Scene da un patrimonio. La banda di presunti terroristi che, dall’Italia, avrebbe foraggiato a suon di milioni la jihad islamica di Hamas, maneggiava denaro, ma, soprattutto, investiva nel mattone. Una scelta che dimostra quanto fosse mal riposta la fiducia di chi affidava a questi signori gli oboli per Gaza.
Gli specialisti dell’Antiterrorismo, in queste ore, stanno cercando di capire con quali soldi uno degli arrestati nell’operazione Domino della Procura di Genova abbia acquistato, negli ultimi mesi, decine di immobili. Il sospetto è che siano stati utilizzati i fondi degli aiuti per Gaza.
Il che dimostrerebbe che questi denari non erano destinati a una rapida consegna nelle mani dei bisognosi, ma a tutt’altri fini.
Nell’ordinanza di arresto per nove persone, il gip Silvia Carpanini dedica un approfondimento a uno dei soggetti finiti in manette, Adel Ibrahim Salameh Abu Rawwa, accusato di concorso esterno in associazione terroristica, avendo dato «un rilevante contributo all’organizzazione». Ufficialmente l’uomo risulta dipendente dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese (presieduta dal coindagato Mohammad Hannoun), di cui era il «referente per la raccolta delle donazioni nelle regioni del Nordest»: «Dal monitoraggio del Sistema informativo valutario, è emerso che l’indagato è stato oggetto di segnalazione da parte della Uif, in merito all’acquisto all’asta, in un lasso temporale ristretto, di oltre 40 immobili senza peraltro accedere ad alcuna linea di finanziamento», scrive la Carpanini. Un vero e proprio immobiliarista che sulla carta era, però, un semplice impiegato dell’Abspp.
In realtà, consultando l’archivio del catasto, si scopre che Rawwa risulta intestatario, a seguito di decreti di trasferimento immobiliari (successivi a fallimenti) emessi dall’autorità giudiziaria, di 90 immobili complessivi: 55 in provincia di Modena (decreto del tribunale di Modena, 24 maggio 2021) e 35 in provincia di Reggio Emilia (decreto del tribunale di Reggio Emilia, 21 dicembre 2023). Si tratta di 48 fabbricati divisi tra appartamenti di varie categorie (da quelle di tipo civile a quelle di tipo economico), un ufficio, 14 autorimesse, otto tra magazzini, cantine e depositi, cinque fabbricati da ultimare (e quindi non classificati) e 14 terreni agricoli. Il patrimonio a mosaico è concentrato in piccoli e medi comuni emiliani.
L’indagine, portata avanti dalla Digos e dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Genova, oltre che dal Nucleo speciale di polizia valutaria, ha approfondito il ruolo di Rawwa.
Nell’ordinanza viene descritto come l’uomo chiave della raccolta fondi, la cerniera tra Italia e Gaza. Con un peso specifico che emerge dai numeri. Quelli che Hannoun, senza retorica, gli riconosce: «Tu da solo in otto mesi (hai raccolto, ndr) quello che non si è mai raccolto in tre o quattro anni». La risposta di Rawwa è secca: «Sì, è vero, senza contare quelli del Pos e altre cose, sono arrivato a quasi 1 milione e 900.000 euro». Denaro che non resta fermo. E Rawwa non è solo il collettore. È anche lo spallone, l’uomo delle valigie e degli zaini. Le intercettazioni lo collocano più volte nelle sedi dell’associazione. O in giro per le consegne. In un’occasione affida a un complice «la somma di 250.000 euro in contanti» al casello autostradale di Lodi («Non li posso tenere tutti da me», è la giustificazione). Oltre ai contanti aveva raccolto altri 56.000 euro tramite Pos e 22.000 euro in bonifici, «per un totale di 340.000 euro», ricostruiscono gli inquirenti. In un’intercettazione spiega la suddivisione dei soldi: «Ogni pacchetto contiene 5 e sono 30, quindi 150.000». Durante le indagini gli investigatori lo hanno pizzicato mentre porta «uno zaino contenente 180.000 euro» proprio ad Hannoun. Sempre al telefono Rawwa rivendica: «Noi siamo l’unica associazione in Italia che raccoglie fondi per Gaza». Ed è in contatto diretto con Osama Alisawi, ex ministro dei Trasporti di Hamas e cofondatore della Abspp. Rawwa spiega anche che per far passare dall’Egitto una carovana di 28 camion, l’associazione di Hannoun ha dovuto distribuire «86.000 euro di mazzette» ai soldati del Cairo: 2.500 per mezzo, più 400 euro per ogni militare di scorta. E quando la «beneficenza» rischia di diventare un problema, Rawwa lo intuisce. Durante una conversazione invita l’interlocutore a «non parlare di queste cose».
Poi detta la linea: «Noi siamo per gli aiuti umanitari». Subito dopo ammette la pressione: «I nostri telefoni al milione per cento sono intercettati». Quando i conti correnti vengono chiusi, Rawwa trova la soluzione. La strategia è semplice: una nuova associazione «con persone che non devono essere già registrate con la vecchia e che non abbiano nulla a che fare con le manifestazioni (e quindi con le posizioni prese pubblicamente a favore della resistenza palestinese), ma che si occupino esclusivamente di volontariato».
Le foto arricchiscono il quadro indiziario. Nel materiale acquisito compaiono immagini di un anniversario di Hamas, con striscioni delle Brigate al Qassam, e Rawwa è lì, presente. In una delle annotazioni si segnala anche il suo like a un post del già citato Alisawi che esprime soddisfazione per l’eccidio del 7 ottobre.
Nella caccia ai denari di Hamas è entrata anche una storia curiosa, quella di un vaglia postale bloccato dagli investigatori. Nel corso delle indagini finanziarie, è stato scoperto che le maggiori risorse erano state depositate sui conti di Poste italiane Spa, compreso 1 milione di euro dell’associazione Cupola d'oro.
Quando gli indagati hanno mangiato la foglia e hanno capito di essere sotto inchiesta hanno provato a spostare quel denaro da Poste ad altri istituti bancari, utilizzando il vaglia. Ma le banche, allertate dalle forze di polizia, non hanno accettato il versamento. Per questo i soggetti arrestati si sono rivolti all’autorità giudiziaria e hanno ottenuto un decreto ingiuntivo emesso da tribunale di Milano a favore della stessa Cupola d’oro. La parola fine al contenzioso l’ha messa il gip di Genova, con le manette.
Nell’inchiesta, al momento, si contano circa 25 indagati, compresi i famigliari di Hannoun, la moglie e i due figli, che sarebbero stati consapevoli della destinazione reale dei fondi. Gli eredi si sarebbero anche prestati al trasporto di denaro. Tra le persone coinvolte anche la giornalista e orientalista torinese Angela Lano, a cui è contestato il concorso in associazione con finalità terroristica. A casa sua, sarebbero state trovate bandiere con i simboli di Hamas. Nelle carte è citato, anche se non risulta indagato, pure Mohamed Shahin, l’imam di Torino, destinato all’espulsione e poi salvato dalla Corte d’appello. Era in contatto con Mahmoud El Shobky, referente piemontese della raccolta fondi, indagato, ma non arrestato. In una telefonata del 26 luglio 2025, un altro arrestato, Yaser Elasaly, lo rassicura: «El Shobky non sa niente, sa che prendiamo la amana (beneficenza, ndr) e la consegniamo agli sfollati e ai bisognosi».
Shanin, invece, probabilmente sapeva la verità.
Palestinesi fregati. La gran parte del denaro ricevuto veniva girata agli attentatori
Il 71% dei fondi usato per scopi non umanitari. Dalle intercettazioni emerge un piano chiaro: «Noi ci sacrifichiamo con i soldi, loro col sangue». Ieri sequestrato 1 milione in contanti in case e sedi delle associazioni islamiste.
Sette milioni di euro. È questa la cifra che, camuffata da beneficenza per il popolo palestinese, sarebbe partita dall’Italia per Hamas, l’organizzazione terroristica responsabile della strage del 7 ottobre. Un flusso di denaro che, per gli investigatori della Digos di Genova, del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza e del Nucleo speciale di polizia valutaria (coordinati dalla Procura di Genova e dalla Direzione nazionale Antimafia), avrebbe alimentato direttamente un sistema criminale con finalità di terrorismo internazionale. Tramite tre sigle: l’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese, fondata a Genova nel 1994 (dal 2007 avrebbe movimentato 800.000 euro solo per il suo funzionamento); l’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese-Organizzazione di volontariato, costituita nel 2003; e la più recente «Associazione benefica La Cupola d’Oro», aperta a Milano, in via Venini, nel dicembre 2023 con l’obiettivo di sostituire le associazioni genovesi, ormai troppo attenzionate.
Per gli inquirenti erano tutte riconducibili alla stessa regia, quella di Mohammad Hannoun, indicato come «membro del comparto estero di Hamas» e «vertice della cellula italiana dell’organizzazione», legale rappresentante o amministratore di fatto delle associazioni che facevano da bancomat per il movimento della resistenza islamica a Gaza. Con lui sono state arrestate altre otto persone: Osama Alisawi, «membro di Hamas», «già ministro dei Trasporti del governo di fatto di Hamas a Gaza», cofondatore della Abspp; Dawoud Ra’Ed Hussny Mousa, operativo nella raccolta e nel trasferimento dei fondi, anche tramite trasporto di contante; Elasaly Yaser, parte della struttura operativa della cellula; Albustanjy Riyad Abdelrahim Jaber, coinvolto nella gestione e nel trasferimento dei fondi; Al Salahat Raed, coinvolto nelle attività di finanziamento attraverso le associazioni. Da maggio 2023 era componente del board of directors della European palestinians conference, per lui si è subito speso l’imam di Firenze, Izzedin Elzir: «Lo conoscevo, e conoscendo la nostra realtà, per me è una bolla di sapone». In tre invece sono accusati di «concorso esterno in associazione terroristica»: Abu Rawwa Adel Ibrahim Salameh, per aver fornito supporto finanziario continuativo; Abu Deiah Khalil, indicato come promotore della nascita di nuove associazioni (tra cui La Cupola d’Oro) per proseguire la raccolta fondi nonostante i blocchi bancari; Abdu Saleh Mohammed Ismail, per il contributo fornito al sistema di finanziamento dell’organizzazione.
Le tre associazioni sono finite sotto sequestro, con un provvedimento che colpisce anche i patrimoni per un ammontare di 8 milioni di euro. Al quale vanno a sommarsi i contanti, per circa 1 milione, sequestrati ieri durante le perquisizioni e repertati dagli investigatori delle Fiamme gialle. Nell’inchiesta sono finite le analisi delle Sos, le Segnalazioni di operazioni sospette inviate dall’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia ed elaborate dalla Direzione nazionale Antimafia. Salameh, in particolare, era stato segnalato «per l’acquisto all’asta, in un lasso temporale ristretto, di oltre 40 immobili senza accedere ad alcuna linea di finanziamento». È lui, ricostruiscono gli investigatori, a consegnare, al casello autostradale di Lodi, una somma particolarmente consistente. L’operazione viene svelata dalle intercettazioni: «Ti devo portare 250.000, non li posso tenere tutti da me». E dopo essersi accordato, ha ringraziato: «Che Dio ti protegga… sono 250 e nel Pos 56 e bonifico 22 e diciamo che grazie a Dio abbiamo superato la somma dei 340 circa».
L’inchiesta si è poi sviluppata grazie alla cooperazione internazionale, soprattutto con le autorità olandesi, per ricostruire i contatti tra le associazioni di beneficenza italiane e il Movimento della resistenza islamica, che l’Unione europea indica come organizzazione terroristica. Il punto chiave sono i flussi di denaro. «In particolare», spiegano gli investigatori, sono finite al centro dell’indagine «operazioni di finanziamento, che si ritiene abbiano rilevantemente contribuito alle attività delittuose dell’organizzazione terroristica». I passaggi sarebbero stati costruiti grazie a «triangolazioni bancarie o con altre modalità per il tramite di associazioni con sede all’estero». Destinazioni precise: associazioni con sede «a Gaza, nei territori palestinesi o in Israele, dichiarate illegali dallo Stato di Israele, perché appartenenti, controllate o comunque collegate ad Hamas». E anche trasferimenti «direttamente a favore di suoi esponenti», come Osama Alisawi.
Il nome di Alisawi ricorre più volte negli atti. Oltre a essere indicato come «già ministro del governo di fatto a Gaza», secondo gli inquirenti, «in varie circostanze sollecitava il supporto finanziario». Non un beneficiario occasionale, ma un interlocutore stabile. Cofondatore, nel 1994, di una delle associazioni e delegato ad operare, dal 2001 al 2009, sui conti correnti. È sulla destinazione dei fondi che insiste l’ordinanza del gip di Genova Silvia Carpanini: le associazioni coinvolte, si legge, «operavano nella raccolta a fini umanitari di fondi per la popolazione palestinese destinati in realtà in parte rilevante (più del 71 per cento) al finanziamento diretto di Hamas o di associazioni a essa collegate o da essa controllate e di tutte le articolazioni dell’organizzazione terroristica». L’ordinanza chiarisce che quei fondi non servivano soltanto a sostenere strutture civili, ma contribuivano «al sostentamento dei familiari di persone coinvolte in attentati terroristici o di detenuti per reati terroristici», rafforzando così «l’intento di un numero indeterminato di componenti di Hamas di aderire alla strategia terroristica e al programma criminoso del gruppo».
Dopo il 7 ottobre, però, la strategia cambia. «In conseguenza alle limitazioni imposte dal sistema finanziario è stato attuato il trasferimento diretto per contanti attraverso cash couriers». È il cambio di passo: quando i canali bancari si chiudono, entrano in scena gli spalloni. Con episodi concreti, quelli scoperti in dogana. Il 9 ottobre 2024, per esempio, Dawoud, al momento dell’imbarco, dichiarava di trasportare 170.000 euro «per conto dell’Abspp, diretto in Turchia». Solo un mese dopo, all’imbarco per l’Egitto, «dichiarava di trasportare 100.000 euro» per la stessa associazione. C’è anche la consegna materiale del contante prima del viaggio. È sempre Dawoud a consegnare ad Hannoun uno zaino con 150.000 euro in pezzi da 50 euro. Lo stesso Hannoun si occupa delle consegne in più occasioni, sempre in Turchia. Il quadro che emerge è quello di una struttura stabile. E frutto di iniziative non individuali: «La costituzione di una cellula estera del movimento, sulla base degli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini, non può ritenersi il risultato di una iniziativa personale di coloro che hanno dato vita all’associazione solidaristica italiana nei primi anni Novanta ma, piuttosto, la realizzazione di un progetto strategico di Hamas». Da inserire in un contesto più ampio. Quella italiana, infatti, secondo chi indaga, «può essere considerata un’articolazione estera di Hamas», partecipe, «con altre simili associazioni, di un network che opera coordinandosi con la struttura decisionale dell’organizzazione madre». Alcune donazioni sarebbero finite addirittura a strutture «accusate di operare sotto il controllo diretto dell’ala militare». Gli indagati, secondo l’accusa, «si sono resi consapevolmente responsabili di aver sottratto capitali alle finalità assistenzialistiche», per destinarli «a un finanziamento diretto dell’organizzazione terroristica e delle sue attività criminose». Ed è a questo punto che entra in scena la «Da’Wa»: attività che hanno lo scopo di creare saldi legami con la popolazione palestinese e «svolte dall’organizzazione con la finalità», stando all’accusa, «di conquistare il cuore e convertire le persone, ottenere sostegno e reclutare nuovi attivisti del movimento». E oltre alle attività educative c’erano quelle «strettamente legate al settore militare». Da quelle di «formazione di giovani per i futuri ruoli di leadership dentro Hamas a quelle svolte per il settore studentesco nel Campo militare degli studenti (Command training institute), dall’educazione sullo status di martiri e prigionieri al simposio su jihad e santi guerrieri dell’organizzazione».
E sul sito Internet Infopal, organo di informazione finanziato da una delle associazioni finite sotto inchiesta (è emerso che Abspp avrebbe bonificato dal 2010 al 2024 oltre 300.000 euro, mentre dalle intercettazioni è emerso che mensilmente sarebbero stati elargiti 2.800 euro, oltre al denaro contante consegnato dopo la chiusura dei conti correnti), gestito da Angela Lano, finivano proprio le posizioni dell’ala militare. Un’intervista, in particolare, ha attirato l’attenzione di chi indaga: Mousa Abu Marzook, uno dei leader di Hamas, pontificava sull’ipotesi, «impercorribile», di una forza internazionale di pace per gestire la fragile tregua. Negli stessi giorni è finito online un articolo che riportava «una presa di posizione ascritta genericamente all’ala militare dell’associazione terroristica» che si dichiarava «non disponibile ad alcuna resa». D’altra parte, il leader di Hamas Khaled Mesh’Al aveva appena affermato che «con la consegna delle armi Hamas avrebbe perso anche la propria anima». Angela Lano ribadisce il concetto sulla pagina Facebook, condividendo un post del sociologo Alessandro Orsini: «È Israele che sta compiendo un genocidio a Gaza, mica Hamas». L’indagato Abu Rawwa, annotano gli inquirenti, «condivide le medesime posizioni dell’organizzazione, addirittura in anticipo sulle dichiarazioni ufficiali». L’8 ottobre 2024, infatti, a bordo della propria auto proclama «che Hamas non accetterà mai un governo esterno né la consegna delle armi». E mentre Hannoun, che ormai sentiva il fiato sul collo (tant’è che a telefono con la Lano premette: «Informiamo anche i nostri gentili intercettori che ormai sanno tutto di noi»), preparava la sua fuga in Turchia, nell’associazione i suoi adepti distruggevano o formattavano i computer. Tutti passaggi intercettati. Compreso quello con la moglie Fatema che gli ricorda: «Sei in pericolo».
La denuncia c’è e anche il fascicolo. Ma se l’obiettivo era chiudere la bocca a Fabrizio Corona, il rischio concreto è di avergli consegnato un megafono. Perché la mossa di Alfonso Signorini, direttore editoriale del settimanale Chi e conduttore del Grande Fratello, ovvero la querela per revenge porn presentata dopo che una decina di giorni fa Corona lo ha accusato di aver portato avanti per anni un «sistema» di presunti favori sessuali richiesti a partecipanti del reality (anche nella versione Vip), rischia di trasformarsi in un boomerang giudiziario e mediatico, con un effetto domino che da ieri non dipende più solo dall’ex «re dei paparazzi», ma anche dal Codacons che con un esposto ha chiesto di indagare.
Il punto di partenza è l’iscrizione sul registro degli indagati di Corona, che ha consentito agli inquirenti di sequestrare foto, video e chat. Nella sua nuova versione da youtuber conduttore di Falsissimo, Corona, ieri, davanti ai pm di Milano ha riempito un verbale e poi si è presentato davanti a telecamere, fotografi e cronisti: «Ho parlato del “sistema Signorini”», ha esordito. Poi ha precisato: «Tre minuti ho parlato del revenge porn e un’ora dei reati (presunti, ndr) commessi da Signorini, ma anche di tutti i suoi giri e di tutte le sue amicizie. Ho più di 100 testimonianze, ho fatto i nomi ai pm e sono già pronte due denunce contro di lui». Una di Antonio Medugno, ex concorrente del Gf Vip, edizione 2021-2022, intervistato nella seconda puntata de «Il prezzo del successo» su Falsissimo. «Anche un altro è pronto a farlo», ha annunciato Corona. Poi ha alzato i toni: «Se prendono il cellulare a Signorini trovano Sodoma e Gomorra». E ha sfidato la Procura: «Se dopo la querela non vanno a fargli una perquisizione io mi lego qua davanti al tribunale».
Corona ha precisato che la sua «non è» una «vendetta». Ma l’innesco è personale: «Dopo che gli ho visto presentare il suo ultimo libro ho detto «ci vuole un bel coraggio» e ho cominciato a fare telefonate e ho recuperato questo materiale, ne ho un sacco, ho delle fotografie sue clamorose».
Il «sistema», dice, lo ha messo nero su bianco nell’interrogatorio richiesto da lui stesso, assistito dall’avvocato Cristina Morrone dello studio legale di Ivano Chiesa. L’obiettivo dichiarato è ribaltare il tavolo e trasformare l’ennesima inchiesta a suo carico in quello che lui definisce il «Me too italiano». «Il problema», ha detto Corona, «è che lui ricopre un ruolo così importante e con quel ruolo non puoi cercare di adescare e proporre l’ingresso in un programma televisivo, che deve passare per dei casting, ci sono delle regole. Pagherà per quello che fa».
Corona, in sostanza, durante il suo interrogatorio, ha cercato di spostare l’attenzione dalle modalità con cui foto e chat sono state mostrate, su ciò che quelle chat potrebbero raccontare. Nel frattempo il fronte si è allargato: il Codacons, insieme all’Associazione utenti dei servizi radiotelevisivi, ha fatto sapere di aver depositato un esposto ai pm milanesi, all’Agcom e al Garante per la privacy.
Ora tocca alle autorità decidere, o meno, se entrare nel backstage mediatico.





