All'inizio del secolo XX il fondatore di Alleanza assicurazioni realizzò una dimora da sogno. Occupata da tedeschi e americani, fu usata anche dai Carabinieri nel dopoguerra. Recuperata negli anni '80 dopo il declino, oggi è tornata agli antichi fasti.
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Ewan Mackenzie, di padre scozzese, era toscano fin nel midollo. Da Firenze, la città che lo vide nascere nel 1852, assorbì la passione per l’arte e la letteratura del Rinascimento e dell’opera di Dante di cui fu collezionista delle edizioni più rare della Commedia.
Mackenzie si trasferì a Genova come agente dei Lloyds di Londra. Qui alla fine del secolo XIX fonderà un impero in campo assicurativo, l’Alleanza Assicurazioni. Il grande successo imprenditoriale gli permise di coronare il sogno di una vita: quello di dare nuova forma al Rinascimento toscano nella città della Lanterna con la costruzione di una dimora unica nella zona degli antichi bastioni di san Bartolomeo al Castelletto che dominano Genova ed il porto antico. Trovò nell’esordiente architetto fiorentino Gino Coppedè la professionalità giusta per realizzare la sua nuova dimora. Quest’ultimo era figlio d’arte di uno degli ebanisti più quotati dell’epoca, Mariano Coppedé. I lavori di costruzione del capolavoro dell’eclettismo tipico degli anni a cavallo tra i secoli XIX e XX iniziarono nel 1897 per concludersi 9 anni più tardi, nel 1906. Il castello, che cambiò la prospettiva dalla vicina piazza Manin, era un capolavoro di arte ispirata al Medioevo ed al Rinascimento. La torre principale ricordava quella di Palazzo Vecchio a Firenze, mentre mura, nicchie torrette e merletti, compresi i fossati e i ponti, facevano pensare ai manieri medievali. All’interno dominava la boiserie della bottega Coppedé, nelle oltre 80 stanze della dimora. Non mancava un tocco di modernità nell’impianto di riscaldamento centralizzato e nell’acqua calda disponibile in tutta la casa. Il palazzo ospitava anche una piscina riscaldata ed un ascensore di grande capienza. Nei sotterranei erano state ricavate grotte scenografiche, ispirate alla Grotta Azzurra di Capri, con statue mitologiche e giochi d’acqua, e non mancava un luogo dedicato alla preghiera, una cappella in stile neogotico con vetrate artistiche, ed una immensa biblioteca dove erano conservate le edizioni più preziose della Commedia dantesca. Il castello fu abitato dalla famiglia fino alla morte del proprietario avvenuta nel 1935. La figlia di Ewan, Isa Mackenzie, la cedette poco dopo ad una società immobiliare. Dopo l’8 settembre 1943 fu requisito dai tedeschi e scampò per miracolo ai pesantissimi bombardamenti sulla città. Nel dopoguerra fu brevemente occupato dagli Alleati prima di essere destinato a diventare una stazione dei Carabinieri, che rimasero fino al 1956 quando il castello fu dichiarato monumento nazionale. In seguito fu adibito a sede di una società sportiva, la Società Ginnastica Rubattino, e dagli anni Sessanta andò incontro ad un declino durato per tutto il decennio successivo. Solo negli anni seguenti la dimora da sogno di Mackenzie poté essere recuperata al suo splendore originario. Nel 1986 il magnate e collezionista d’arte americano Mitchell Wolfson Jr. rilevò il castello ed iniziò un complesso restauro a partire dal 1991 prima di cederlo a sua volta a Marcello Cambi, famoso restauratore toscano e patron dell’omonima casa d’aste della quale il castello divenne la sede, dopo un’ulteriore restauro da parte del grande architetto genovese Gianfranco Franchini, tra i progettisti assieme a Renzo Piano e Richard Rogers del Centro Georges Pompidou di Parigi.
Il 4 dicembre 1911, durante la guerra Italo-Turca, i bersaglieri conquistarono l'oasi di Ain Zara. Durante i lavori di trinceramento venne alla luce un mosaico. Era il primo reperto dell'antica città di Oea, l'attuale Tripoli.
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Il 4 dicembre 1911 i cannoni italiani tuonarono ad Ain Zara, un’oasi fortificata a circa 15 chilometri a sud di Tripoli, capitale conquistata dagli Italiani nell’ottobre precedente, all’esordio della guerra di Libia. La zona era ancora fortemente presidiata da truppe arabo-ottomane, che minacciavano costantemente la città in mano agli italiani.
All’alba del giorno stabilito per l’offensiva, il Regio Esercito iniziò la marcia diviso in tre colonne cui presero parte quattro Reggimenti di fanteria, uomini del 4°Reggimento artiglieria da montagna e del 1° Artiglieria da campagna supportati da reparti del Genio. Lo scontro fu duro, gli arabi (che eguagliavano quasi nel numero gli italiani) offrirono una strenua resistenza. Solo l’azione delle artiglierie fu in grado di risolvere la situazione e, dopo una battaglia corpo a corpo all’interno dell’oasi e 15 caduti tra gli italiani, poco dopo le 15 su Ain Zara sventolava il tricolore con lo stemma sabaudo. Fu per la campagna di Libia una vittoria importante perché da quel momento Tripoli non fu più minacciata e perché fu la prima azione concertata del Regio Esercito fuori dall’Europa.
Il 6 dicembre 1911 un avvenimento legato al combattimento di due giorni prima aggiunse importanza all’oasi appena conquistata. Nel pomeriggio i bersaglieri del 33°battaglione dell’11°Reggimento che stavano eseguendo lavori di trinceramento si accorsero di aver dissotterrato dalla sabbia un mosaico. Verso le 17 emerse dal terreno quello che appariva un raffinato manufatto perfettamente conservato, con disegni geometrici e motivi vegetali, di 6,75X5,80 metri. A prima vista, quella dei bersaglieri e dei loro ufficiali sottotenente Braida e più tardi maggiore Barbiani e colonnello Fara, appariva come il pavimento di una villa. Inizialmente attribuito all’età degli Antonini (92-192 d.C.). Più tardi, dopo l’analisi fatta dagli archeologi guidati dal professor Salvatore Aurigemma, si ipotizzò una collocazione cronologica più precisa e corrispondente all’età di Marco Aurelio. I bersaglieri, con la conquista dell’oasi di Ain Zara, avevano riportato alla luce un frammento dell’antica Oea, l’attuale Tripoli. Negli anni successivi, a poca distanza dal campo di battaglia del dicembre 1911 fu riportato alla luce quello che attualmente è l’unico monumento integro dell’antica città della Tripolitania romana: l’arco di Marco Aurelio, che fu trovato poco dopo la fine delle ostilità. Un altro pezzo del grande patrimonio archeologico della Libia romana, che i pezzi da 149/23 e quelli da 75/27 dell’artiglieria alpina contribuirono involontariamente a riportare alla luce.
Nel parco di Villa Torlonia a Roma, fu il buen retiro di Giovanni Torlonia. Superbo esempio dell'eclettismo Art Nouveau, è sopravvissuta alla guerra, all'incuria e ad un incendio.
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Dalle sue finestre vedeva il Duce e la sua famiglia, il principe Giovanni Torlonia. Dal 1925 fu lui ad affittare il casino nobile (la villa padronale della nobile casata) per la cifra simbolica di una lira all’anno al capo del Governo, che ne fece la sua residenza romana. Il proprietario, uomo schivo e riservato ma amante delle arti, della cultura e dell’esoterismo, si era trasferito a poca distanza nel parco della villa, nella «Casina delle Civette». Nata nel 1840 come «capanna svizzera» sui modelli del Trianon e Rambouillet con tanto di stalla, fu trasformata in un capolavoro Art Nouveau dal principe Giovanni a partire dal 1908, su progetto dell’architetto Enrico Gennari. Pensata inizialmente come riproduzione di un villaggio medievale (tipico dell’eclettismo liberty di quegli anni) fu trasformata dal 1916 nella sua veste definitiva di «Casina delle civette». Il nome derivò dal tema ricorrente dell’animale notturno nelle splendide vetrate a piombo disegnate da uno dei maestri del liberty italiano, Duilio Cambellotti. Gli interni e gli arredi riprendevano il tema, includendo molti simboli esoterici. Una torretta nascondeva una minuscola stanza, detta «dei satiri», dove Torlonia amava ritirarsi in meditazione.
Mussolini e Giovanni Torlonia vissero fianco a fianco fino al 1938, alla morte di quest’ultimo all’età di 65 anni. Dopo la sua scomparsa, per la casina delle Civette, luogo magico appoggiato alla via Nomentana, finì la pace. E due anni dopo fu la guerra, con villa Torlonia nel mirino dei bombardieri (il Duce aveva fatto costruire rifugi antiaerei nei sotterranei della casa padronale) fino al 1943, quando l’illustre inquilino la lasciò per sempre. Ma l’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno del 1944 non significò la salvezza per la Casina delle Civette, anzi fu il contrario. Villa Torlonia fu occupata dal comando americano, che utilizzò gli spazi verdi del parco come parcheggio e per il transito di mezzi pesanti, anche carri armati, di fatto devastandoli. La Casina di Giovanni Torlonia fu saccheggiata di molti dei preziosi arredi artistici e in seguito abbandonata. Gli americani lasceranno villa Torlonia soltanto nel 1947 ma per il parco e le strutture al suo interno iniziarono trent’anni di abbandono. Per Roma e per i suoi cittadini vedere crollare un capolavoro come la casina liberty generò scandalo e rabbia. Solo nel 1977 il Comune di Roma acquisì il parco e le strutture in esso contenute. Iniziò un lungo iter burocratico che avrebbe dovuto dare nuova vita alle magioni dei Torlonia, mentre la casina andava incontro rapidamente alla rovina. Il 12 maggio 1989 una bimba di 11 anni morì mentre giocava tra le rovine della Serra Moresca, altra struttura Liberty coeva della casina delle Civette all’interno del parco. Due anni più tardi, proprio quando sembrava che i fondi per fare della casina il museo del Liberty fossero sbloccati, la maledizione toccò la residenza di Giovanni Torlonia. Per cause non accertate, il 22 luglio 1991 un incendio, alimentato dalle sterpaglie cresciute per l’incuria, mandò definitivamente in fumo i progetti di restauro.
Ma la civetta seppe trasformarsi in fenice, rinascendo dalle ceneri che l’incendio aveva generato. Dopo 8 miliardi di finanziamenti, sotto la guida della Soprintendenza capitolina per i Beni culturali, iniziò la lunga e complessa opera di restauro, durata dal 1992 al 1997. Per la seconda vita della Casina delle Civette, oggi aperta al pubblico come parte dei Musei di Villa Torlonia.

























