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Non Sparate sul Pianista | Ottolini: «Puccini jazz, le conchiglie e il pop di Mengoni e Ayane»
Mauro Ottolini svela il punto di contatto tra Puccini e il jazz, tra Benny Golson e Tosca. Accompagna la cantante Vanessa Tagliabue Yorke con il trombone e le conchiglie. E ci parla di arrangiamento pop: Negramaro, Capossela, Brunori Sas…
Il «nonno» yankee dei festival jazz di tutto il globo ha messo fine all’assedio di Fort Adams. La marea umana che ha invaso Newport (Rhode Island), con il suo curioso campionario di sedie da campeggio e tende parasole più o meno omologate, si è dispersa dopo tre giorni di sold out (10.000 presenze al dì, limite massimo raggiunto). Ora che i palchi e gli stand di lobster roll (l’immancabile panino all’astice e burro fuso) sono solo un ricordo, l’unico canto che si può udire in una delle prime basi dell’esercito a stelle e strisce (inaugurata nel 1799) è quello dei gabbiani, ma alcune scintille di bellezza generate da questa maratona musicale vista Oceano Atlantico meritano di non dissolversi tra le onde della Baia di Narragansett.
A sparare il primo colpo di cannone della settantunesima edizione del Newport Jazz Festival, creatura figlia del genio di George Wein (promoter del Massachusetts scomparso nel 2021) e gemella diversa dell’altrettanto famosa variante folk (che nel 1965 fu teatro della contestazione a Bob Dylan per eccesso di strumentazione elettrica), ci ha pensato il veterano Ron Carter. Il contrabbassista, classe 1937, ha preso per mano il pubblico interrompendo all’improvviso il flusso dell’elegante quartetto Foursight e lo ha trascinato in un tempo sospeso divagando in solitaria sul tema country di You are my sunshine (già reso immortale da Jimmie Davis, Pete Seeger e Johnny Cash), giungendo per misteriose associazioni mentali alla Suite per violoncello n. 1 in sol maggiore di Johann Sebastian Bach. Un istante dopo, i suoi soci si sono magicamente ritrovati sui binari dell’hard bop, nello stesso vagone sul quale li aveva lasciati il superstite del «secondo quintetto» di Miles Davis (insieme a Herbie Hancock). Per la davisiana Seven steps to heaven e la conclusiva You and the night and the music l’euforia della folla avrebbe potuto far pensare a un fuoricampo dei Red Sox (Boston è a due ore di pick-up, la Grande Mela a quattro ma, a giudicare dai berretti, anche molti tifosi dei newyorchesi Mets hanno pensato bene di non mancare). In grande risalto, al fianco del sassofonista Jimmy Greene e del batterista Payton Crossley, la personalità e le idee della pianista canadese Renee Rosnes (reduce da una lunga serie di dialoghi sonori ad alta intensità emotiva con un secondo pianoforte, quello del marito Bill Charlap, al Birdland di New York).
La tradizione locale vuole che qui la musica scorra in contemporanea su tre palchi e mezzo (Fort, Quad, Harbor più il Foundation dedicato alle interviste e agli emergenti), dal mattino al tramonto. E le scelte drastiche spettano agli ascoltatori. Farsi sfuggire (e non citare) i Philadelphia Experiment sarebbe stato però imperdonabile. Questa all star band multigenerazionale ad alto tasso di funky e di orgoglio «pennsylvaniano» ha rimesso in primo piano la seconda natura di Uri Caine (classe 1956) al pianoforte elettrico Rhodes (il pubblico italiano è abituato a vederlo al fianco del trombettista Paolo Fresu). L’ubiquo Christian McBride (53 anni e nove Grammy in bacheca), direttore artistico della kermesse, ha rispettato il suo credo, già rivelato alla Verità, impugnando il basso elettrico: «Se la gente non batte i piedi vuol dire che devi cambiare lavoro». Mentre Ahmir «Questlove» Thompson (produttore rap e batterista dei The Roots, resident band del Tonight Show di Jimmy Fallon, che ha chiuso la prima giornata di festival) e Dj Logic hanno aggiunto l’anima hip hop di «Philly» (Filadelfia per i suoi innamorati abitanti) a questo riuscito mix di jazz, soul e modernità (condensato in un disco datato 2001).
Lo stesso McBride ha messo la firma sul terzo e ultimo giorno della rassegna, levandosi la divisa da baseball e tornando in abito da sera e contrabbasso come leader della sua big band da 17 elementi (con Steve Wilson nel ruolo di capitano dei fiati). Una lussuosa anteprima del nuovo album, in uscita il 29 agosto, Without Further Ado, Vol. 1, che vanta una collezione di voci di prima classe: Sting, Samara Joy, Dianne Reeves, Cécile McLorin Salvant e Jeffrey Osborne (fuori categoria l’ex chitarrista dei Police, Andy Summers). Dal vivo ha lasciato il segno la ricchezza dell’arrangiamento di Thermo di Freddie Hubbard, il groove prepotente di Gettin’ to it dedicata a James Brown e l’intimo omaggio in duo a Billie Holiday, Fine and mellow, con l’acclamatissima special guest McLorin Salvant. Ed è stata proprio la cantante nata a Miami, ma dalle origini franco-haitiane, a rubare il cuore del pubblico nel suo generosissimo set con i fedeli Sullivan Fortner al pianoforte, Yasushi Nakamura al contrabbasso e Kyle Poole alla batteria.
Cécile, che pochi giorni prima aveva stregato il Bryant Park di Manhattan in un concerto gratuito offerto dalla Carnegie Hall, ha trattato con la stessa profondità un successo R&B anni Ottanta come Time will reveal dei DeBarge, la tragica ballata folk dell’operaio afroamericano John Henry e un classico di Broadway, Don’t rain on my parade (dal musical Funny girl). Facendo diventare parte di sé alcune gemme trascurate come Talkin’ like you di Connie Converse o Alfie di Burt Bacharach e tirando fuori dal suo prodigioso strumento vocale registri sorprendenti.
A proposito di istanti sublimi, l’ultima citazione dovrebbe riguardare quel geniale folletto chiamato Jacob Collier che ha avuto l’onore, a 31 anni freschi freschi, di chiudere i giochi di un festival che nella sua storia ha visto passare (pescando alla cieca) Miles Davis, i Led Zeppelin, Frank Zappa e Aretha Franklin, creando un vero e proprio modello imitato e adattato a ogni regione del mondo. L’artista londinese, per l’occasione, ha voluto dedicare al mentore Quincy Jones (scomparso meno di un anno fa) una sua personalissima Misty, proprio mentre il sole sprofondava nell’oceano e il colore naturale del cielo ridicolizzava qualunque filtro Instagram. Scelta indovinata perché quello che sarebbe diventato un vero e proprio standard, venne eseguito per la prima volta a Newport nel 1955 da Errol Garner, che l’aveva composta l’anno prima. Poi Quincy il re Mida («Q» per gli amici) la arrangiò per Sarah Vaughan, sfoderando quell’intuito che non lo avrebbe più abbandonato. Per ora è l’unica interpretazione disponibile sui social della rassegna (che dà già appuntamento all’anno prossimo: 31 luglio-2 agosto 2026) e merita un assaggio.
Anche se il vero regalo inaspettato del festival sull’oceano è arrivato dall’arpista colombiano Edmar Castañeda, in trio con «Mister banjo», Béla Fleck, e il leader Antonio Sánchez alla batteria (chi ha apprezzato il film Birdman ricorderà la sua originalissima colonna sonora). Composta, «piangendo e implorando Dio», dopo che una delle sue mani si era spezzata in quattro parti, Whispers of resilience (Sussurri di resilienza) è un’invocazione che dà nuovo senso a una delle parole più inflazionate di oggi. «È giusto concentrarsi su ciò che dipende da noi», ha spiegato Castañeda presentando il pezzo, «la verità però è che nella vita nulla è sotto il nostro controllo».
Carlo Melato, da Newport (Rhode Island, Usa)