Famiglia del bosco, nella disputa entra (di nuovo) l’Anm. Salvini: «Una decisione vergognosa»
Per chi contava su un lieto fine e coltivava la speranza che la famiglia del bosco potesse stabilmente riunirsi per Natale, la risposta del Tribunale per i minorenni dell’Aquila è stata un pugno nello stomaco devastante.
Ma le dichiarazioni, riportate dal quotidiano Il Centro, dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Abruzzo che, per voce della presidente Virginia Scalera, ha parlato di «tempi fisiologici» e della necessità di un «percorso lungo» per il recupero della responsabilità genitoriale, oltre ad avere raffreddato in anticipo, rispetto alla decisione del Tribunale dei minori, le aspettative di un rientro a casa per Natale dei bambini del bosco, avevano spostato il confronto tra la magistratura e la famiglia Trevallion fuori dalle aule giudiziarie. Scatenando una durissima presa di posizione, (anche questa riportata dal quotidiano abruzzese) degli avvocati dei Trevallion, Marco Femminella e Danila Solinas.
«Restiamo perplessi dinanzi all’intervento dell’Anm Abruzzo», spiegano i due difensori, che, dettaglio niente affatto trascurabile, al momento della loro dichiarazione non conoscono ancora il provvedimento del Tribunale dei minori, che verrà reso noto poche ore dopo, nella mattinata di ieri. Secondo i due legali, «non è condivisibile che si entri nel merito ma ancora meno condivisibile è esaltare la correttezza dell’ordinanza di allontanamento dei minori. La magistratura non solo deve essere terza ma deve anche apparire tale».
La presa di posizione dei legali prosegue utilizzando un paradosso per svelare le contraddizioni del ragionamento dell’Anm: «Quindi, seguendo il ragionamento del sindacato dei magistrati, saremmo stati legittimati a ritenere che la riforma dell’ordinanza avrebbe giustificato la riprovevole aggressione subita dalla presidente Angrisano» dopo l’allontanamento dei tre bambini dalla casa di Palmoli. Il senso della provocazione dei legali dei Trevallion è chiaro: se si difende un magistrato dagli attacchi personali partendo dal presupposto che la sua decisione è stata confermata come «corretta» dalla Corte d’appello, questo vale anche all’opposto: se la decisione fosse stata sbagliata o annullata («riformata»), allora gli insulti e le aggressioni sarebbero stati giustificati? «Non crediamo sia così e non si può lasciare intendere questo», tengono a precisare Femminella e Solinas per evitare ulteriori polemiche. Poi puntano il dito anche sulle riunioni del sindacato delle toghe: «Così come si rischierebbe di fraintendere l’assemblea dell’Anm tenuta dai magistrati abruzzesi nella Corte d’appello dell’Aquila. La chiusura della stessa al grido “siamo tutti Cecilia Angrisano” non aveva nulla a che fare con la legittimità o meno dell’ordinanza». Femminella e Solinas, nelle loro dichiarazioni riportate dal Centro, si chiedevano anche l’origine delle previsioni sui tempi di recupero avanzate dall’Anm: «Non sappiamo dove l’Anm abbia desunto la necessità di un “lungo” percorso né, tantomeno, quale sia la competenza che la stessa abbia per entrare nel merito».
E ieri i due legali, con una nota diffusa alle agenzie di stampa, hanno probabilmente svelato l’arcano. Secondo i due avvocati, infatti, l’ordinanza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila è datata 11 dicembre, quindi antecedente alla presa di posizione dell’Anm: «Questa difesa ha depositato copiosa e puntuale documentazione che confuta l’assunto secondo cui i minori non avrebbero avuto contatti con i loro pari e documentazione fotografica che ritrae i bambini in ogni occasione ricreativa, ovvero ordinaria, a contatto con altri bimbi verso i quali non hanno mostrato alcun disagio, così come non lo hanno mostrato nella casa famiglia». Dunque, per gli avvocati «sono smentite la ritrosia lamentata e l’isolamento dedotti». I legali si sono, poi, detti certi «che le allegazioni puntuali che abbiamo sottoposto al Tribunale, di cui, essendo l’ordinanza antecedente, non ha evidentemente tenuto conto, verranno debitamente e tempestivamente valutate. Così come siamo certi che sarà adeguatamente valutata “l’urgenza di provvedere” prevista dalla norma, quando si dovrà rivalutare, in tempi che si auspicano rapidi, la prosecuzione del collocamento nella struttura. Un giudizio che sarà certamente rapportato al superamento effettivo delle criticità al tempo rilevate e alla possibilità che la consulenza richiesta venga effettuata sotto monitoraggio, ma previo ricongiungimento». E ancora: «L’invito ad abbassare i toni e attenersi a fatti veritieri appare, allo stato, una utopica chimera che si staglia con alcune informazioni scellerate scientemente alimentate per tratteggiare l’idea della famiglia selvaggia approdata sul pianeta Terra. Anticipiamo azioni nei confronti di chiunque si renda responsabile della grave disinformazione».
La polemica, però, sembra destinata a continuare. Il vicepremier Matteo Salvini, ha parlato senza mezzi termini di una «vergogna senza fine». Per il leader leghista, «si dovrebbe verificare lo stato psichico di qualcun altro, non di due genitori che hanno cresciuto, curato, educato e amato i loro figli per anni, prima che la “giustizia” rovinasse la vita di una famiglia tranquilla e perbene».
Concedere la grazia ad alcuni detenuti in prossimità delle festività natalizie è da sempre un gesto di clemenza simbolico molto forte, tradizionalmente riservato a vicende giudiziarie con risvolti umani delicati. Ma tra i cinque provvedimenti di clemenza firmati ieri dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il parere favorevole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, c’è n’è uno destinato a far discutere. È quello nei confronti di Alla F. Hamad Abdelkarim, già calciatore della Serie A libica giunto in Italia su un barcone, condannato alla pena complessiva di 30 anni di reclusione per delitti di concorso in omicidio plurimo, violazione delle norme sull’immigrazione per fatti avvenuti nel 2015.
Nato in Libia 30 anni fa, nel 2017 la giustizia italiana lo ritenne, insieme a quattro complici, uno degli scafisti di un barcone che, nella notte di Ferragosto di dieci anni fa, venne soccorso dalla Marina italiana al largo di Lampedusa e nella cui stiva vennero trovati i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante la traversata. Le cronache dell’epoca raccontavano dettagli agghiaccianti. L’inchiesta della Procura distrettuale di Catania aveva infatti collegato il decesso dei 49 uomini con l’assenza di aria all’interno dell’angusta stiva del peschereccio. Secondo l’accusa, gli otto avrebbero «colpito con calci, pugni e l’utilizzo di cinghie ferrate» i migranti nella stiva, «bloccando con i loro corpi i boccaporti che avrebbero consentito il passaggio al ponte superiore» dei viaggiatori, «causando così la morte per mancanza di ossigeno» delle 49 vittime.
«Nel concedere la grazia parziale, che ha estinto una parte della pena detentiva ancora da espiare», fa sapere il Quirinale, «il capo dello Stato ha tenuto conto del parere favorevole del ministro della Giustizia, della giovane età del condannato al momento del fatto, della circostanza che nel lungo periodo di detenzione di oltre dieci anni, sinora espiata dall’agosto del 2015, lo stesso ha dato ampia prova di un proficuo percorso di recupero avviato in carcere, come riconosciuto dal magistrato di sorveglianza, nonché del contesto particolarmente complesso e drammatico in cui si è verificato il reato. Ciò è stato evidenziato anche dai giudici della Corte d’Appello di Messina i quali, nel rigettare l’istanza di revisione per ragioni processuali, hanno sottolineato che per «ridurre lo scarto indubbiamente esistente tra il diritto e la pena legalmente applicata e la dimensione morale della effettiva colpevolezza», si può fare ricorso solo all’istituto della grazia che consente di ridurre o commutare una parte della pena». Clemenza che è prontamente arrivata, forse anche sull’onda delle pressioni mediatiche arrivate attraverso una campagna stampa caratterizzata da un violento attacco ai testimoni del legale del giovane libico, Cinzia Pecoraro, che ieri si è detta «felicissima» («Al mio cliente restano 6-7 anni, ora prepariamo nuova istanza di revisione»): «Due testimoni sui nove sentiti, selezionati non si sa con quale criterio, hanno dichiarato che Alla si occupava di distribuire l’acqua e mantenere l’ordine sul barcone». Poi l’affondo, dai toni a dir poco singolari, che in altre circostanze avrebbero fatto inorridire le femministe: «Si tratta di testimonianze rese subito dopo lo sbarco da parte di donne sotto choc e allo stremo delle capacità fisiche e psichiche, che avevano perso familiari nel tragitto e non dormivano, mangiavano e bevevano da giorni». Una campagna mediatica arrivata anche su Rai 3, che nel gennaio di quest’anno, all’interno del programma Il fattore umano aveva dedicato un servizio alla storia di Abdelkarim, con tanto di intervista al giovane tunisino, che dopo che si trovava recluso nel carcere dell’Ucciardone di Palermo.
Meno clamorosi gli altri provvedimenti di clemenza, tra cui quello a favore di Franco Cioni, l’anziano che il 14 aprile 2021 a Vignola (Modena) uccise la moglie malata terminale e fu condannato a sei anni e due mesi.
Gli altri tre beneficiari della grazia di Mattarella sono Zeneli Bardhyl, nato nel 1962, condannato alla pena di un anno e mezzo per il delitto di evasione dagli arresti domiciliari; Alessandro Ciappei, nato nel 1974, condannato alla pena di dieci mesi di reclusione per il delitto di truffa, commesso nel 2014; Gabriele Spezzuti, nato nel 1968, condannato alla pena detentiva della reclusione, espiata fino al 2014, e alla pena pecuniaria di 90.000 euro di multa per delitti in materia di sostanze stupefacenti, commessi nel 2005. L’atto di clemenza riguarda solo la pena pecuniaria residua da eseguire (80.000 euro di multa).
Dietro alla decisione degli inquirenti di diffondere ieri il video che ritrae il diciannovenne ecuadoriano, arrestato il 13 dicembre a Milano perché ritenuto responsabile di due episodi di violenza sessuale in danno di altrettante minorenni, potrebbe celarsi il timore che lo straniero finito ai domiciliari abbia commesso altre aggressioni non denunciate. A farlo pensare, oltre al filmato di quasi due minuti che ritrae il diciannovenne mentre segue una delle due presunte vittime mentre esce da una fermata della linea M2 della metropolitana, c’è la diffusione dei dettagli sul monopattino che il giovane usava per seguire le ragazze e il cappellino che indossava in entrambi gli episodi denunciati.
L’attività investigativa, condotta dal Nucleo Operativo Milano Porta Monforte dei carabinieri ha permesso di mettere a sistema i dati investigativi delle violenze sessuali commesse a Bussero il 12 agosto 2025, ai danni di una quindicenne, e a Milano il 19 settembre 2025, ai danni di un’altra adolescente di 16 anni. I dettagli di quanto denunciato dalle due adolescenti non sono stati resi noti. Come detto, le due vittime sono entrambe minorenni, e la tutela della loro identità è comprensibilmente stata messa al primo posto. Quello che è noto è che attirare l’attenzione degli inquirenti è stato l’identico modus operandi: l’indagato individuava la «preda», una minorenne da sola in una stazione della Metropolitana della M2 (Gorgonzola e Crescenzago) e da lì dava inizio a un pedinamento discreto delle vittime, che seguiva attentamente sino all’arrivo presso la loro abitazione, dove le ragazzine, una volta aperto il portone di casa, venivano assaltate dall’aggressore.
È grazie a dettagli presenti in entrambe le violenze che è stato possibile riconoscerlo: il giovane straniero si muoveva a bordo di un monopattino elettrico con elementi di colore arancione brillante e con indosso un cappellino da baseball verde che, è poi emerso dall’attività investigativa, indossava comunemente, anche per andare al lavoro. Particolarità che hanno permesso agli inquirenti di identificarne con certezza l’ecuadoriano come l’autore.
Inoltre, il diciannovenne, andava al lavoro con gli stessi abiti descritti dalle giovani vittime delle aggressioni, indumenti che sono stati trovati in casa. Nel filmato diffuso ieri si vede il diciannovenne fermo con un piede sul monopattino. Resta così per diverso tempo fino a quando, come emerge dalle immagini catturate da una telecamera di sicurezza acquisite dagli investigatori dell’Arma, qualcosa non attira la sua attenzione. È la quindicenne vittima della violenza del 12 agosto. L’adolescente è appena scesa dalla metropolitana, passa casualmente davanti all’ecuadoriano fermo sul suo monopattino. Tra i due non c’è nessuna interazione, circostanza che sembra confermare che i due non si fossero mai visti prima e che la scelta delle vittime sia casuale. La ragazzina si dirige verso l’uscita e cammina verso casa. Lui poco dopo sale sul monopattino e la segue. Le immagini lo immortalano prima mentre esce dalla stazione della M2, poi mentre, in pieno giorno, la segue a distanza lungo un vialetto alberato che costeggia i binari della metropolitana, che in quel tratto sono in superficie. Poi, a distanza, la pedina fino a casa. E qui, appena lei entra nel condominio, inizia l’incubo.
La vicenda dello stupratore del metrò rilancia l’allarme sulla sicurezza per le donne sui trasporti pubblici di Milano e del suo hinterland.
Nella notte tra il 30 e il 31 agosto, infatti, a cavallo tra le due aggressioni sulla M2, una diciottenne era stata stuprata alla stazione di San Zenone al Lambro, tra Milano e Lodi. In manette era poi finito un venticinquenne originario del Mali, incastrato dopo che i carabinieri del Ris di Parma hanno trovato una corrispondenza con le tracce biologiche lasciate dall’aggressore sui vestiti della ragazza. La giovane, dopo una serata trascorsa con la sorella, stava andando a prendere il treno per rientrare a casa. La ragazza, sotto choc, aveva subito raccontato ai carabinieri che «un uomo, di carnagione scura e con i capelli ricci», l’aveva afferrata e trascinata oltre un sottopassaggio, e là, nascosto dalla vegetazione, l’aveva immobilizzata, picchiata e stuprata. La diciottenne era rimasta in balia dell’aggressore per circa un’ora prima di riuscire a chiamare, in lacrime, il 112.
L’immigrato, che lavorava come aiuto cuoco in una onlus di Milano, era arrivato in Italia da poco più di un anno, grazie allo status di protezione sussidiaria concesso dalla commissione territoriale.
Anche in quel caso, a rivelarsi fondamentali erano state le immagini delle telecamere di sicurezza. All’arresto, nella notte tra martedì 9 e mercoledì 10 settembre, gli investigatori sono arrivati incrociando i filmati delle telecamere di videosorveglianza della zona della stazione e quella della onlus «Fratelli di San Francesco» dove la sera della violenza l’aiuto cuoco Sangare sostituiva un collega assente. Una vita all’apparenza irreprensibile, come quella del presunto stupratore in monopattino della M2.





