- Irricevibili le proposte uscite dal vertice di Berlino per Mosca, che infatti è lapidaria: «Non accetteremo truppe estere in Ucraina. Non promette bene la partecipazione dei Paesi Ue ai negoziati». Crosetto perplesso sull’ingresso di Kiev nell’Unione e nel Patto Atlantico.
- Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022. Zelensky ha capito che le sue mire hanno fallito. Ora però inizi a non ascoltare più l’Ue.
Lo speciale contiene due articoli.
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
Credo che uno degli errori in democrazia sia trasformare in tifoserie da stadio le diverse visioni che stanno a fondamento delle diverse gestioni della cosa pubblica. La propria squadra ha sempre ragione e l’altra sempre torto e, siccome non si è infallibili, i leader non sbagliano mai perché, ove sbagliano, o nessuno li critica oppure le critiche non fanno testo perché «vengono dall’altra parte»: e che volete che dica l’altra parte? Il risultato è che l’elettore - incapace di obiettare alla propria parte - smette di andare a votare. Se ne avvantaggia la sinistra, i cui elettori votano anche se la loro parte propone loro uno spaventapasseri. Tutto sto giro di parole ci serve perché ci tocca dire che il presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, ha sbagliato tutto sulla politica energetica in Regione.
Fedriga ha tanti meriti; e la regione nelle mani, che so, di una Deborah Serracchiani, sarebbe sprofondata nel disastro. Giusto per non parlare a vuoto, cito la signora del giugno 2014, quand’era presidente, sulla gestione della sanità: «Abbiamo bisogno di una riconversione di posti-letto, tenuto conto che quelli per casi acuti sono utilizzati troppo poco, al 50%. In questo modo rispetteremo i parametri del governo centrale sul rapporto tra popolazione e posti-letto. L’obiettivo è tagliarne 1.000 e portarli da 3.8 a 3 per 1.000 abitanti». Il governo di allora era quello di Matteo Renzi (continuatore di quello di Enrico Letta). Come sappiamo, l’obiettivo fu raggiunto con successo, un successo i cui frutti si son ben raccolti con la pandemia. Giova ricordare che negli ospedali in Germania e in Sud Corea vi sono, rispettivamente, 8 e 12 posti-letto per 1.000 abitanti. Se sulla sanità Fedriga ha il merito di aver cercato di rimediare, anche con qualche successo, alle miopi scelte di chi lo ha preceduto, errori ha commesso in politica energetico-climatica.
Oggi ne piange le conseguenze, con l’alluvione che ha colpito la regione. In ottemperanza ai diktat di questa disgraziata Unione europea in mano alla fallimentare Ursula von der Leyen, anche Fedriga s’è speso - e ha speso il denaro dei contribuenti friulani - nel velleitario proposito di cambiare il clima a suon di impianti fotovoltaici. Negli ultimi tre anni sono stati oltre 300 milioni di denaro sprecato con l’obiettivo - cito le sue parole - «di coniugare tutela ambientale, visione strategica e responsabilità territoriale». Le leggi regionali in proposito avrebbero lo scopo di «promuovere l’uso razionale dell’energia e assicurare la più ampia diffusione delle fonti rinnovabili, nell’ottica delle finalità di sviluppo sostenibile previste dall’Unione europea e della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici».
Oggi assistiamo al disastro di case sommerse dalle acque, dalle quali emergono tetti coperti di pannelli fotovoltaici che sono stati installati col preciso scopo dichiarato di evitare quel disastro. Che lo scopo non sia stato raggiunto ci pare fin troppo evidente da quel che vediamo non solo oggi in quel di Gorizia, ma anche da quel che vedemmo ieri in Emilia-Romagna.
Tra le due realtà c’è però una differenza. In Emilia-Romagna credono veramente che per evitare sia le alluvioni che le siccità il denaro pubblico andrebbe speso non nel governo delle acque ma nei parchi eolici e fotovoltaici. I loro dirigenti lo dicono chiaramente: «Se si fa così si è di sinistra, se non si fa così si è di destra (copyright Pierluigi Bersani). Il povero Fedriga, come molti altri amministratori locali, molto più pragmaticamente accetta di spendere denaro che o spende così o non può spendere: «Nell’ottica delle finalità previste dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici», appunto.
La butto lì e faccio l’ingenuo, ma ci provo: e se invece gli amministratori locali si mettessero tutti d’accordo e restituissero il denaro già etichettato dalla Ue, e si dicessero disposti a prenderlo solo se fossero poi lasciati liberi di spenderlo secondo le esigenze locali e non secondo i diktat di Bruxelles? Che lo faccia uno solo, non avrebbe alcun esito, ma se fossero tutti d’accordo… Alla fine, questo è il sovranismo, visto pericoloso come il fumo negli occhi. A far felice Bruxelles, però, si fa piangere Bologna, ieri, Gorizia, oggi, e chissà chi domani. Dobbiamo scegliere: prima l’Italia o prima Bruxelles?
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
In un mondo ove rischia di scoppiare la Terza guerra mondiale, o che comunque è diviso tra chi elemosina missili ultrasonici e chi minaccia di lanciarli per davvero, vi sono quasi 200 Paesi che, al detto secondo carnevale, si fanno rappresentare da delegati tutti in fibrillazione per il global warming. E dove se ne vanno codesti insofferenti per il caldo? All’equatore. Non sono psicologo, ma credo si chiami masochismo.
O, comunque la patologia si chiami, una patologia c’è, visto che sarà, quest’anno, la trentesima volta che si riuniscono. Vabbè, direte voi, se ne fanno tante di sciocchezze nella vita: ci può stare anche questa riunione coi 200 ministri per l’ambiente; tanto, sono i ministri più inutili che ci siano, non hanno nulla da fare, e un’occupazione devono pur inventarsela. Il fatto è che non sono 200 quelli che vanno, ma un piccolo esercito di oltre 60.000 sfaccendati. Con quella di quest’anno sarà andata così per 30 volte e, ogni volta, con un unico proposito, una sorta di chiodo fisso. Masochisti con pensieri intrusivi ricorrenti, quindi.
Il chiodo fisso, dicevo, è che farebbe caldo e per rinfrescare l’aria dicono che dovremmo smetterla di usare carbone, gas e petrolio. Più precisamente, sono 30 anni che si riuniscono col proposito di indurre i plenipotenziari del mondo ad adoprarsi per ridurre le emissioni di CO2. La cosa curiosa è che sono proprio i plenipotenziari del mondo ad arruolare ogni anno quel piccolo esercito affinché si riunisca - un anno qua, un anno là - per dire ai suddetti plenipotenziari ciò che ha spinto i medesimi a inviare l’esercito. Charlot ci avrebbe fatto un film muto ricco di succosi sketch. Qualche risultato in questi 30 anni? Sì: le emissioni di CO2 sono aumentate del 60%.
Vi chiederete: ma una volta preso atto dell’insuccesso dei primi tre tentativi, perché mai han continuato fino al trentesimo? Non saprei cosa dire se non osservare che trattasi della stessa fauna che ha approvato 20 pacchetti di sanzioni contro la Russia, e questo dopo aver preso atto che i primi tre non avevano funzionato come ci si riprometteva. Masochisti con pensieri intrusivi ricorrenti e con disturbi ossessivo-compulsivi, quindi.
Ma, a parte il caldo, cosa esattamente li turba? Per rispondere alla domanda, mi avvalgo del Rapporto The state of the climate 2024 della Global warming policy foundation, curato da una trentina di accademici di primo piano coordinati da Ole Humlum, professore emerito di Geografia fisica dell’Università di Oslo.
In esso si afferma che le temperature registrate dalle varie stazioni del mondo nel 2024 sono state, in media, le più alte mai registrate; ma, si chiarisce, nell’anno precedente era occorso un fenomeno El Niño eccezionalmente intenso, protrattosi nel 2024: la CO2 non c’entra. E, in ogni caso, trattasi di due decimi di grado superiori alle registrazioni degli anni precedenti e di circa un grado in un secolo.
I convenuti a queste Cop sono soliti allarmare perché «le acque degli oceani sono in ebollizione» (copyright António Guterres, Segretario Generale Onu), ma nel rapporto sullo stato del clima del 2024 si chiarisce che nel 2024 il riscaldamento degli oceani rilevato nei loro primi 1900 m di profondità è stato di 0.037 gradi. Sì, avete letto bene: meno di 4 centesimi di grado.
E l’aumento del livello dei mari? Fu, in un anno, di 4 millimetri secondo le registrazioni satellitari e di 2 mm secondo le registrazioni a terra. Non si conosce bene l’origine della discrepanza, dicono, ma le registrazioni a terra sono più attendibili, perché quelle satellitari risultano poco accurate nelle vicinanze delle coste. Invece le estensioni dei ghiacci, stabili nell’emisfero Sud, son cresciute in quello Nord a partire dal 2016, anno di minima estensione da quando ci sono le rilevazioni satellitari, cioè dal 1980. Decisamente stabile, invece, la copertura nevosa globale: per esempio, nel corso di ogni anno varia, per l’emisfero Nord, fra 5 milioni e 50 milioni di chilometri quadrati, con una media stabile di 25 milioni di chilometri quadrati nel corso degli ultimi 50 anni. Quanto alla variabilità delle precipitazioni e del numero di uragani, poi, non si osserva alcun trend degno di nota.
Per tirare le somme, conclude il Rapporto, «non vi è alcuna evidenza di alcuna crisi climatica e, inoltre, credere che un sistema complesso come il clima possa essere governato agendo su un solo parametro - la CO2 antropica - è quanto meno ingenuo».
Se devo tirarle io le somme, direi che quella di quest’anno sarà la penultima Cop. È la trentesima, e chi ha fatto 30 può benissimo far 31. Ma dopo questa concessione alla saggezza popolare, direi che potrà bastare: ad andare oltre ci vorranno 60.000 camicie di forza.




