Michele De Pascale, governatore democratico dell’Emilia-Romagna, espresse qualche tempo fa a Radio24 comprensibile preoccupazione per lo stato della sanità nella sua registrazione. «In questo momento il problema principale dell’Emilia-Romagna è il nostro storico motivo di orgoglio e cioè l’enorme pressione di persone da fuori Regione che si vengono a curare qui», disse. «Non ce la facciamo più, non riusciamo più a soddisfare i nostri cittadini e l’enorme pressione delle altre Regioni che si vengono a curare in Emilia-Romagna e ci stanno intasando il sistema e lo dico con rispetto».
Che il sistema sia sotto pressione i cittadini emiliano romagnoli se ne sono accorti, anche perché da maggio si sono visti aumentare i ticket, e non poco. Ai non esenti - cioè circa due abitanti su tre - è stato richiesto di pagare 2,20 euro a confezione di medicinale, fino a un massimo di 4 euro a ricetta. Sono aumentati anche i costi per le visite: per un controllo da uno specialista si pagano 17,90 euro, mentre in caso di «accesso inappropriato» al pronto soccorso il ticket per la prima visita è di 25 euro più altri 23 euro per visite di consulenza aggiuntive e 36,15 euro per gli esami prescritti dal medico.
«Una decisione definita anche a seguito di un positivo confronto con le organizzazioni sindacali volta a continuare a garantire la qualità e la sostenibilità economica del servizio sanitario regionale, messo a dura prova dal sottofinanziamento statale, e necessaria anche in seguito all’introduzione di farmaci e terapie altamente innovativi, che consentono di curare meglio tante patologie ma che sono al contempo molto dispendiosi», dissero De Pascale e l’assessore alle Politiche per la salute Massimo Fabi.
Tutto comprensibile: aumenta la richiesta di farmaci, aumentano i prezzi, aumenta l’età media dei cittadini... Tutti questi aumenti, tuttavia, vengono illuminati da una luce diversa nel momento in cui si compie una piccola verifica e si scopre quanto spende la Regione per curare gli stranieri. Priamo Bocchi, consigliere regionale emiliano di Fratelli d’Italia, ha fatto un accesso agli atti chiedendo quanti denari vengano sborsati per l’assistenza sanitaria ai cittadini extra Ue. «Alla luce di una linea che pare quantomeno assurda, ho ritenuto doveroso fare chiarezza sui numeri reali. Dai dati emersi tramite accesso agli atti risulta che, nel periodo 2020-2024, la Regione Emilia-Romagna abbia speso oltre 180 milioni di euro per l’assistenza sanitaria ai cittadini stranieri extra Ue, di cui quasi 10 milioni solo a Parma», dice Bocchi. «Un dato che colpisce ancora di più se si considera che oltre il 75% di questa spesa resta a carico del Ssr. Mancano tetti adeguati, manca un sistema di vigilanza efficace e le percentuali di rimborso sono estremamente basse. Il tutto mentre ai cittadini residenti, alle strutture pubbliche e al privato accreditato viene imposto il razionamento delle cure».
In effetti i numeri sono abbastanza impressionanti. Parliamo di 34,255 milioni di euro nella Provincia di Piacenza; 53,125 milioni a Reggio Emilia; 52,957 milioni a Bologna; 29,928 milioni a Modena; 9,943 a Parma. La gran parte di questi soldi è appunto a carico del sistema sanitario regionale, solo una piccolissima fetta è rimborsata da altre Regioni o dai Paesi di provenienza degli stranieri in virtù di accordi bilaterali.
«La gestione della sanità regionale da parte del governatore Michele De Pascale e dell’assessore Massimo Fabi non smette di destare la nostra preoccupazione», dice Bocchi. «A un anno di distanza dal loro insediamento, pur nella piena continuità con una Regione da sempre guidata dalla stessa parte politica, i problemi strutturali del Servizio sanitario regionale restano irrisolti e, in alcuni casi, risultano persino aggravati. Un anno fa De Pascale e Fabi hanno dato il benvenuto ai cittadini con una stangata per colmare un maxi buco ereditato dai predecessori. Eppure, nel corso del 2025, i disagi non sono affatto scomparsi: liste d’attesa interminabili, pronto soccorso in sofferenza, carenza di medici e infermieri. E come si è deciso di rispondere? Tagliando ulteriormente i servizi per chi paga le tasse sul territorio».
«In questo contesto», prosegue il consigliere, «si inserisce il tetto alla mobilità extra-regionale, una scelta miope e ingiusta. Una misura che penalizza i pazienti provenienti da Regioni meno attrezzate e che, al tempo stesso, mette in difficoltà le strutture emiliano-romagnole, costringendo alla chiusura o al ridimensionamento reparti che non vengono considerati di alta complessità solo sulla carta, ma che nella realtà lo sono eccome. Come se non bastasse la giunta ha introdotto limiti sempre più stringenti anche per il privato accreditato, arrivando a tetti persino per i pazienti extra Provincia. Un sistema di vincoli che, mentre produce liste d’attesa sempre più lunghe e riduce l’offerta di servizi, rischia di compromettere la sopravvivenza stessa delle eccellenze sanitarie regionali, che non possono reggere con i soli numeri dell’utenza emiliano-romagnola. Quanto sta accadendo è inaccettabile. Per alcuni si mettono tetti, limiti e budget mentre si lascia fuori controllo una voce che pesa in modo crescente sul sistema. La priorità deve tornare a essere la tutela dei nostri cittadini e la salvaguardia di un servizio sanitario che rischia di perdere, giorno dopo giorno, qualità ed equità».
Difficile dargli torto. L’Emilia-Romagna aumenta i ticket per i residenti e pensa di introdurre un tetto alle prestazioni sanitarie per chi viene da fuori Regione. Ma intanto sborsa milioni e milioni per gli extracomunitari, soprattutto albanesi, indiani, marocchini, egiziani e - in alcune Province - anche ucraini. Giova ricordare che nel 2024 il disavanzo della sanità regionale ammontava a 378 milioni di euro. Una cifra di cui converrebbe tenere conto prima di mostrarsi così tanto accoglienti.
La «rieducazione» di papà e mamma è ancora insoddisfacente: «Non rinunciano ai loro valori». Perciò verrà eseguita una perizia psichiatrica entro 120 giorni. Intanto i bambini restano in comunità: un trauma indelebile.
Ci hanno messo più di un mese ma, alla fine, hanno deciso: il Tribunale dei minori dell’Aquila, con una ordinanza datata 11 dicembre (ma notificata agli avvocati solo ieri), stabilisce che i tre bambini di Nathan e Catherine Trevallion non potranno tornare a casa per Natale. Rimarranno nella struttura protetta dove si trovano da un mese e dove possono vedere la madre ore pasti e il padre qualche minuto ogni tanto. A Nathan è stato concesso di passare la mattinata di Natale con moglie e figli: «Lo potrà fare dalle 10 alle 12.30», ha dichiarato ieri sera il sindaco di Palmoli, Giuseppe Masciulli.
Ovviamente, però, c’è di peggio. Nonostante genitori e figli siano separati da un mese e nonostante papà e mamma Trevallion abbiano fatto di tutto per dimostrare di essere disposti a venire incontro alle richieste di giudici e assistenti sociali, il tribunale ritiene che la loro rieducazione non sia ancora completata. Anzi, continua a giudicarli piuttosto riottosi e non sembra tenere conto di tutti i gesti di apertura compiuti dai genitori. Motivo per cui ha disposto una valutazione psicologica di Nathan e Catherine. Già: una perizia psichiatrica affidata alla dottoressa Simona Ceccoli, che avrà 120 giorni di tempo per completarla. Il che significa, immaginiamo, che i tempi per il rientro dei bambini siano davvero lunghissimi. Alla fine di gennaio il servizio sociale depositerà una relazione sugli interventi compiuti finora. Nel frattempo, la famiglia sarà posta sotto attenta sorveglianza.
«Non è ancora pervenuta la valutazione del servizio di neuropsichiatria infantile, necessaria per verificare eventuali carenze e stabilire gli interventi necessari per colmarle», scrive il tribunale dell’Aquila. «Nella situazione descritta si ritiene peraltro necessario un congruo accertamento tecnico sulle competenze genitoriali, tanto più in considerazione del gravoso carico educativo che i genitori, optando per scelte di istruzione non convenzionali, si sono assunti in via esclusiva, senza potersi giovare del contributo dei professionisti dell’educazione». Per il tribunale, i Trevallion sono troppo poco malleabili. «Gli indizi che si ricavano dalla condotta tenuta dai genitori nelle interlocuzioni con le autorità sanitaria e sociosanitaria e nell’ambito di questo procedimento parrebbero deporre in favore di una notevole rigidità dipendente dai valori ai quali conformano le loro scelte di vita e dell’assenza di competenze negoziali che consentano loro di ottenere i risultati perseguiti e di farlo al minor costo possibile», si legge nell’ordinanza.
Interessante: se sei troppo rigido, cioè saldo, nei tuoi valori, allora rischi che ti tolgano la prole. Se si dovesse usare questo criterio, rischierebbero perfino San Giuseppe e Maria, anzi soprattutto loro. Per i giudici, infatti, è semplicemente intollerabile che i Trevallion mostrino atteggiamenti stravaganti.
«Significativo appare il rifiuto dell’impiego del sondino naso-gastrico (verosimilmente poiché fatto di silicone o poliuretano) nel trattamento dell’intossicazione da funghi dei figli in occasione del ricovero in ospedale, che denota l’assoluta indisponibilità dei genitori a derogare anche solo temporaneamente e in via emergenziale ai principi ispiratori delle proprie scelte esistenziali», leggiamo ancora. «Come del resto» è stato «necessario insistere perché la madre abbattesse la sua contrarietà a trattare la seria bronchite con broncospasmo da cui era affetta Bluebell. Infine, deve stigmatizzarsi l’insistenza con cui la madre pretende che vengano mantenute dai figli abitudini e orari difformi dalle regole che disciplinano la vita degli altri minori ospiti della comunità, circostanza che fa dubitare dell’affermata volontà di cooperare stabilmente con gli operatori nell’interesse dei figli. Nel corso del procedimento, a soluzioni concordate del minor impatto possibile, hanno preferito l’intensificazione dello scontro con gli operatori, con reiterate manifestazioni di diffidenza nei confronti dei difensori, reiteratamente sostituiti». Davvero inconcepibile: la madre vorrebbe poter decidere come i figli vanno educati e curati, e proprio non si rassegna a farsi comandare da altri.
Per questo motivo, il tribunale ritiene «necessario avvalersi della consulenza e dell’ausilio di esperto che provveda» a compiere «un’indagine personologica e psico-diagnostica del profilo di personalità di ciascun genitore dei minori per valutare: gli stili relazionali e comportamentali; le capacità e competenze genitoriali, nello specifico la capacità di riconoscimento dei bisogni psicologici (in particolare affettivi ed educativi) del minore; l’attenzione progettuale alle esigenze di crescita del minore per garantire un adeguato sviluppo psichico». La psichiatra dovrà, poi, «valutare se i genitori presentino caratteristiche psichiche idonee ad incidere sull’esercizio della responsabilità genitoriale. Ove tale incidenza sia affermata, riferisca se le capacità genitoriali siano recuperabili in tempi congrui rispetto allo sviluppo e alla crescita dei minori, indicando il percorso educativo che i genitori dovranno allo scopo intraprendere». Infine, la specialista sarà tenuta a «compiere un’indagine psico-diagnostica sui minori per accertare le loro condizioni attuali di vita, l’andamento dello sviluppo cognitivo e psico-affettivo, le figure di riferimento riconosciute dagli stessi minori e i modelli di identificazione sviluppati». Tutto chiaro, tutto liscio. Tolti i figli, obbligati i genitori a piegarsi alle regole, ora li si disciplinerà per bene tramite apposito percorso psicologico, affinché si uniformino perfettamente.
E chi decide, i giudici? No, una psichiatra. Viene da domandarsi su quale base effettuerà la sua valutazione: quale comportamento riterrà idoneo? Quali valori? Deciderà che i genitori sono adatti quando saranno disponibili a rinunciare alle loro convinzioni? In un lampo, i Trevallion sono stati patologizzati e dovranno dimostrare di essere sani. Ammesso che, tra un ricatto e l’altro, di loro rimanga qualcosa.
Gianluca Zanella e Francesco Borgonovo affrontano uno dei nodi più controversi del caso Garlasco: il tema della pedopornografia attribuita ad Alberto Stasi. Dalla denuncia contro la criminologa Anna Vagli alla ricostruzione delle perizie sul computer, la puntata chiarisce cosa fu realmente trovato, cosa no e perché quel presunto movente non è mai entrato nel processo.





