2025-08-04
Toghe ancora contro il Cpr albanese
Il Cpr di Gjader in Albania (Getty Images)
Per il giudice Albano, nel centro di Gjader «è impossibile garantire il diritto alla cura». Ma è l’ennesimo tentativo di sabotare i piani del governo sui migranti.Altro giro, altra sentenza. E un’altra legnata giudiziaria al piano del governo Meloni per contenere l’immigrazione irregolare fuori dai confini nazionali. Dalla solita toga: Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica e giudice della Sezione diritti della persona e immigrazione civile del Tribunale di Roma. È stata la prima a bocciare il Piano Albania. Ma stavolta nel mirino non c’è il principio del Paese sicuro. Il Tribunale di Roma decide di giocare sul campo sanitario per minare l’impianto del Piano Albania: a Gjader «non è possibile offrire adeguata assistenza sanitaria, diritto costituzionalmente garantito». Così, per la Fase due del progetto, quella che prevede di trasferire in Albania anche chi è già trattenuto nei Cpr italiani, i giudici intervengono a colpi di diagnosi, cartelle cliniche e psicofarmaci somministrati, si legge, «senza» adeguato «consenso». Una bocciatura condita con tono da circolare ministeriale e linguaggio da primario dell’Asl. Il caso riguarda un migrante che, dopo essere stato trattenuto nel Cpr di Torino, viene trasferito a Gjader. Dal 2016, quando è giunto in Italia, ha sempre lavorato, precisano i suoi avvocati, ma senza contratto. Irregolare ma operoso. Poi è arrivato il provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera emesso dal prefetto di Vercelli e convalidato dal Giudice di pace. Arrivato in Albania il 9 maggio, il migrante, dopo aver presentato «domanda reiterata di protezione» considerata dalla Corte d’appello di Roma «strumentale», comincia a soffrire di «insonnia», riuscendo a dormire, si legge nella decisione della Albano, «una o due ore per notte», con «incubi ricorrenti». Infine avrebbe smesso di nutrirsi. E il 19 giugno ha lamentato «frequente angoscia», con «umore leggermente depresso» ma «senza ideazione suicidiaria». A quel punto, stando alla ricostruzione giudiziaria, al di fuori delle linee guida del Sistema sanitario nazionale, gli sarebbero stati somministrati degli psicofarmaci «senza adeguata prescrizione medica», sostiene il giudice, «e al solo scopo di sedazione». I medicinali sono il Rivotril (un antiepilettico) e il Trittico (un sedativo antidepressivo). Una posologia che nel provvedimento giudiziario diventa un crimine. Non perché inefficace, ma perché, «off label». Non prevista. Ecco la valutazione del giudice: «La modalità con cui attualmente il ricorrente è trattenuto nel Cpr di Gjader è lesiva del suo diritto fondamentale alla salute». Viene quindi disposto un provvedimento d’urgenza, «inaudita altera parte». Ovvero con l’assenza dell’Avvocatura dello Stato. Perché, secondo il giudice, ci si potrebbe trovare davanti questa condizione: «L’irreparabilità dei danni che possono derivare dalla carenza delle cure». Poi l’ordinanza assume il piglio dell’inchiesta. Scava nel diario clinico e segnala: «Non si evince nemmeno a quale ordine appartengano i medici che hanno in cura il ricorrente e se appartengano o meno al servizio sanitario italiano». Ovviamente senza l’ascolto dell’altra campana il gioco diventa facile: «Non risulta essere presente in Albania un presidio fisso del Servizio sanitario nazionale italiano». E nessuno ha potuto controbattere. «Il ricorrente», quindi, deve essere «preso in carico da una struttura adeguata quale il centro di salute mentale presso la Asl». E siccome nel fascicolo sanitario del migrante spuntava anche un’indicazione terapeutica che invitava ad attivare supporto psicologico, è stato annullato il provvedimento di trattenimento. Anche perché, precisa la Albano, anche il trasferimento «in altro Cpr in territorio italiano non risolverebbe il problema, posto che non è prevista nei Cpr che l’assistenza sanitaria venga fornita direttamente dal Servizio sanitario nazionale, a differenza di quanto previsto per gli istituti penitenziari». La decisione: «Deve pertanto ritenersi», scrive la Albano, «che nel caso di specie l’unica misura idonea a tutelare il diritto alla salute del ricorrente sia la cessazione del trattenimento e la immediata liberazione». Una pronuncia che potrebbe innescare una valanga di ricorsi, presentati non solo da chi è trattenuto in Albania. Il principio, insomma, potrebbe valere per qualsiasi Cpr. Non serviranno più avvocati esperti di immigrazione. Potrebbe bastare una diagnosi.