2025-11-20
Zelensky conta il bottino dopo il tour. E intanto l’industria bellica brinda
Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.Una crescita che da sola compensa la stagnazione globale. Il Continente è oggi il mercato più dinamico del settore, sospinto dal timore per l’aggressione russa e dalla corsa di Bruxelles a un’autonomia strategica ancora incompiuta. Parallelamente, gli esportatori europei - Francia, Germania e Italia - hanno rafforzato la loro posizione tra i protagonisti mondiali. Leonardo, Thales, Rheinmetall e Airbus Defence & Space registrano ricavi e arretrati da record, mentre le prime 100 aziende globali del settore hanno superato 632 miliardi di dollari di introiti nel 2023. Fabbriche a ciclo continuo, piani industriali fino al 2030, ordini garantiti dai governi: è la realtà di un comparto che vive un’espansione senza precedenti dalla Guerra Fredda. A questa dinamica si somma la trasformazione della Russia in un’economia di guerra a tutti gli effetti. Il Cremlino ha portato oltre il 40% della spesa pubblica su difesa e sicurezza, con stanziamenti annui che superano i 110 miliardi di dollari per il triennio 2024-2026. Interi distretti industriali sono stati riconvertiti per produrre missili, droni, munizioni e blindati; i turni sono incessanti, la manodopera ampliata, la pianificazione centralizzata. Mosca punta non solo a sostenere il fronte ucraino, ma a garantire capacità produttiva per un confronto lungo e strutturale con l’Occidente. Il risultato è un circolo che si autoalimenta: più la Russia aumenta il ritmo produttivo, più l’Europa rafforza i propri arsenali, più Kiev richiede armamenti avanzati. E più il mercato si espande. L’Ucraina è infatti diventata il primo importatore di armi al mondo (8,8% del totale), mentre gli Stati europei della Nato dipendono sempre più dagli Stati Uniti, che forniscono il 64% delle loro importazioni militari. Washington resta il dominatore assoluto dell’export globale con il 43%, seguita dalla Francia con quasi il 10%. Il massiccio afflusso di armamenti in Ucraina riaccende l’allarme sull’eventuale dispersione di sistemi d’arma in reti criminali o gruppi non statali. Le intelligence europee temono che una parte del materiale, soprattutto quello proveniente dai primi mesi della guerra e consegnato in condizioni di emergenza, possa sfuggire al tracciamento ufficiale. A preoccupare sono in particolare armi leggere, munizioni, missili anticarro portatili e droni tattici, strumenti che sul mercato nero mantengono un alto valore. Bruxelles e le capitali europee temono che queste forniture possano alimentare traffici nel Baltico, nei Balcani e nel Mediterraneo, creando nuove rotte per gruppi criminali e attori ostili. L’allerta riguarda anche il ritorno di foreign fighters che potrebbero tentare di trasportare componenti sensibili oltre frontiera. Fuori dal Continente, il business rimane molto vivace: India, Qatar e monarchie del Golfo continuano ad acquistare sistemi costosi, mantenendo alta la domanda anche in Asia e Medio Oriente. Ma è la terza categoria di destinazioni - quella più imbarazzante per l’Ue - a rivelare le contraddizioni del sistema: Egitto e Sudan. Il Cairo ha comprato dall’Europa il 65% delle sue nuove navi militari; il Sudan ha visto mezzi francesi ed emiratini finire nelle mani delle milizie Rsf, come riportato da Amnesty International. La stessa Ue ammette che tracciare l’utilizzatore finale è «complesso», tra subappalti multinazionali, segretezza commerciale e catene di fornitura opache. Il risultato è un modello nel quale governi che parlano di diritti umani approvano esportazioni verso Paesi che li violano sistematicamente. Così, mentre nei vertici internazionali si invoca la de-escalation, all’ombra delle dichiarazioni politiche si consolidano bilanci miliardari. La difesa è ormai percepita come settore strategico, indispensabile alle economie nazionali e impossibile da frenare senza impatti occupazionali e industriali. In questo scenario, l’Europa e la Russia, pur su fronti opposti, vivono un paradosso simmetrico: entrambe alimentano un sistema in cui il conflitto diventa un driver economico. I beneficiari sono chiari - grandi industrie, governi esportatori, complessi militari nazionali.