2020-09-11
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2025-12-14
Conte scalza Schlein: si mette alla testa del campo largo e poi detta le regole al Pd
Giuseppe Conte (Ansa)
Il capo 5s, ospite ad Atreju, scarica su Giancarlo Giorgetti il disastro del Superbonus. Guido Crosetto porta via a forza Matteo Renzi dal palco.
Il penultimo giorno di Atreju ospita ben due ex premier, Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Già presidenti del Consiglio ma ancora prime donne. «C’è una sedia vuota qui. Manca Giorgia Meloni, la padrona di casa», è la provocazione di Conte, inevitabile, dopo che il direttore del Giornale, Tommaso Cerno, al quale è stato affidato il compito di intervistarlo, gli chiede che fine abbia fatto Elly Schlein. E controbatte: «Ci sarebbe stata se aveste deciso chi è il leader del campo largo». Conte insiste, sentendosi evidentemente già leader del campo largo: «Verrà il giorno, io sono sicuro che verrà un giorno in cui faremo questo confronto». E poi sul campo largo precisa: «Noi siamo disponibili a dialogare con Il Pd e con le altre forze progressiste. Se verrà fuori un’alleanza dipenderà solo dai programmi, se ci verranno scritte le nostre battaglie di sempre, dall’etica pubblica alla legalità, alla giustizia ambientale e sociale».
Alle domande di Cerno, il leader pentastellato risponde sempre scaricando le proprie responsabilità su altri. Sul Superbonus dice: «Conte dopo sei mesi è andato a casa perché il signore qui, Renzi, ha voluto rompere la coalizione. È stato Giancarlo Giorgetti ad aver gestito il Superbonus, è disonorevole chiedere a me conto di come è stato gestito. Non è il Superbonus, è la “superscusa”», si difende attaccando. «È vigliacco chiedermi di rispondere su questa misura, fatta in un momento di emergenza e che non ho potuto gestire». Sul Covid, questa volta è colpa di Mario Draghi: «Da quando è iniziata questa commissione parlamentare di inchiesta sul Covid, non ho mai sentito nominare il nome di Draghi da questa maggioranza. Il green pass è stato introdotto dal governo Draghi, non da me. Avete un problema con Draghi anche solo a nominarlo», denuncia. Tornato all’opposizione, Conte torna ad attaccare l’Europa dimenticandosi di aver sostenuto e contribuito a creare il Von der Leyen I: «L’Europa doveva essere protagonista, ma si rischia il disastro politico». Il riferimento è all’Ucraina su cui spiega: «Se continuiamo a scommettere solo sulla vittoria militare dell’Ucraina sulla Russia e chiudiamo anche quella porta che dovrebbe rimanere sempre socchiusa, quella della diplomazia, ci ritroveremo con una pace che verrà fatta sopra la nostra testa». Rivendica la posizione sfidando anche la Lega. «Vorrei chiarire anche a questa platea che ci sono delle differenze tra il M5s e la Lega di Matteo Salvini, perché la Lega ha fatto un accordo con Russia unita di Vladimir Putin mentre noi non abbiamo accordi con nessuno, siamo assolutamente autonomi e indipendenti. Poi, la Lega di Salvini ha votato tutti gli invii delle armi, ogni volta vota e dice che non è d’accordo». Conte, poi, invita il suo intervistatore a essere più sintetico, bramoso di avere più spazio e visibilità possibili. Di certo lo spazio, tanto, se lo è preso Matteo Renzi, che nel panel dedicato alle riforme, mette in piedi un vero e proprio comizio, un Renzi show.
Tanto che, alla fine, interviene Guido Crosetto che, con un simpatico siparietto, lo solleva e lo porta via di peso dal palco. La verità è che Atreju è di fatto diventata una vetrina imperdibile per tutti, o quasi. Soprattutto per chi, come Renzi, è in cerca di visibilità e consensi. Critico con la segretaria del suo ex partito: «Giorgia Meloni ha detto che era pronta a sfidare Elly Schlein. Schlein ha dato la disponibilità poi però, questo non è accaduto: sto parlando di ciò che è avvenuto nel 2024. Meloni ha ribadito questo invito all’inizio della conferenza stampa di inizio anno. Dopodiché la cosa è molto semplice. Ognuno ha un suo stile. Quando ero presidente del Consiglio, ho dialogato con Giorgia Meloni che aveva allora il 3%, era un po’ il mondo alla rovescia», ricorda amareggiato nel punto stampa di Atreju. Critiche, sul palco, anche sul campo largo: «Io ho visto Abu Mazen al Cairo un mese fa e, quindi, sono un precursore del campo largo...», ironizza riferendosi all’appuntamento che le opposizioni hanno avuto con il leader dell’Anp. «La politica estera è una cosa seria, non è che si fa sulla base degli incontri. Comunque, se può interessare, ho visto Abu Mazen il primo novembre al Cairo».
Poi va nel merito delle riforme. Nel mirino ha quella elettorale. «È evidente che loro (la maggioranza, ndr) vogliono cambiare la legge elettorale perché hanno paura di perdere i collegi. Non è un caso che il rilancio della legge elettorale sia avvenuto mezz’ora dopo che sono arrivati gli exit poll di Decaro e di Fico (alle regionali, ndr). Dopodiché, va capito che tipo di legge fanno, se fanno una legge per bene noi ci siamo. Meloni ha sempre detto preferenze, preferenze, preferenze. Faremo le preferenze sì o no? Io sono qui anche con un po’ di curiosità a sentire Casellati». A cui dice: «Al Senato non è arrivata, avete votato alla Camera», ha detto Renzi, riferendosi alla riforma del premierato nonostante sia stato approvato in prima lettura a Palazzo Madama nel giugno 2024. Secca la replica del ministro delle Riforme, Elisabetta Casellati: «Si vede che al Senato non ci sei mai».
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John Elkann nella redazione della «Stampa» (Ansa)
- Il quotidiano torinese si incensa aprendo la serie degli articoli autobiografici. Per ora l’adesione convinta al Ventennio non si trova. Non sarebbe la prima volta che su 158 anni di esistenza emerge qualche amnesia.
- Il vicepremier ricorda tutti gli errori della famiglia Elkann. Carlo Calenda si accoda: «Evidente assenza di valori». Il dem Andrea Orlando invece è un disco rotto: «Serve il Golden power».
Lo speciale contiene due articoli
«Diremo tutto su tutto». La frase compare nell’editoriale che presenta a Torino e al mondo la prima copia de La Gazzetta Piemontese (1867), mamma del quotidiano La Stampa che oggi soffre per il concreto rischio di essere ceduto a un armatore greco, a un manager aeroportuale veneto. E comunque a chi aggrada a John Elkann, in fuga dai media dopo essere scappato dall’Italia sulla Panda col doppiofondo. Quelle quattro parole sono «un’impronta genetica a cui è stata fedele nel suo secolo e mezzo di vita», ricordava ieri un lungo articolo rievocativo, un viaggio dentro la storia del giornale con accenti leggendari e con un sottofondo amaro, dovuto al grottesco parallelismo indotto con l’oggi e la destra al governo.
Titolo: «Quando il fascismo isolò Frassati». Era il direttore-proprietario che dovette andarsene nel luglio 1925, agli albori del regime, approccio che serve per evocare un fiero passato antifascista nel Dna del quotidiano. Poiché adesso sappiamo che bisogna «dire tutto su tutto» è importante aggiungere che dal giorno dopo La Stampa non diventò fascista, ma fascistissima. Questo nonostante il motto latino «Frangar non flectar» (mi spezzo ma non mi piego) a lungo impresso accanto alla testata. Era accaduto un fatto difficile da ricordare a cuor leggero: Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato basetta) aveva rilevato redazione e tipografia con la benedizione di Benito Mussolini. Alla scrivania di Alfredo Frassati sedette Andrea Torre e nel ventennio impronunciabile il giornale accompagnò la storia d’Italia dalla parte del potere.
Per evitare che lo smemorato piemontese più famoso, quello di Collegno, venga sostituito da un bianchetto redazionale come da celebre vignetta di Giorgio Forattini, meglio ricordare ciò che sarebbe più comodo dimenticare. È necessario aggiungere che dal 1929 al 1931 il direttore della Stampa fu Curzio Malaparte, grande scrittore e intellettuale in camicia nera prima di essere folgorato dall’Unione sovietica. Alcuni suoi editoriali, lirici nei confronti del paradiso comunista, gli valsero l’epurazione da parte del signor Fiat. Volendo sublimare quel passato e giocare maliziosamente con lunari parallelismi oggi di moda, allora il giornale riuscì nell’impresa di celebrare due dittature in una, quella rossobruna. Come scriverebbe Annalisa Cuzzocrea, fu il primo putiniano della storia.
Allora nella sede di via Roma con ingresso dalla galleria San Federico, la famiglia Agnelli dettava legge e i direttori cominciarono ad alternarsi con la velocità degli ultimi allenatori della Juventus: Augusto Turati, Alfredo Signoretti, Vittorio Varale, Filippo Burzio. Dopo l’8 settembre 1943 a firmare La Stampa furono Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Di loro si è persa la memoria, sciolti nell’acido in effigie. Forse perché l’adesione del giornale alla Repubblica sociale fu così entusiastica che a fine conflitto il Cln ne fece sospendere per un breve periodo l’uscita per connivenza con il fascismo morente. Altro che Dna antifa.
La selettività neuronale è una debolezza umana e un quotidiano di 158 anni ha pure diritto a qualche vuoto di memoria. Che sarà mai. Un privilegio messo in atto già una volta, nel 2017, quando una pubblicazione celebrativa con eventi, articoli, grandi firme del passato e del presente (titolo «Il mondo che ci aspetta») aveva steso un velo di nebbia proprio su quei 20 anni, come se dal 1925 al 1945 la tipografia avesse smesso di funzionare per un misterioso sortilegio alieno. Niente di strano visto che a Torino, con la bonomia disincantata del popolo verso il suo giornale, La Stampa è soprannominata «la Busiarda». È curioso come la solerzia di ripulire la propria storia e di chiedere garanzie politiche agli editori di domani non si sia mai accompagnata alla necessità di fare l’esame del sangue agli editori di oggi e di ieri. Stessa famiglia, stesso passato, stesse camicie negli aviti armadi di cedro antitarme.
Quel vuoto mnemonico non ricapiterà. Poiché al termine del bell’articolo storico di Cesare Martinetti c’è la dicitura «1-continua» è scontato che tutto questo verrà riportato con completezza e trasparenza già oggi o domani. Nel frattempo lo abbiamo fatto noi, infingardi e petulanti innamorati del piccolo cabotaggio, anche per rendere giustizia proprio all’eroico Frassati. «Espressione della borghesia cavourriana liberale e illuminata» (che allora significava zero ma proprio zero socialista), quel direttore era davvero un grande, giustamente dipinto come «difensore di un giornalismo mai conformista». Quindi per proprietà transitiva lontano anni luce dal turbo progressismo woke di questa stagione della Stampa, vissuta al calduccio del pensiero unico mainstream. E nel triennio di Massimo Giannini sulla tolda, perfino imbarazzante scudiera dell’ala sinistra del Pd.
«Frangar non flectar», la storia non deve mai far paura. Sennò, partendo dal «Mi spezzo ma non mi piego», si finisce con i piedi e le rotative dentro un altro magico mondo, quello di Ennio Flaiano, e del suo altrettanto immortale «Mi spezzo ma non mi spiego».
Salvini: «Di danni ne hanno fatti»
«Elkann faccia quello che vuole. Quella famiglia di danni in Italia ne ha fatti tanti». Matteo Salvini non usa mezzi termini. Lo dice a margine di un’iniziativa della Lega alla bocciofila Martesana di Milano, mentre circolano voci su una possibile vendita della Juventus da parte di John Elkann. Indiscrezioni smentite in giornata da Exor, ma sufficienti a innescare una reazione politica trasversale. Il vicepremier non mette il becco sulla questione Juve. «Io sono milanista e non entro in casa altrui», premette. Poi affonda: quella famiglia ha fatto danni. Dall’auto ai giornali, fino al calcio.
Salvini poi rilancia con una proposta: «Come Lega, conto di riuscire a far approvare velocemente la legge, che prevede la partecipazione dei tifosi nell’azionariato e nella gestione della società. Sarebbe una rivoluzione positiva, sia per i grandi club che per le piccole squadre». Coinvolgere chi ama quelle maglie, chi riempie gli stadi. «Chi vuole può partecipare con risorse e scelte. Il calcio italiano sta perdendo colpi».
Le critiche senza sconti a Elkann uniscono Salvini e Carlo Calenda. Il leader di Azione attacca su X: «Elkann ha dimostrato di non avere valori e di non tenere in alcun conto la storia della sua famiglia e della sua patria, avendo venduto Marelli, Comau, Iveco, La Stampa e Repubblica e desertificato le fabbriche italiane. Le sue dichiarazioni valgono zero. Come ben sanno gli operai». Il copione è noto: smontare, vendere, spostare. John Elkann non costruisce, dismette. Non rilancia, liquida. Lo fa con la freddezza del manager globale che considera l’Italia una voce di bilancio, non una responsabilità storica. Le indiscrezioni sulla Juve sono l’ultimo tassello di una ritirata che dura da anni. Prima l’industria automobilistica, con Stellantis che produce Fiat all’estero mentre in Italia si fermano linee e modelli. Poi l’editoria, con lo smembramento del gruppo Gedi e la cessione dei giornali storici. Ora il calcio, ultimo simbolo popolare rimasto. Non sorprende che Salvini parli di «danni fatti all’Italia». Né che Calenda parli di assenza di valori. Qui non è in discussione il mercato, ma le scelte: sfilarsi, arretrare, alleggerire la presenza nel Paese.
Il Partito democratico, immobile e muto in tutti questi anni davanti allo scempio e alla dismissione soprattutto della storia dell’auto italiana, sembra un disco rotto. «Penso che il ricorso al Golden power per la vicenda Gedi sia un buon auspicio destinato a rimanere tale. Un buon auspicio perché la dimensione di un organo di informazione è sempre strategica. Eppure irrealizzabile. Per ovvi motivi. Spero di sbagliarmi ma credo che il governo non abbia interesse a impedire che un uomo collegato ai circuiti economici internazionali e amico della destra diventi l'azionista di riferimento», dichiara Andrea Orlando. «Se poi il Golden power non è stato applicato per Magneti Marelli, Iveco, Comau, asset proprietari di brevetti, fondamentali per il Paese, che sono finiti nelle mani di fondi speculativi o di case produttrici straniere. Oggi la deindustrializzazione va avanti, a gonfie vele, a favore del reshoring verso Stati Uniti». Strano perché è sempre stata l’opposizione a denunciare presunte ingerenze della maggioranza sull’informazione. Mentre, all’opposto, il centrosinistra si opponeva a protezioni su Unicredit. È evidente che la ferita aperta della cessione di quotidiani d’area mandi in tilt quelli del Nazareno, che mettono insieme in un grande calderone allarmi democratici, critiche al sovranismo e alle politiche migratorie. «La vendita di Repubblica», conclude infatti l’ex ministro, «è uno smacco al mondo progressista, di impostazione democratica, se pensiamo al giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ma è anche un sintomo di cosa sia il nazionalismo italiano che vale solo per bloccare le frontiere».
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- Video del nipote dell’Avvocato: «Società fuori dal mercato». L’offerta di Tether (1,2 miliardi) è troppo bassa per il cda.
- Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco. Il rampollo sbaglia però si consola con la liquidità delle cessioni: 4 miliardi al 2025.
Lo speciale contiene due articoli.
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco
Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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Luigi Di Maio (Ansa)
L’ex leader del M5s candidato in pectore a ricoprire l’incarico di coordinatore speciale delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente. Pure la sua retribuzione fa un balzo: sfiorerà il mezzo milione di dollari all’anno.
Le vie di Giggino sono infinite. Altro che nove vite come i gatti, quelle di Luigi Di Maio non si contano più. In un modo o nell’altro si è sempre saputo riconvertire. E dopo che le opportunità in Italia si sono affievolite, ha iniziato a giocarsi le carte all’estero. Nel 2023 diventa rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico, e adesso è in corsa per un altro super incarico: coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente (Unsco).
Secondo quanto anticipato dal Foglio, è stato contattato direttamente dall’Onu qualche settimana fa. L’organizzazione internazionale lo ha individuato come uno dei principali candidati per quel ruolo. La procedura è ancora in corso, ma le parti coinvolte nell’operazione hanno già espresso parere favorevole, compreso il governo Meloni e la stessa Unione europea, che ha definito «eccellente» il suo lavoro nel Golfo.
L’ufficio di coordinatore speciale per il Medio Oriente è stato istituito nel 1994, con gli accordi di Oslo, e si propone di facilitare il processo di transizione e di «rispondere ai bisogni del popolo palestinese». Ha il compito di rappresentare il segretario generale dell’Onu in Medio Oriente e per questo, chi ricopre tale posizione, diventa automaticamente anche vice segretario generale delle Nazioni Unite. In pratica Di Maio coordinerebbe il sistema delle Nazioni Unite, ovvero i vari enti che fanno riferimento all’Onu nell’area, in tutti gli sforzi politici e diplomatici relativi al processo di pace circa il futuro di Israele e dei territori palestinesi, incluso il Quartetto per il Medio Oriente (il cui inviato speciale, in passato, è stato Tony Blair) che comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, il cui scopo è favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese. Che, a oggi, significherebbe implementare il piano Trump per Gaza. Insomma, un lavoro immane, che autorevoli rappresentati prima di lui hanno miseramente fallito. Oltretutto Di Maio dovrebbe trasferirsi a Gerusalemme, dove ha sede la struttura.
Tutt’altro che un incarico semplice, seppur ben pagato. Come rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico guadagna adesso 13.000 euro mensili netti che salgono a oltre 16.000 in caso di trasferimento all’estero. La retribuzione dell’Onu per il Medio Oriente può superare, invece, i 250.000 dollari all’anno più indennità di località (che sono molto alte per il Medio Oriente) nonché altri benefici. A questo va aggiunto lo stipendio da vice segretario dell’Onu che supera i 150.000 dollari all’anno ai quali, anche qui, si aggiungono le indennità di alloggio o famiglia.
Le retribuzioni dell’Onu sono spesso esenti dalle tasse nazionali, aumentando il potere d’acquisto. Insomma, con questo lavoretto Di Maio potrebbe sfiorare il mezzo milione di stipendio all’anno. L’ultimo che ha ricoperto quel ruolo, la diplomatica ed ex ministra olandese Sigrid Kaag, già coordinatrice Onu per gli aiuti umanitari e la ricostruzione a Gaza, dopo appena sei mesi ha lasciato la poltrona a giugno con parole durissime: «Questo ufficio è nato con gli Accordi di Oslo, quando c’era ancora il sogno di un percorso verso i due Stati. Ora non è più scontato. A un certo punto bisogna chiedersi: questa istituzione ha ancora senso?». Dopo di lei l’incarico è andato a Ramiz Alakbarov, un funzionario azerbaigiano dell’Onu con decenni di esperienza, già coordinatore Onu in Etiopia e in Afghanistan.
Se adesso il delicato incarico andasse a Di Maio, il momento sarebbe decisamente critico. E per uno che non ha terminato nemmeno gli studi universitari e che mastica a malapena l’inglese è un fardello a dir poco sorprendente. Eppure, il ragazzo di Pomigliano d’Arco, prossimo ai 40 anni, è pieno di qualità nascoste. Non potrebbe che essere così per uno che a 27 anni era vicepresidente della Camera, il più giovane nella storia d’Italia, che nel 2017 è stato scelto come capo politico del Movimento 5 stelle e nell’anno di grazia 2018 ha visto la sua scalata ricoprendo le cariche di ministro del Lavoro, nonché di vicepresidente del Consiglio nel governo Conte I (2018-2019), quindi di ministro degli Esteri nel governo Conte II (2019-2021) e nel governo Draghi (2021-2022). Nel 2022, fuori dal Movimento dopo aver rotto con Giuseppe Conte e Beppe Grillo, ha cercato successo fondando un suo partito, Insieme per il futuro, ma è stato escluso dal Parlamento e sembrava arrivata per lui la via del tramonto. E, invece, tutt’altro.
Ad aprile 2023 si aprono le porte di una nuova carriera internazionale. L’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, lo indica come candidato ideale per fare l’inviato dell’Unione europea per il Golfo. E così Di Maio, superando nella selezione tanti navigati diplomatici di carriera, risale in cattedra. Adesso potrebbero aver confezionato per lui un altro compito estremamente delicato in questa fase storica. Con le operazioni militari di Israele ai danni della Striscia di Gaza e una crisi umanitaria ancora in corso, sarebbe coinvolto attivamente nel piano di pace che gli Stati Uniti hanno promosso per la Palestina. Ma per uno che ha sconfitto la povertà questo è un gioco da ragazzi.
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