamente. Il passo indietro, venerdì scorso, di Andriy Yermak - che, oltre a essere capo di gabinetto dell’Ufficio presidenziale ucraino era anche il leader del team negoziale di Kiev - ha notevolmente fiaccato la posizione dello stesso Zelensky al tavolo diplomatico. Tanto più che l’uscita di scena di Yermak non sarebbe avvenuta in modo indolore. «Stando alla Urkainska Pravda, Yermak era isterico quando Zelensky gli ha proposto di dimettersi», ha riferito ieri Nexta, secondo cui l’ormai ex capo di gabinetto sarebbe stato silurato da uno sforzo di concerto tra funzionari e ministri che lo ritenevano ormai un problema a causa dell’indagine su di lui condotta dall’autorità anticorruzione. D’altronde, nonostante si parlasse di sue «dimissioni», venerdì stesso Zelensky aveva firmato un decreto di «rimozione» del suo braccio destro. Le stesse parole rilasciate da Yermak al New York Post dopo l’estromissione erano apparse particolarmente astiose. Certo: interpellato sullo scandalo corruzione che sta scuotendo i vertici di Kiev, ieri Macron ha replicato che la Francia «non dà lezioni» all’Ucraina. Resta comunque il fatto che questa situazione rischia di indebolire seriamente il presidente ucraino in una fase cruciale del processo diplomatico. E difficilmente Parigi potrà offrirgli una sponda troppo solida rispetto alle pressioni di Washington, che punta a chiudere il conflitto con l’obiettivo principale di sganciare il più possibile Mosca da Pechino. Agli occhi di Trump è infatti questa la partita prioritaria. Senza infine trascurare che Casa Bianca e Cremlino cercano una sponda reciproca in Medio Oriente. Putin ha bisogno di Trump per recuperare terreno in Siria, farsi coinvolgere nel rilancio degli Accordi di Abramo e non restare tagliato fuori dalla ricostruzione di Gaza. Trump, per parte sua, ha bisogno di Putin per arrivare a un accordo sul nucleare con l’Iran. Non è un caso che oggi, a Mosca, andranno Witkoff e Kushner: i protagonisti del piano di pace per Gaza e, soprattutto, le figure di raccordo della Casa Bianca con Israele e l’Arabia Saudita. È in questo quadro geopolitico complesso che il presidente americano sta leggendo e cercando di risolvere il rebus ucraino.
Col debito Ue armiamo Kiev anziché l’Europa
A Bruxelles, in assenza di fatti nuovi, sono abituati a riciclare fatti vecchi, spacciandoli per nuovi. Ieri è stata la volta del piano Safe - uno strumento di finanziamento fino a 150 miliardi per le spese militari - lanciato dalla Commissione a fine maggio. Infatti il 30 novembre scadeva il termine per presentare - da parte dei 19 Stati membri che a fine luglio avevano espresso un’opzione - il piano delle spese da eseguire nel quinquennio 2026-2030 da finanziarsi con «comodi» prestiti erogati dalla Commissioni rimborsabili fino a 45 anni.
I piani di spesa hanno sostanzialmente confermato le opzioni espresse già a fine luglio, con l’Italia che potrebbe attingere a un prestito fino a 14,9 miliardi e la Polonia in testa al gruppo dei richiedenti con 43 miliardi. Rilevanti anche le richieste di Ungheria (16 miliardi), Romania (17 miliardi) e Lettonia e Lituania (circa 6 miliardi, una cifra molto rilevante rispetto al Pil). Immediato l’annuncio «urbi et orbi» del commissario Ue alla Difesa, Andrius Kubilius, che ha definito il programma Safe come «fondamentale per la prontezza della difesa dell’Ue e per la nostra base industriale». «Quindici Paesi hanno incluso il sostegno all'Ucraina. Più del previsto! E parliamo di miliardi, non di milioni», ha aggiunto Kubilius.
A ben vedere, Safe è uno strumento di finanziamento a sostegno di piani di acquisto di un nutrito elenco di sistemi d’arma, per almeno il 65% fabbricati nella Ue. Per evitare frammentazioni negli acquisti, ciascuno Stato beneficiario dovrà partecipare ad appalti comuni, coinvolgendo almeno uno Stato membro beneficiario di Safe e un altro Stato membro, nonché l’Ucraina e i paesi See-Efta.
Quello che Kubilius non ha detto è che si tratta del mero finanziamento di spese già previste in bilancio - come dichiarato dal ministro Giancarlo Giorgetti già a fine luglio - quando ha definito il Safe una «fonte alternativa per finanziare spese in larga parte già previste e già in itinere». Niente di più di quanto già previsto nel bilancio della Difesa che, fino al 2028, dovrebbe passare gradualmente da circa 45 miliardi del 2025 a 61 miliardi. Equivale a decidere a quale banca rivolgersi, una volta che si è deciso di ristrutturare la casa. Noi continuiamo a sostenere che la Commissione sia una «banca» solo apparentemente meno costosa, dato il carico di burocrazia e condizioni che assistono qualsiasi finanziamento da Bruxelles, tristemente sperimentato per il Pnrr. Ma nonostante Giorgetti abbia fatto valutazioni diverse, solo di questo si tratta, non di nuove spese militari. La cui abbondanza comincia a destare strani appetiti, perché ieri in Germania, la Bundeswehr si è vista derubata quasi dell’intero carico di un camion civile carico di proiettili e granate, lasciato incustodito.
Preso dal trionfalismo dell’annuncio, Kubilius si è ben guardato dal parlare del fallimento del negoziato per l’adesione del Regno Unito al programma Safe, annunciato proprio nelle stesse ore. La Commissione aveva chiesto a Londra un contributo di 6,7 miliardi e si è vista fare una irricevibile controfferta di 82 milioni, per la delusione dell’industria militare di Sua Maestà che già pregustava lauti affari e che ora parteciperà soltanto alla quota residua del 35% destinata alle industrie extra Ue.
Invece i soldi che non si trovano continuano ad essere quelli destinati a finanziare il fabbisogno delle esauste casse statali ucraine. A perorare la causa dell’utilizzo degli asset russi, ieri è stato il turno di Kaja Kallas, alto rappresentante Ue per gli Esteri. Si tratta della «soluzione migliore» a suo dire, per poi aggiungere che «non intende sminuire le preoccupazioni del Belgio […] possiamo assumerci i rischi insieme […] dobbiamo lavorare sulla proposta legislativa, per affrontare o mitigare tutti i rischi e assumerci l’onere». Molto facile per l’ex-premier estone parlare di condivisione dei rischi, quando il suo Paese coprirebbe quei rischi per una percentuale infinitesimale, mentre un Paese come l’Italia sarebbe chiamata a fornire garanzie per almeno il 14% del totale. Intanto ci sarà poco da attendere per conoscere i decisivi dettagli di questo guazzabuglio, perché sempre ieri la Commissione ha annunciato che la proposta legislativa è attesa a giorni.
Dal Belgio intanto il ministro degli esteri, Maxime Prévost ha ribattuto, osservando quanto andiamo scrivendo da settimane: «I rischi per il Belgio sono semplici: se la Russia ci porta in tribunale avrà tutte le possibilità di vincere e noi non saremo in grado di rimborsare questi 200 miliardi perché rappresentano l’equivalente di un anno di bilancio federale. Significherebbe la bancarotta». Un’uscita che alza ancora il livello dello scontro, fatto di botta e risposta ormai quotidiani e che dimostra il concreto timore dei belgi di restare col cerino in mano e, al contempo, l’evidente riottosità degli altri Stati membri di appesantire ancora i rispettivi bilanci pubblici. Ma ormai sta per alzarsi il sipario e così conosceremo tutti i dettagli della tragicommedia in corso.





