2025-11-05
«Le toghe invadono, ma deponiamo le armi»
Il sottosegretario Mantovano ribadisce: «Il Paese è bloccato per decisione di certi magistrati, ma non ce l’abbiamo con loro. Se la riforma vincerà al referendum, avremo bisogno di un confronto civile». Intanto il centrodestra presenta due quesiti.Dopo aver polemizzato con le toghe («i pieni poteri li hanno loro, non il governo»), il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, torna a difendere le ragioni della riforma della giustizia, sia pur aprendo spiragli al dialogo. Ospite della trasmissione Dieci minuti, su Rete 4, Mantovano ha polemizzato: «Il Comitato per il referendum dell’Anm è stato presentato nell’Aula magna della Cassazione, in un luogo sacrale. Che in un luogo del genere vi sia un’assemblea così infuocata non è solo un problema di forma ma di sostanza. Se si usano toni così accesi in un luogo del genere non so quanto i cittadini possano percepire il senso di imparzialità». Ha poi ribadito che «oggi vi è il blocco delle espulsioni grazie a decisioni giudiziarie, così come il blocco delle politiche di sicurezza e delle politiche industriali che vogliono raggiungere certi obiettivi, come avvenuto per l’ex Ilva. A Milano lo sviluppo urbanistico, e quindi economico, è fermo da due anni sulla base di un gruppo molto ristretto di pubblici ministeri. Nel momento in cui nessun funzionario firma più nulla le aziende sono ferme c’è un’invasione di campo chiara». Per l’ex magistrato, «in troppi casi l’appartenenza correntizia è suonata come una sorta di assicurazione anche nei confronti dei propri errori, perché se io eleggo il mio giudice disciplinare con criteri correntizi, mi aspetto poi che lui mi tuteli. Non accade sempre così, ma è accaduto molte volte». Ma poi ha anche teso una mano: «Ai magistrati che dicono che il governo ce l’ha con loro dico “deponiamo le armi”: in primavera io e Meloni abbiamo ricevuto l’Anm a Palazzo Chigi e ci fu detto che la riforma era inemendabile, ma ad esempio da parte dei sindacati non mi è mai stato detto “o si fa così o ce ne andiamo”. Dopo il referendum, se la riforma verrà condivisa dagli italiani, dovremo discutere una legge attuativa per farla funzionare: per far questo serviranno una contrattazione e un confronto civile». Il sottosegretario ha anche dichiarato: «Il referendum ha un oggetto particolare e l’attenzione deve essere concentrata su ciò che la riforma propone. Tutto il resto appartiene alla dialettica politica quotidiana. Se il referendum dovesse bocciare la riforma continueremo il nostro lavoro tranquillamente. La sovranità appartiene al popolo, quando si esprimerà mi auguro che sia rispettato da tutti».Nel frattempo sono state raccolte e depositate 85 firme dal centrodestra a Montecitorio. Ne servivano 80 per la richiesta di convocazione del referendum in Cassazione. Il plico è stato consegnato intorno alle 15 di ieri pomeriggio dai deputati Sara Kelany di Fratelli d’Italia, Simonetta Matone della Lega ed Enrico Costa di Forza Italia. Più tardi nel pomeriggio la raccolta ha preso il via anche al Senato raggiungendo in appena due ore le firme necessarie: 41. Quarantuno firme che bisognava raccogliere entro il 30 gennaio 2026. Il testo del referendum resta l’elemento più importante perché molto dell’esito si affida alla chiarezza del quesito referendario. La maggioranza ha quindi deciso per la doppia formulazione. Alla Camera il quesito referendario riproduce esattamente il testo della legge approvato in Parlamento. In modo che la scelta risulti precisamente aderente alla prassi e alle disposizioni di legge. Al Senato, invece, il testo è stato leggermente modificato in modo da risultare più comprensibile per gli elettori. La scelta non è casuale, l’obiettivo è provare ad arrivare al voto con un quesito il più chiaro possibile. Funzionerà in questo modo: il quesito più tecnico, presentato dalla Camera, arriverà alle urne se quello semplificato, del Senato, venisse scartato dalla Cassazione. Per quanto riguarda i tempi, c’è un precedente che risale al 2001. In quell’occasione si votava per la revisione del Titolo V e anche in quel caso si raccolsero le firme di un quinto dei parlamentari. Allora, si decise di attendere tutti i 3 mesi dalla pubblicazione del testo sulla Gazzetta ufficiale e previsti dalla legge 352 del 1970, che usa l’espressione «entro tre mesi», prima di indire la consultazione nonostante fosse tutto pronto. La scelta mirava a garantire che ci fosse il tempo necessario per tutti per organizzare al meglio la campagna referendaria.Intanto, sono molti i nomi noti nella giustizia italiana il cui favore verso la riforma ha sorpreso. Dopo Antonio Di Pietro, arriva anche la benedizione di Augusto Barbera, già parlamentare del Pci e del Pd e presidente della Corte costituzionale che in un intervento sul Foglio ha spiegato che a suo avviso è «pienamente legittima per la Corte costituzionale, anche a Costituzione vigente, la possibile separazione del regime dei due pilastri». E ha anche chiarito che «la vittoria nel referendum non porterà a una subordinazione al potere politico» perché la «è una riforma liberale divenuta inevitabile dopo la riforma Vassalli che aveva smantellato il vecchio codice di impronta autoritaria e introdotto il sistema accusatorio. Inevitabile conseguenza la separazione delle funzioni e delle carriere, ma intervennero più fattori di rallentamento non ultimi l’emergenza terroristica e l’esplosione del “giustizialismo” di Mani Pulite».Il Pd nell’attaccare il governo sulla riforma, chiama in causa le carceri. «Mentre il governo Meloni si ostina a portare avanti battaglie ideologiche sulla separazione delle carriere, alimentando lo scontro e la delegittimazione della magistratura, le carceri italiane continuano ad andare a picco», hanno dichiarato i deputati dem Federico Gianassi e Debora Serracchiani.
Operazioni di soccorso dopo il crollo ai Fori Imperiali (Getty Images)
Una donna in preghiera in una chiesa nei pressi di Lagos, Nigeria (Getty Images)