La notte del 26 dicembre 1944 in Garfagnana i tedeschi e gli alpini della Divisione «Monterosa» colsero di sorpresa i «Buffalo Soldiers», gli afroamericani della 92ª Divisione di fanteria.
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
Le Ferrovie Meridionali Sarde, nate negli anni Venti in concessione, servirono per oltre 40 anni l'industria estrattiva e i suoi lavoratori. Sopravvissute alla guerra, furono sopraffatte dal boom petrolifero e dal traffico privato.
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La Sardegna era rimasta l’ultima regione dell’Italia postunitaria a non avere una strada ferrata. Le difficoltà logistiche dovute alla distanza dal continente erano state il principale ostacolo, seguito dallo scarsissimo sviluppo economico e industriale dell’isola, caratterizzata da una secolare arretratezza. Le prime ferrovie sarde furono infatti realizzate oltre vent’anni dopo la prima linea italiana, la Napoli-Portici del 1839. Solo nel 1862, su concessione del governo unitario, fu costituita a Londra con capitale privato la Compagnia delle Ferrovie Reali Sarde (CFRS) che realizzò in 18 anni la tratta che collegava, percorrendo l’interno della Sardegna, Cagliari a Porto Torres. Negli anni successivi la rete fu ampliata da altre due concessioni ferroviarie realizzate con capitale privato. La prima fu la Società delle Strade Ferrate Secondarie della Sardegna (SFSS), fondata nel 1886, che realizzò linee a scartamento ridotto da 950mm (più agili dell’ordinario per i tratti più tortuosi dell’interno dell’Isola) tra il 1888 e il 1932. Le SFSS coprirono le tratte Cagliari – Isili (1888), Monti – Tempio Pausania (1888), Macomer – Nuoro (1889), Isili – Villacidro (1891), Mandas – Sorgono (1893), Mandas – Seui (1893), Seui – Villanova Tulo (1894), Villanova Tulo – Ussassai (1894), Ussassai – Gairo (1894), Gairo – Tortolì / Arbatax (1894), Villamar – Ales (1915), Sassari – Alghero (1929), Sassari – Tempio Pausania (1931), Tempio Pausania – Palau (1932). Una terza rete ferroviaria fu quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna (FCS), una concessione scaturita dalla legge finanziaria del 1912 con capitale pubblico. A scartamento ridotto come le SFSS, le Complementari entrarono in esercizio solo nel 1921. Le tratte coperte furono Chilivani – Tirso (1921), Villamassargia – Carbonia (1926), Decimomannu – Iglesias (1926).
La zona Sud-occidentale invece, rimasta per anni isolata dalla rete ferroviaria, fu coperta negli stessi anni da un’altra rete in concessione, che avrebbe servito negli anni successivi una delle aree segnate dal più intenso sviluppo industriale: il Sulcis delle miniere di carbone. La Società delle Ferrovie Meridionali Sarde (FMS) fu fondata a Busto Arsizio l’11 dicembre 1914 ma si dovettero attendere quasi 10 anni per l’inizio dei lavori a causa dello scoppio della Grande Guerra. L’esigenza primaria dell’ultima rete ferroviaria sarda in ordine cronologico era duplice: fornire un importante supporto logistico all’industria estrattiva in quegli anni in rapida crescita per il trasporto del carbone verso le navi e garantire allo stesso tempo mobilità adeguata ad una popolazione crescente a causa della domanda di forza lavoro nelle miniere del Sulcis Iglesiente. Anche le FMS erano a scartamento ridotto ed i lavori furono appaltati all’impresa Durando&Tomassini, che in soli tre anni dal 1923 al 1926 portò a termine più di 100 km. di linea costruendo 5 gallerie, 34 opere tra ponti e viadotti, 18 stazioni e 55 case cantoniere. Le tratte erano Siliqua-S.Giovanni Suergiu (connessione con FCS) e Calasetta-Iglesias-San Giovanni Suergiu. Nella tratta finale verso Calasetta erano localizzate le stazioni di scarico del carbone come quella di S.Antioco-Ponti, attrezzata con gru portuali per il carico del materiale sulle navi. Il materiale rotabile comprendeva carri passeggeri e merci, trainate inizialmente da locomotive a vapore Breda gruppo 100. Questi convogli servirono le FMS per circa un decennio in cui il traffico sia passeggeri che merci aumentò costantemente, nonostante la velocità di esercizio ridotta a poco più di 40 km/h. Nel 1936 la società acquistò le prime littorine Aln 200, che dimezzarono i tempi di percorrenza grazie ad una velocità omologata di 85 km/h. Quelli delle sanzioni seguite alla guerra d’Etiopia furono gli anni d’oro delle FMS, che arrivarono a garantire fino a 60 convogli giornalieri e a superare il milione di tonnellate/anno di carbone trasportate dai carri merci.
Poi fu la guerra, che portò la prima crisi per la società. A causa della carenza di carburante, le littorine furono accantonate e si tornò alla trazione a vapore. Il trasporto del carbone subì una contrazione di oltre il 60% a causa della mancanza di naviglio mercantile. Poi dal cielo arrivarono i bombardamenti alleati sui porti e sulla linea a meno di 20 anni dall’inizio dell’esercizio, che causarono gravi danni alle strutture e al materiale rotabile. Si salvarono tuttavia le littorine, che durante la guerra erano rimaste nascoste sotto un fogliame mimetico. Nel dopoguerra iniziò la ristrutturazione delle linee, con un piano elaborato nel 1947, che sancì la prima e ultima fase di ripresa delle FMS, grazie anche ai livelli di estrazione del carbone che arrivarono nuovamente a sfiorare il milione di tonnellate. Fu un fattore esterno, alla metà degli anni Cinquanta, a generare una crisi della società dalla quale non si sarebbe più ripresa. Il miracolo economico e i progressi tecnici favorirono la diffusione dei prodotti petroliferi, con conseguente crollo del mercato del carbone. Dal 1960 le FMS furono sottoposte a commissariamento da parte dello Stato, che provò a modernizzare la linea con l’acquisto di 6 nuove automotrici ADe (diesel-elettriche). Ma la carenza ormai cronica di passeggeri fu aggravata anche dalla realizzazione di una linea ferroviaria in concorrenza con le arrancanti FMS. Nel 1956 le Ferrovie dello Stato inaugurarono la linea Villamassargia-Carbonia, che agevolava di molto il transito passeggeri verso Cagliari e serviva l’importante sito minerario di Serbariu, che fino ad allora si era affidato alle FMS. Ormai semideserte ed erose dalla diffusione sempre maggiore del traffico automobilistico privato, le storiche ferrovie del carbone giunsero al binario morto, terminando definitivamente l’esercizio nel 1974.
Durante la guerra aerea dell'estate 1940 sulla Manica, la Luftwaffe realizzò scafi galleggianti per salvare i preziosissimi aviatori in caso di ammaraggio. Ancorate in punti strategici del Canale d'Inghilterra, le boe salvarono numerose vite. Anche gli inglesi ne realizzarono esemplari simili.
Nei mesi della Battaglia di Inghilterra, iniziata nel luglio 1940 dopo la rapida caduta della Francia, la guerra aerea fu l’essenza della strategia da entrambe le parti. La Luftwaffe, con i suoi 2.500 velivoli in condizioni operative, superò inizialmente la Royal Air Force, che in quel periodo iniziò un enorme sforzo industriale per cercare di ridurre il «gap» numerico e tecnologico (nacquero in quel periodo i fortissimi caccia Hawker «Hurricane» e Supermarine «Spitfire» che saranno decisivi per l’esito finale della battaglia). Se le fabbriche sfornavano centinaia di velivoli al mese (i tedeschi con i Messerschmitt Bf 109, gli Heinkel 111 e i Dornier Do17), i comandi delle due aviazioni non potevano formare altrettanti piloti in così poco tempo, rendendo la figura dell’aviatore un bene preziosissimo da preservare il più possibile viste le ingenti perdite in battaglia. Un aspetto così delicato in un momento così drammatico per l’esito della guerra fu affrontato per primo dagli alti comandi della Luftwaffe. La necessità era quella di salvare il più alto numero di equipaggi in un teatro di operazioni principalmente localizzato nello specchio di mare della Manica, sopra il quale nel picco dei combattimenti dell’agosto 1940 volavano quotidianamente oltre 1.500 aerei.
La soluzione per il salvataggio degli aviatori in caso di ammaraggio con sopravvissuti venne da un ex asso della Grande Guerra, il generale di squadra aerea Ernst Udet. L’ufficiale, secondo solamente al «Barone Rosso» Manfred von Richtofen per numero di abbattimenti, era stato da poco nominato responsabile per la logistica e gli appalti della forza aerea del Terzo Reich. Fu nel picco delle operazioni dell’estate 1940 che Udet sviluppò la sua idea: una boa «abitabile», posizionata nei tratti di mare statisticamente più soggetti agli ammaraggi e ancorata al fondale. I piloti potevano leggerne la posizione sulle carte aeronautiche in dotazione. Di forma esagonale, la «Rettungsboje» (letteralmente boa di soccorso) aveva una superficie abitabile di 4 metri quadrati. Lo scafo aveva un’altezza di 2.5 metri ed era sovrastato da una torretta finestrata di ulteriori 1,8 metri. Verniciata in giallo, presentava una visibile croce rossa (standard della Convenzione di Ginevra) sui lati della torretta. All’interno dello scafo potevano trovare alloggio sicuro quattro aviatori, con due cuccette a castello ancorate alla struttura per rimanere stabili nel mare agitato. Riscaldata da una stufa ad alcool, la boa offriva razioni d’emergenza e acqua ma anche cognac, sigarette e carte da gioco. Negli armadi erano presenti il kit di primo soccorso ed abiti asciutti, mentre le comunicazioni erano fornite da una radio ricetrasmittente. All’interno c’erano anche una pompa per eventuali falle e un canotto per raggiungere i soccorsi una volta giunti nei pressi della boa. Completavano l’equipaggiamento razzi di segnalazione e una macchina per i fumogeni di emergenza. Il personale ospitato dalle boe poteva resistere protetto dall’ipotermia e dai marosi anche per una settimana nell’attesa che un idrovolante di soccorso o una nave li raggiungesse.
Circa 50 furono le «Rettungsbuoje» dislocate nella Manica, contribuendo al salvataggio di un numero imprecisato di aviatori. Gli inglesi realizzarono un mezzo simile nello stesso periodo, seppure molto differente nella forma. La boa ASR-10 (Air Sea Rescue Float) assomigliava molto ad un motoscafo, seppur priva di propulsore. Era studiata per facilitare l’accesso da parte dei naufraghi in balia delle onde, con la poppa digradante verso l’acqua. L’equipaggiamento era molto simile a quello della boa tedesca. Dipinta in rosso e arancio vivaci, fu realizzata in 16 esemplari ancorati nel braccio di mare tra Inghilterra e Francia tra il 1940 ed il 1941. Oggi un esemplare è conservato presso lo Scottish Maritime Museum.
Le boe tedesche, dopo la fine della Battaglia di Inghilterra, furono spostate presso le Channel Islands, il piccolo arcipelago occupato temporaneamente dai tedeschi e utilizzate come punti di vedetta o di difesa dopo essere state munite di una mitragliatrice. A causa della loro vulnerabilità furono quasi tutte affondate dagli aerei della Raf. Un esemplare recuperato nel 2020 dopo essere rimasto per decenni arenato e insabbiato a Terschelling nelle isole Frisone occidentali è conservato al «Bunkermuseum» dell’isola olandese.
Ernst Udet, dopo l’esito infausto della Battaglia d’Inghilterra per la Luftwaffe, già in preda all’alcolismo cadde in depressione. Si tolse la vita a Berlino il 17 novembre 1941, forse anche per le conseguenze della pressione psicologica che Hermann Göring esercitò sull’ufficiale dell’aeronautica addossandogli la responsabilità della sconfitta.















