2021-05-08
«Io sono Giorgia». In anteprima l'estratto del nuovo libro della leader di Fratelli d'Italia
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Pubblichiamo per gentile concessione dell'editore un estratto del libro di Giorgia Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee (Rizzoli, 336 pagine).«Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui». In questo libro, Giorgia Meloni parla per la prima volta di sé a tutto tondo. Passato, presente e futuro del leader politico sul quale sono puntati gli occhi di molti, in Italia e non solo.Ricordo quando fui invitata al Congresso mondiale delle famiglie, un appuntamento promosso da alcune associazioni per confrontarsi sullo stato dell'arte delle tematiche legate alla famiglia in Italia, e fui oggetto, per questo, di ogni genere di insulto. Ricordo le manifestazioni a Verona, le femministe che mi urlavano contro, i picchetti per impedirci di entrare, e ricordo che si discusse persino sull'opportunità che il governo italiano concedesse il patrocinio all'iniziativa. Sì, perché lo stesso Stato che negli anni ha patrocinato le cose più impresentabili – dalle mostre con opere che ritraevano Gesù Cristo crocifisso immerso in un bicchiere di urina, o la Madonna che piange sperma, mentre fingeva di non vedere le iniziative nelle scuole in cui si prendono bambini di sei anni e si cambiano loro i vestiti, mettendo alle femminucce gli abiti dei maschietti, e viceversa, per spiegare la teoria gender – ora si vergognava di mettere le sue insegne su un convegno che parlava di come incentivare la famiglia naturale fondata sul matrimonio; di come aiutare le donne a non essere discriminate, a non dover scegliere tra mettere al mondo un bambino e avere un posto di lavoro; e di come combattere quella deriva che fa della vita umana uno strumento nelle mani della scienza, invece del contrario.Il paradosso più inaccettabile di tutti è che secondo i sacerdoti del pensiero unico devi essere libero di poter fare ogni cosa. Libero di privare un bambino della madre o del padre, libero di decidere della vita di un altro, libero di abortire al nono mese, o di farlo a casa con una semplice pasticca, come se la gravidanza equivalesse a un banale mal di testa. Devi essere libero di definirti donna anche se non lo sei, uomo anche se non lo sei, libero di drogarti e disporre della tua morte come ritieni. Ma non puoi essere libero di dire che non sei d'accordo con tutto questo. Per paradosso, i sostenitori delle più estreme libertà sono anche i più feroci censori di chi afferma le tesi contrapposte.Io credo che non ci sia nulla di mostruoso o impresentabile nel difendere la famiglia fondata sul matrimonio. E dico di più, credo che non ci sia neanche nulla di discriminatorio verso gli altri tipi di unione. Ognuno è libero di amare chi vuole, ovviamente, ma questo non c'entra niente con le leggi. Perché le leggi di uno Stato non normano i sentimenti, e ci mancherebbe altro. Lo Stato tende a incentivare ciò che considera utile e necessario per migliorare il funzionamento della società. Così, i nostri padri costituenti, non dei biechi bigotti, scelsero di inserire nella Costituzione il cosiddetto favor familiae, una legislazione dedicata per stimolare, attraverso una serie di benefici, l'unione solida tra un uomo e una donna. Per una ragione banale, che nulla ha a che fare con la sfera affettiva di ognuno: perché allo Stato la famiglia formata da un uomo e una donna che si sposano serve. Come ammortizzatore sociale, intanto, perché le istituzioni non potrebbero caricarsi il peso di tutto ciò che la famiglia garantisce. E in secondo luogo perché un uomo e una donna che si uniscono in matrimonio lo fanno quasi sempre anche nell'ottica di avere dei bambini, e alla società servono figli. Il popolo italiano sta scomparendo. È un fatto, non un'opinione. Pensate che il 2020 (annus horribilis) è stato l'anno in cui abbiamo registrato il minimo storico di figli dall'Unità d'Italia. Cioè dal 1861! E come se non bastasse, complice l'epidemia di COVID19, è stato anche l'anno con più decessi dal dopoguerra. Quasi il doppio dei neonati. Purtroppo gli italiani fanno pochi figli e non condivido l'idea sostenuta sempre più apertamente dalla sinistra, che si possa fare a meno degli italiani, rimpiazzandoli con chi è appena arrivato da altre parti del mondo. Un grande conservatore contemporaneo, il filosofo francese Rémi Brague, ha giustamente annotato: «Un'epidemia uccide, un crollo della natalità impedisce di nascere. Il risultato è lo stesso...».Quello della denatalità è il più grande problema che l'Occidente si trova ad affrontare. La denatalità mette a repentaglio non solo la nostra tenuta sociale, ma anche quella economica. Il nostro sistema di welfare, per essere mantenuto, ha bisogno di ricambio. Le nostre comunità continuano a invecchiare, l'età media, fortunatamente, si allunga, e il nostro sistema di protezione sociale non può reggere se, mentre gli anziani aumentano, i bambini invece diminuiscono. Andando avanti avremo sempre più persone da mantenere e sempre meno persone che lavorano per mantenerle. Tornare a fare figli è indispensabile, e questa è la principale ragione per la quale dovremmo rafforzare la legislazione di favore che abbiamo verso la famiglia, invece di picconarla come stiamo facendo, accecati dal furore ideologico. Giorgia Meloni e sua figlia Ginevra (Twitter)So cosa qualcuno di voi starà pensando, mentre legge queste righe. «Parli tanto di famiglia fondata sul matrimonio ma intanto non sei sposata.» E vero. Personalmente, se lo facessi mi sposerei in chiesa, perché per come la vedo io, se decidi di prenderti verso un'altra persona l'impegno a fare tutto ciò che puoi per salvaguardare quell'unione, «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, tutti i giorni della tua vita», ha senso che tu lo faccia al cospetto di Dio. Ma questa è una scelta personale. Se decidi di farlo di fronte allo Stato, sai che comunque questo premierà quell'impegno alla stabilità che ti stai prendendo. Puoi decidere di non farlo, certo, ed è quello che per ora ho fatto io, consapevole di perdere qualcosa. Ma il punto è che non pretendo che lo Stato riconosca a me gli stessi privilegi che riserva a chi quell'impegno lo ha messo per iscritto.Perché il problema è che viviamo in una società nella quale pare non esistere più alcun nesso tra diritti e doveri. Ogni desiderio diventa un diritto, persino ogni capriccio, e di contro è sparito qualsiasi richiamo alla responsabilità. Io rivendico una società nella quale sia chiaro che a ogni scelta corrispondono delle conseguenze. Alla libertà serve responsabilità. Invece da noi l'egoismo si trasforma facilmente in programma politico. «Voglio partorire un bambino a settant'anni, voglio diventare madre anche se sono un uomo, voglio un reddito di cittadinanza anche se potrei lavorare, voglio la cittadinanza italiana anche se ho appena messo piede in Italia», e potrei fare una lunga lista di altre pretese che finiscono per diventare istanze politiche, quando non addirittura leggi dello Stato.Oggi la famiglia, come nucleo fondante di ogni società e dell'identità di ciascuno di noi, è sotto attacco. Lo è come tutto ciò che ci definisce, perché per l'ideologia globalista l'identità in sé è il principale nemico da abbattere. Se ci fate caso, tutti i presidi identitari, tutto ciò che ci distingue è avversato con ogni mezzo. La famiglia come la nazione, l'identità di genere come la religione. Tutti questi principi sono considerati un retaggio del passato, qualcosa di stantio da superare, e il ruolo di chi come me si definisce conservatore è, invece, difenderli. «La vera ragione per cui le persone sono conservatrici è che sono attaccate alle cose che amano e vogliono preservarle da abusi e decadimenti» ha sempre ribadito Roger Scruton, il più grande pensatore conservatore contemporaneo, scomparso all'inizio del 2020 (arieccolo!).Da ragazzi tutti abbiamo cantato la meravigliosa melodia di Imagine di John Lennon, una delle più famose canzoni della storia della musica. Tutti abbiamo pensato che le sue parole fossero rivoluzionarie, e che alla base del pensiero di quel pioniere del globalismo vi fosse il sogno di un mondo finalmente giusto, finalmente buono. Ma rifletteteci un attimo. È davvero un sogno da realizzare un mondo senza confini, senza distinzioni, privo delle sue culture millenarie e delle sue tradizioni, nel quale siamo tutti non uguali nei diritti, ma uguali e basta? È davvero ciò a cui dobbiamo tendere, rinunciare alla centralità della persona umana, alla sua unicità, diventare tutto e non essere niente, se non anelli di una catena di montaggio, semplici numeri, privi di consapevolezza e di radici, e dunque della civiltà che ci portiamo dietro, con la sofferenza delle sue conquiste? Non è invece, quella raccontata poeticamente da Lennon e perseguita con molta meno poesia dai buonisti di oggi, l'anticamera di una società omologata nella quale saremo così deboli da non poter più difendere i nostri diritti, e saremo in balia delle grandi concentrazioni economiche, di quel mondialismo spinto che accentra il potere e la ricchezza nelle mani di pochi, sulla pelle di miliardi di persone, che plasma a suo uso e consumo?Tutti uguali, tutti consumatori dello stesso prodotto, tutti schiavi. «Produci, consuma, crepa» ammoniva non a caso Giovanni Lindo Ferretti con i suoi CCCP. E sempre Lindo Ferretti scrive invece, con la sua L'imbrunire, un inno che sembra la risposta proprio a Imagine di John Lennon, con quel suo incipit – «Sogno ponti levatoi e mura a protezione / piccole patrie sempre sul chi vive...» – che in molti tra i buonisti considererebbero scioccante. Perché, se c'è un nemico contro cui il «cretino planetario» – come lo definì Marcello Veneziani – si scaglia, esso è il muro. «L'appello ad abbattere i muri e a stendere ponti è ormai ossessivo e riguarda non solo i popoli e i confini territoriali ma anche i sessi e i confini naturali, le culture e i comportamenti, le religioni e le appartenenze, e perfino il regno umano dal regno animale. [...] Senza muri non c'è casa, non c'è tempio, non c'è sicurezza. Senza muri non c'è pudore, intimità, protezione dal freddo, dal buio e dall'incognito. Senza muri non c'è senso della misura, riconoscimento del limite e dei propri limiti. Senza muri non c'è bellezza, non c'è fortezza, non c'è fondazione delle città, non c'è erezione di civiltà. [...] I muri sono i bastioni della civiltà, gli ospedali della carità, le biblioteche della cultura, le pareti dell'arte, il raccoglimento della preghiera.» Imagine memorial (iStock)L'idea secondo cui l'esistenza del limite rappresenta una violenza verso l'altro è pura follia. Peggio, è ignoranza. Lo disse bene Alberto Angela, il quale, in un monologo in RAI del 2017, seppe spiegare con parole semplici ed efficaci come «un muro unisce non solo un popolo ma anche tanti popoli lungo il tempo».No, il mondo preconizzato dal leader dei Beatles non è la mia utopia. La mia utopia è che in questa società sempre più persone ritrovino il coraggio di dire ad alta voce quello che, in cuor loro, continuano a pensare ma preferiscono non esternare per non essere tacciate di impresentabilità. Perché sono idee tutt'altro che impresentabili, spesso sono tesi persino banali, e tuttavia oggi è necessario combattere per difenderle. «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate» scriveva Gilbert Keith Chesterton, e ancora più chiaro, tanto per cambiare, è Tolkien, che nelle Due torri fa dire al principe Faramir: «La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli uomini di Nùmenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza» (sì, lo so, due citazioni una attaccata all'altra non si dovrebbero mettere, ma stavolta era davvero impossibile scegliere tra le due).Prendiamo la legge 194. Ripeterò fino allo sfinimento che non ho mai avuto alcuna intenzione di abolire la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza. Rivendico, invece, la sua piena applicazione, in particolare per tutta la parte che riguarda la prevenzione. La legge 194 fu immaginata e voluta per eliminare gli aborti clandestini, ma considerava comunque l'aborto una extrema ratio e si poneva l'obiettivo di aiutare le donne a non dovervi ricorrere. Poi è stato il furore ideologico di certa sinistra, tanto per cambiare, a impedire che tutta la parte relativa al sostegno delle donne in senso precauzionale venisse applicata. Per me, invece, è irrinunciabile affermare che le istituzioni sono dalla parte di chi decide di tenere un bambino.Lungo il mio percorso politico ho più volte fatto proposte per impedire che per troppe donne l'interruzione di gravidanza fosse l'unica possibilità. Aiuti economici per portare a termine la gestazione, anche nel caso in cui si volesse dare il bambino in adozione, sostegno psicologico, il potenziamento dei centri di aiuto alla vita. Ogni volta che ho posto tali questioni si sono levati gli scudi, in nome del «diritto all'autodeterminazione della donna». E ogni volta, anche qui, nessuno ha risposto alle mie domande. Ma che autodeterminazione è, se l'unica strada che mi viene proposta è quella dell'aborto? Autodeterminazione significa poter fare una scelta libera, scevra da condizionamenti, pienamente consapevole, tra diverse opzioni. E questa libertà, oggi, spesso non viene garantita. Una cosa è impedire che le donne finiscano sotto i ferri di qualche macellaio illegale, ed è giusto, ma cosa completamente diversa è considerare l'aborto una vittoria, qualcosa a cui tendere o da incentivare o da banalizzare. Perché può essere doloroso, nel corpo e nell'anima, e non si può fingere che non sia così. Non si può escludere a priori che alcune donne che scelgono questa strada un giorno potrebbero pentirsene, e io ne ho incontrate diverse. Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca, che produce contrazioni ed emorragie, solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile. Invidio coloro che in questo campo hanno solo verità da dispensare. Quelli che ti dicono senza tentennamenti che un embrione non è vita, o che è tale dalla quattordicesima settimana di gravidanza. Io queste certezze non le ho, ma so che la prima cosa che ho visto di mia figlia Ginevra, durante un'ecografia, era il suo cuore che batteva. E so che ognuno di noi, dal momento del concepimento, è portatore di un codice genetico unico e irripetibile, per sempre. Questo, piaccia o no, ha del sacro. E il sacro non si maneggia con arroganza o con superficialità.Ma poi, quale civiltà spende molti più soldi e molte più risorse per cercare modi per liberarsi più facilmente della vita umana di quanti ne spenda per cercare di favorirla? Davvero queste sono tesi impresentabili? Io credo di no. Credo che impresentabile sia una politica che si fa finanziare e sostenere dalle multinazionali degli aborti, come accade ai presidenti democratici USA con la Planned Parenthood, per poi magari proporre la legalizzazione di pratiche come l'aborto a nascita parziale, un orrore contro il quale il presidente degli Stati Uniti George W. Bush dovette fare un'apposita legge, e che Hillary Clinton, durante la sua campagna per le presidenziali, tornò a proporre. Saltate le prossime tre righe se non volete leggere qualcosa di davvero spaventoso. Aborto a nascita parziale significa che fanno uscire solo il corpo del bambino e schiacciano la testa mentre si trova ancora nel grembo, così da configurarlo come aborto e non come omicidio. Questa pratica io la combatterò sempre, con tutte le energie che ho, costi quel che costi.Come combatterò una società che a parole si schiera con le donne, con le mamme, con i bambini ma nel concreto fatica a fare un salto culturale fondamentale: riconoscere che i figli sono una risorsa irrinunciabile, e che chi li mette al mondo sta facendo qualcosa di utile per tutti noi. Per questo, fra le altre cose, occorre dare vita a strumenti che consentano alle donne, nel terzo millennio, di non dover scegliere tra avere un figlio o un lavoro, e a chi potrebbe assumerle di non dover pagare di più per averlo fatto. Ci scagliamo spesso contro gli imprenditori che, a parità di condizioni e di capacità, tra assumere un uomo o una donna in età fertile, scelgono spesso il primo per «paura» che la seconda possa andare in maternità, ma omettiamo di dire che il nostro welfare scarica la gran parte del costo della maternità di quella dipendente proprio sulle imprese, e in un'era come questa non tutti se lo possono permettere. Così come ci lamentiamo che i giovani rinuncino troppo spesso alla genitorialità ma dimentichiamo che nell'attuale sistema un figlio equivale, per uno dei due genitori, di solito la madre, a dover rinunciare allo stipendio, per periodi più o meno brevi, in un'Italia nella quale, ormai, è difficile cavarsela per una famiglia monoreddito. Perché non è l'egoismo a scoraggiare i giovani dal fare figli, come in troppi dicono, ma la paura. Paura di non avere una stabilità, di non poter mai comprare una casa, di non avere una pensione dignitosa, eccetera. In una parola, di non poter garantire a quel bambino il meglio. Per paradosso, è l'amore verso quel figlio non ancora nato a impedirgli, spesso, di venire al mondo. Non a caso tante volte mi è capitato di definire eroi i giovani che scelgono di diventare genitori. iStockPartono da queste riflessioni molte delle proposte che abbiamo trasversalmente sostenuto, come l'assegno unico familiare – perché su alcune materie è fondamentale collaborare e non dividersi –, e molte delle rivendicazioni che abbiamo elaborato negli anni, particolarmente con Fratelli d'Italia.Abbiamo ideato, ad esempio, un potenziamento dei nidi e delle scuole dell'infanzia, estendendo l'orario fino alla chiusura dei negozi, e prevedendo anche un'apertura estiva a rotazione, come viene fatto in Paesi ben più poveri dell'Italia; così come abbiamo fatto decine di proposte per far coprire allo Stato il costo di sostituzione di maternità, invece di scaricarlo sulle aziende, e aumentare la retribuzione dei congedi, portandola all'80 per cento anche dopo i primi mesi, perché l'attuale 30 per cento diventa spesso proibitivo. Sono tutte misure necessarie per agevolare e potenziare l'occupazione femminile. Certo costano, e di soldi non ce ne sono molti. È la ragione per la quale sia a Giuseppe Conte, sia a Mario Draghi, abbiamo proposto di inserire il tema della natalità tra le priorità del Recovery Plan. La questione demografica non è solo un problema italiano, ma europeo, e non mi capacito di come la stessa Europa che ha un programma per tutto, dall'Erasmus sulla mobilità all'Horizon sulla ricerca, non abbia mai ritenuto di investire risorse su questa questione con un programma Familiae. Ma, in ogni caso, in questo dibattito continuano a sfuggire alcuni punti fondamentali. Primo: non è vera la teoria di chi, rassegnato, dice che incentivare la natalità o addirittura le famiglie numerose sarebbe un deterrente al lavoro femminile. Con adeguati strumenti le due cose possono camminare insieme, come hanno ampiamente dimostrato nazioni, Francia e Stati del Nord in testa, nelle quali è stata messa in campo una strategia seria di sostegno alla maternità, e che oggi vantano un alto tasso di occupazione femminile e – contemporaneamente – un numero di nascite al di sopra della (tragica) media europea. Secondo: la disoccupazione femminile è un enorme freno allo sviluppo del nostro Paese. Per intenderci, dati alla mano, se l'Italia colmasse il gap occupazionale delle donne in rapporto agli uomini colmerebbe automaticamente anche buona parte del divario occupazionale tra Italia e media europea. Mettendo le donne italiane in condizione di lavorare, noi saremmo automaticamente una nazione più produttiva e più ricca, e questo comporterebbe anche maggiori risorse che entrano nelle casse dello Stato e che possono essere reinvestite in strumenti di protezione sociale e incentivo, creando un incredibile circolo virtuoso.Spero davvero che questi miei ragionamenti non passino per essere ciò che non sono, e cioè legati a una visione passatista del ruolo delle donne, ma che possano invece essere considerati un terreno comune di riflessione su ciò che serve per modernizzare l'Italia. In queste materie, purtroppo, gli schemi ideologici di alcuni impediscono spesso di confrontarsi con serietà e coscienza sulle grandi questioni del nostro tempo. A me capita spessissimo di essere banalizzata, o ghettizzata da certa intellighenzia per le cose che dico, indipendentemente dal come e dal perché lo dico, come se il merito delle questioni non interessasse perché è più importante appiccicare un'etichetta o farmi rientrare nello stereotipo che altri hanno costruito per me. Tutti si dicono d'accordo sul fatto che la denatalità in Italia sia un problema, ma se lo dico io che sono di destra, allora la mia è nostalgia per l'Opera maternità e infanzia di Benito Mussolini.Stessa cosa su tutte le materie definite etiche, e che io preferisco chiamare «valori non negoziabili», come la sacralità della vita. Un principio che ha fatto dell'Europa la civiltà che è, e dell'Italia una pioniera di quella civiltà. Fu infatti il Granducato di Toscana, nel 1786, ad abolire per primo la pena di morte nel continente. Perché siamo contrari alla pena di morte se la vita non è sacra? In altri Paesi, ancora oggi, finiscono sulla sedia elettrica i pluriassassini, persone non certo amabili, eppure noi in Europa ci rifiutiamo, giustamente, di accettare il principio che la vita di un essere umano, di qualsiasi essere umano, possa venire considerata, secondo la legge, come un interruttore che si può accendere o spegnere per mano dell'uomo. Se quel principio è un valore, e io credo lo sia, allora certi temi devono essere maneggiati con cura.Prendiamo la questione, dibattutissima e complessa, dell'eutanasia. Ricordo la drammatica vicenda di dj Fabo, un bel ragazzo pieno di vita che in seguito a un incidente era rimasto totalmente paralizzato e a lungo ha combattuto per chiedere di farla finita, perché non riusciva a sopportare di dover attraversare in quella condizione la sua esistenza. Ricordo quando mia madre mi telefonò arrabbiatissima perché sosteneva la sua richiesta e considerava crudele la mia opposizione al principio dell'eutanasia. E ricordo quante volte mi sono domandata, guardando quel ragazzo, come mi sarei sentita io al suo posto, e quante altre ho provato a mettermi nei panni di sua madre, che straziata vede soffrire quel figlio ogni singolo giorno, e finisce per accettare di vederlo morire pur di mettere fine a quella sofferenza.Sono umana come tutti quelli che hanno sostenuto la battaglia di Fabo, ma sono anche un legislatore, e il mio compito è capire la portata che hanno decisioni che sembrano facili, e umane, guardando al singolo caso, ma che inevitabilmente portano effetti disumani e impensabili quando vengono universalmente applicate. Perché «tutti i cittadini [...] sono eguali davanti alla legge». Mi spiego. Se io stabilisco, per norma, il principio secondo cui una persona che considera – a torto o a ragione – la sua vita non dignitosa è libera di porvi fine, questo varrà per tutti. E, poiché il giudizio sulla dignità della propria esistenza è soggettivo, non ci sarebbero più limiti. Se invece di essere paralizzato completamente, come Fabo, non avessi le gambe, sarei libero di chiedere che mi venga tolta la vita? E se fossi sano ma infelice? O dispongo della mia vita o non ne dispongo, non ci sono parametri che possano regolare questo discrimine. E non sto facendo filosofia, sto semplicemente raccontando la cronaca di quello che è successo nei Paesi che hanno fatto leggi sull'eutanasia, magari partendo da casi estremi, e poi si sono ritrovati con i minorenni depressi che chiedevano di essere uccisi. Il punto di vista del legislatore è molto più complesso di come può apparire dall'esame dei fatti di cronaca, e deve essere così. Serve qualcuno che si assuma la responsabilità di non inseguire l'emotività del momento e di farsi domande scomode. Spesso è doloroso, e difficile, ma è il compito della politica. Dj Fabo (Ansa)Non tutto ciò che è scientificamente possibile, per come la vedo io, è anche umanamente lecito. È lecito che una donna, magari costretta dall'indigenza, ceda il proprio utero per denaro e affronti un'intera gravidanza, un parto, e poi veda quel bambino nascere e lo venda, perché qualcuno possa avere un figlio col proprio patrimonio genetico quando non è biologicamente possibile, per l'età avanzata o perché gli aspiranti genitori sono due uomini? A mio avviso non lo è. Anche qui, si parte dal caso singolo, magari toccante, di chi vorrebbe giustamente vivere l'emozione e l'amore della genitorialità e si finisce con i supermercati di bambini, dove puoi scegliere il colore dei capelli del tuo futuro figlio come fosse un qualunque prodotto da banco. Perché o è lecito comprare un figlio o non lo è, e se lo è ci saranno automaticamente i «negozi» che li vendono, non lo potrai impedire.Davvero nessuno si fa queste domande, o semplicemente si preferisce reprimerle per rincorrere il facile consenso? Perché c'è anche questo alla base della nostra società fuori controllo. L'idea che tutto sia dovuto, e la tendenza a privilegiare chi ha voce per rivendicare i suoi presunti diritti rispetto a chi quella voce non ce l'ha. Per un fatto di consenso. Chi vota, vince. Ma è giusto uno Stato che tutela il più forte, invece di difendere chi non può farlo da solo? No, non lo è dal mio punto di vista. Per questo, ad esempio, sono contraria alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, e non per omofobia, come anche qui si dice per non dover rispondere alle domande banali che faccio.In Italia non è consentita l'adozione ai single, e le leggi sull'adozione prevedono una serie di criteri molto stringenti per le coppie che si propongono, che vanno dalla situazione economica dell'aspirante famiglia, alla stabilità della coppia, fino all'età dei futuri genitori. Eppure nessuno ha mai parlato di singolofobia, o di poverofobia, o di anzianofobia. Semplicemente perché la fobia non c'entra nulla. Tutte queste norme vengono fatte a tutela del più debole, cioè del bambino, che non potendo scegliere da solo ha bisogno che sia lo Stato a occuparsi di lui, e perché si ritiene che a ogni bambino debba essere garantita la condizione ottimale. Avere un padre e una madre, una famiglia possibilmente unita, di un'età congrua. Resto convinta che ogni bambino abbia diritto ad avere un padre e una madre. Il che non significa dire che due uomini, o due donne, non potrebbero crescerlo con amore, esattamente come sono tantissimi i bambini felici cresciuti in famiglie monogenitoriali. Io sono una di questi, e ho avuto una bella infanzia della quale ringrazierò sempre la mia mamma, per gli enormi sacrifici che ha fatto. Ma quando vedo Ginevra giocare con suo padre devo fare i conti con una felicità che io non ho mai potuto provare. Perché la vita ci può privare di alcune cose, succede. Si guarda in faccia il proprio destino e ci si adatta. Cosa diversa, però, è che sia la legge a privartene, perché altri hanno ritenuto che il loro desiderio valesse più dei tuoi diritti. Se fossi in un dibattito ad argomentare questa tesi, il mio interlocutore replicherebbe, probabilmente, con una frase del tipo: «Ma non è meglio far crescere un bambino con qualcuno che lo ami, fossero anche una persona sola o due persone dello stesso sesso, piuttosto che farlo vivere in un istituto?». Giusto il principio, sbagliato il presupposto. Per variegate ragioni, oggi i bambini che si riescono a adottare sono molti meno delle famiglie che vorrebbero adottarli. E questo ci consente di garantire loro l'optimum, almeno sulla carta.Mi dispiace se alcune persone omosessuali non condivideranno questa mia posizione ma io non faccio politica per rincorrere il consenso, bensì per difendere le idee in cui credo. Mi dispiace essere etichettata da qualcuno come «omofoba» per questo, anche perché penso di essere una delle persone meno bigotte del pianeta. Non lo dico per assecondare la vulgata del politicamente corretto, ma davvero reputo che ognuno, purché non faccia del male ad altri, possa amare chi vuole e vivere la propria vita sessuale come meglio crede. La mia non è «tolleranza» nei confronti di chi è altro rispetto a me, è proprio che non distinguo le persone in base alle scelte sentimentali che fanno. La mia è piuttosto intolleranza nei confronti delle cose illogiche, tipo l'ideologia gender, quella secondo la quale non esisterebbero le categorie biologiche di maschio e femmina, ma un'infinità di sfumature, in base ai gusti, al carattere e alle inclinazioni di ciascuno. Una tesi che apre numerosi interrogativi che in troppi fingono di non capire.Da qualche tempo si cerca di portare le teorie gender nelle scuole, con la scusa di favorire la cultura della tolleranza. E si pretende che queste attività partano fin dalle elementari. È uno degli obiettivi della legge Zan, che formalmente si propone di combattere l'omofobia ma nella pratica fa tutt'altro. Quando la norma fu discussa in aula, feci ai colleghi una domanda alla quale nessuno rispose. È giusto spiegare cosa sia l'omosessualità a bambini di sei anni nella stessa scuola in cui si è scelto di non portare l'educazione sessuale? E perché, pur non essendo sessuofobi, non insegniamo l'educazione sessuale a scuola? Banalmente, perché si è ritenuto che bambini così piccoli non avessero gli elementi per metabolizzare adeguatamente alcune questioni, e che dovessero essere le famiglie, che conoscono quei bambini meglio di chiunque altro, a maneggiare una materia così delicata, e a me pare ancora la scelta giusta da fare.Di nuovo, ognuno è libero di sentirsi come vuole, di ascriversi l'etichetta che più sente propria, ma quando si passa dai comportamenti individuali alle norme che regolano la vita della collettività, ai principi da applicare a tutti, con l'idea di «tutelare» qualcuno si rischiano nuove ingiustizie. La teoria gender portata all'estremo potrebbe avere conseguenze enormi, e finirebbe per discriminare soprattutto le donne. Ed è strano che, a volte, siano proprio alcune femministe le principali sponsor di queste bizzarre tesi.Puoi essere uomo e sentirti donna, puoi essere donna e sentirti uomo, ma non puoi pretendere che le leggi dello Stato ti assecondino. Perché se lo facessero, semplicemente, sarebbe il caos, e soprattutto andrebbero disperse molte conquiste fatte fin qui, in particolare dal mondo femminile. Farò solo un esempio, per far comprendere cosa intendo: i transgender nel mondo dello sport. In Australia, un atleta uomo di pallamano è diventato donna e ora gioca nella nazionale femminile. Pesa cento chili per un metro e novanta. È giusto verso le atlete biologicamente donne, che non potranno mai competere con una tale forza? Martina Navratilova, campionessa di tennis lesbica e femminista, ha giustamente dichiarato: «Non basta definirsi donna per competere con le donne. [...] È una vera e propria truffa che ha consentito a centinaia di atleti che hanno cambiato genere di vincere quello che non avrebbero mai potuto ottenere in campo maschile, specialmente negli sport in cui è richiesta potenza». A me pare chiaro che le cose siano sfuggite di mano.E ancora: arriveremo a stabilire le quote per ogni singolo orientamento sessuale e identità di genere? E, se lo facessimo, sarebbe corretto dire che è ingiusto nei confronti delle donne? Io, come si sa, non sono favorevole alle quote rosa, ma come la prenderebbe la sinistra se all'atto della compilazione delle liste elettorali, avendo problemi a stare nel bilancino della parità di genere, chiedessi a qualche mio deputato maschio di dichiarare che si sente femmina per metterlo al posto di una candidata donna? E ancora, se stabiliamo che sia discriminazione dire che gli uomini non hanno l'utero e non possono avere figli, significa anche che le leggi in favore delle mamme, e le risorse destinate, dovranno essere disponibili per chiunque senta in cuor suo di avere un utero anche se non risulta da nessuna ecografia? Fate pace con voi stessi, cari compagni, che rischiate di attorcigliarvi sulle vostre bizzarre rivendicazioni.Se devo dirlo con una battuta, viene da pensare che gli uomini, avendo capito che è arrivato il tempo delle donne, si stiano buttando in questa metà campo; ma al di là delle semplificazioni rimane il fatto che, se decidiamo che i generi sono da abolire, andrà a discapito soprattutto delle donne, che saranno terribilmente penalizzate proprio mentre il mondo comincia a riconoscere il loro valore. Tutti i passi in avanti che sono stati fatti verranno cancellati. [...]
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)