2025-11-05
Riccardo Muti: «Meglio Totò dei direttori che fanno lo show»
La leggendaria bacchetta: «Il principale difetto dei giovani è l’approccio estroverso, quasi clownesco, al podio. Che fa rimpiangere il Principe della risata. Nonostante diplomi e titoli, molti di opera non sanno nulla. Per questo giro il mondo con la mia Academy».Clicca qui per ascoltare il podcast con l'intervista a Riccardo Muti.A casa Muti anche il presepe è un’orchestra. Facendosi largo tra pastori, fornai e lavandaie, una variopinta compagnia di suonatori ha conquistato il suo posto in scena. «Guardi questi musicisti come sono belli», esclama il leggendario direttore, «quelli al buio invece sono dei disgraziati». L’occhio, attratto dalla luce della Sacra famiglia, si sposta verso destra, dove dominano le tenebre. «Il bene e il male», indica il Maestro. Il versante sul quale la notte regna ricorda il finale del Don Giovanni di Mozart, dopo che il libertino è precipitato all’inferno per mano del Convitato di pietra. «La parte peggiore di quella scena non sono le fiamme e i demoni, ma il momento nel quale il bagliore luciferino del dissoluto si spegne: è in quella pace apparente che chi gli ruotava attorno si accorge di essere smarrito». Prima di accomodarci, mentre il sole del mattino riscalda Ravenna, Riccardo Muti ci mostra il pezzo fondamentale del presepe napoletano. «Lui è Benino e dorme serenamente. Questa meraviglia è frutto del sogno che sta facendo».A proposito di visioni, la prossima edizione della Muti opera academy è vicina (dal 19 al 30 novembre nella milanese Fondazione Prada). Come le è venuto in mente di fondare una scuola d’eccellenza che girasse il mondo per insegnare l’opera italiana ai giovani direttori d’orchestra? «Quando mi preparavo a dirigere I masnadieri di Verdi al Maggio fiorentino, alla fine degli anni Sessanta, scandagliavo gli archivi alla ricerca delle partiture dei miei predecessori. Trovavo fogli impolverati, tenuti insieme da graffette arrugginite. Analizzandoli rimanevo senza parole davanti alla miriade di aggiustamenti, tagli e manipolazioni. Addirittura acuti aggiunti là dove l’autore non li aveva previsti. Sa cosa mi ritrovavo tra le mani?».Il passato?«No, quella che veniva erroneamente chiamata “tradizione”: “Il triste ricordo dell’ultima cattiva esecuzione”, diceva Furtwängler. Davanti al massacro dell’opera italiana decisi che avrei tentato di rispettare la volontà del compositore. Qualcuno non ha gradito». A chi si riferisce?«Per contestare una mia rappresentazione alla Scala, un tale che si credeva “esperto di musica” arrivò a dire: “Senza il do di petto (nella cabaletta Di quella pira, ndr) non è Il trovatore”. Peccato che, come tutti sanno tranne il giullare in questione, Verdi non l’abbia mai scritto. Eravamo all’assurdo: chi eseguiva solo ciò che era stato concepito dall’artista passava per traditore. Eppure il Maestro scriveva: “C’è un solo creatore, il compositore”».Bastano le indicazioni che il Cigno di Busseto ha lasciato per essere certi di esaudire i suoi desideri? «Non penso di avere la verità in tasca. Nessuno ce l’ha. Tra una nota e l’altra, come diceva Mozart, c’è l’infinito. Detto questo, mi sono state donate indicazioni preziose che sui libri non si trovano».La sfida è trasferirle ai giovani?«Devo farlo. Ho avuto il privilegio di avere come insegnante Antonino Votto. Nella Scala degli anni Venti era il più grande assistente di Arturo Toscanini, che a sua volta aveva conosciuto Verdi suonando il violoncello nella prima assoluta dell’Otello. Sono orgogliosamente figlio della scuola italiana e il suo patrimonio non deve andare perso».Cosa la colpisce dei giovani che superano le selezioni?«Nonostante i diplomi con il massimo dei voti nei Conservatori più blasonati del mondo… di opera non sanno nulla. Non sono in grado di preparare un cantante, né dal punto di vista musicale, né drammaturgico. I due piani non si possono scindere. Anche Giorgio Strehler sognava...». Cosa?«La condivisione totale tra i due punti di vista. “L’ideale”, diceva, “sarebbe che il regista guidasse l’orchestra, cedendo il suo posto al direttore”».[...] Qual è il primo comandamento che Riccardo Muti dà alle giovani bacchette di ogni continente?«Imparate l’italiano!».Addirittura?«Non dico alla perfezione, ma una buona conoscenza è fondamentale. Nel nostro repertorio il rapporto tra musica e testo è verticale».Cosa intende?«Non basta un generico “piano” o “forte”. Occorre quel suono che sappia vivificare quella determinata parola. [...] E poi chi segue le traduzioni va incontro a brutte figure». Un esempio?«Durante le prove del Don Pasquale di Donizetti, al mio debutto al Festival di Salisburgo, vidi il soprano mimare le zanne della tigre mentre cantava: “Mi volete fiera?”. Dopo un attimo di smarrimento dovetti spiegare al regista cecoslovacco che nella nostra lingua quel termine poteva assumere significati diversi: fierezza, Fiera del Levante e bestia feroce non sono la stessa cosa. Poi c’è il tema dei doppi sensi. Non coglierli è un delitto…».«Batti, batti, o bel Masetto, la tua povera Zerlina…», per tornare al Don Giovanni.«Rilancio con “Il mio fallo tardi vedo”... detto da due dame nel Così fan tutte». (ride). [...] «La traduzione inglese coglie il significato solenne: “Riconosco tardivamente il mio errore”. A qualsiasi nostro connazionale l’allusione invece non sfuggirebbe. Quando a un francese o a un tedesco spiego cosa intende il Duca di Mantova con “le mie pene consolar” (nel Rigoletto, ndr) resta attonito».E gli orientali come reagiscono?«Non usi quel termine in America, altrimenti passa dei guai. Ora bisogna dire “asian”...» (ride). [...] «In Cina e Giappone comunque le orchestre sono vergini».In che senso?«Non c’è traccia di quelle bieche tradizioni di cui parlavo prima: canto sguaiato, acuti tenuti all’infinito per mandare in estasi le masse, bis e addirittura tris che rompono l’unità drammatica delle composizioni [...]».Ai giovani che incontrerà a Fondazione Prada spiegherà come costruire il loro carisma?«Impossibile, è un dono: o c’è o non c’è, l’età non c’entra. I musicisti se ne accorgono dal modo in cui sali sul podio la prima volta. Tanto è vero che il pubblico milanese assisterà a un fenomeno misterioso».Quale?«Chieda a cinque giovani di dare l’attacco nello stesso punto e vedrà che, a distanza di pochi minuti, l’orchestra produrrà cinque suoni diversi».Come se lo spiega?«Gliel’ho detto, è un mistero insondabile. In quell’istante c’è tutto: il carattere, la convinzione e l’autorevolezza di chi ha la bacchetta in mano [...]».E il peccato mortale di un direttore qual è?«[...] Il difetto principale di questi tempi è un atteggiamento estroverso, che sfiora il clownesco. Totò oggi sarebbe un ottimo collega».E perché?«C’è una scena indimenticabile nel quale dirige una banda. Se va a rivedere il suo gesto, che è ovviamente marionettistico, noterà che dal punto di vista funzionale è perfetto. Lui giocava, ma alcune sue mosse oggi sarebbero considerate professionali» (ride). [...]Chiudiamo con il capolavoro mozartiano. Qual è l’attenzione da avere dirigendo il Don Giovanni?«[...] Il difficile sta nel trovare l’equilibrio tra lo scherzo, che però è diabolico, e la tragedia. L’ouverture in re minore, tonalità funebre del Requiem, è la chiave di tutto».Come mai, anche se il «dissoluto» viene punito, i «buoni» ne escono a pezzi?«Don Giovanni porta una luce, anche se sinistra. Quando si esaurisce gli altri si riscoprono vuoti. Forse avevano trovato un senso grazie al male…».
Una donna in preghiera in una chiesa nei pressi di Lagos, Nigeria (Getty Images)