Mentre andava in soccorso di Benjamin Netanyahu, Donald Trump è dovuto tornare a fronteggiare il caso Epstein. Ieri, i componenti dem della Commissione Vigilanza della Camera statunitense hanno pubblicato un messaggio del 2019, in cui il finanziere morto suicida sosteneva che l’attuale presidente americano «sapeva delle ragazze». È stato inoltre reso pubblico un altro messaggio, datato 2011, in cui Epstein affermava che una vittima - il cui nome appare segretato - «aveva trascorso ore» in casa sua con Trump. «I democratici hanno fatto trapelare selettivamente delle email ai media liberal per creare una falsa narrazione volta a diffamare il presidente Trump», ha commentato la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt.
«La “vittima senza nome” a cui si fa riferimento in queste email è la defunta Virginia Giuffre, che ha ripetutamente affermato che il presidente Trump non era coinvolto in alcun illecito e che 'non avrebbe potuto essere più amichevole' nei suoi confronti nelle loro limitate interazioni», ha proseguito. Secondo i componenti repubblicani della Commissione Vigilanza, i dem avrebbero segretato apposta il nome della vittima menzionata nel messaggio del 2011, proprio per impedire di far sapere che si trattava della Giuffre. Stando alla Cnn, i vertici dell’amministrazione americana avrebbero dovuto incontrarsi ieri per discutere di un voto della Camera sulla diffusione dei documenti relativi a Epstein.
Sempre ieri, poche ore prima della diffusione dei documenti, l’inquilino della Casa Bianca ha inviato una lettera al presidente israeliano, Isaac Herzog, chiedendo di concedere la grazia a Netanyahu, che è attualmente sotto processo per corruzione. «La invito con la presente a graziare pienamente Benjamin Netanyahu, che è stato un primo ministro formidabile e decisivo in tempo di guerra e che ora sta guidando Israele verso un periodo di pace, che include il mio continuo lavoro con i principali leader del Medio Oriente per aggiungere molti altri Paesi agli Accordi di Abramo», si legge nella missiva.
Già a metà ottobre, durante il suo discorso alla Knesset, il presidente americano si era rivolto a Herzog, chiedendogli di concedere la grazia a Netanyahu. Era inoltre fine giugno, quando l’inquilino della Casa Bianca auspicò che il processo al premier israeliano, iniziato nel 2020, fosse «cancellato», bollandolo come una «caccia alle streghe». In quell’occasione, il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, disse che Trump «non avrebbe dovuto interferire in un processo legale in un Paese indipendente». Lo stesso Lapid, ieri, ha commentato la lettera del leader americano a Herzog, sostenendo che «la legge israeliana stabilisce che la prima condizione per ricevere la grazia è l’ammissione di colpa». In tutto questo, Herzog, attraverso una nota, ha detto, sì, di nutrire «la massima stima» per il presidente americano, ma ha anche precisato che «chiunque chieda la grazia presidenziale deve presentare una richiesta formale secondo le procedure stabilite».
Va da sé come la questione dell’eventuale grazia a Netanyahu sia qualcosa di più significativo di una bega interna a Israele. Contrariamente a quello che talvolta si dice, non è che i rapporti personali tra Trump e il premier israeliano siano idilliaci. Già si erano guastati nel 2020. Inoltre, negli scorsi mesi, gli attriti non sono mancati. L’inquilino della Casa Bianca si irritò quando, a luglio, fu colpita la chiesa della Sacra famiglia a Gaza. Trump non prese inoltre affatto bene l’attacco israeliano contro Hamas a Doha lo scorso settembre. La richiesta di grazia, avanzata dal presidente americano, ha quindi un significato di natura geopolitica. Trump ha bisogno di Netanyahu per rilanciare gli Accordi di Abramo, a cui la Casa Bianca vorrebbe che presto aderissero tanto Riad quanto Damasco.
Sempre in quest’ottica, il presidente americano necessita della sponda con l’attuale premier israeliano per tenere in piedi l’intesa raggiunta tra Gerusalemme e Hamas. Netanyahu, in altre parole, è un attore insostituibile nell’ottica del Medio Oriente che Trump sta cercando di costruire, esattamente come il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, e l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani. Tra l’altro, lunedì, il premier israeliano si è incontrato a Gerusalemme con Steve Witkoff e Jared Kushner, per discutere del disarmo di Hamas. Tutto questo, mentre ieri Israele ha riaperto il valico di Zikim per far entrare gli aiuti a Gaza. Insomma, almeno per il momento, i rapporti politici tra Washington e l’attuale governo di Gerusalemme restano solidi.
Frattanto, alcuni media libanesi hanno riferito che lo Stato ebraico starebbe realizzando un muro di separazione al confine con il Libano, in un territorio conteso tra i due Paesi. Al contempo, l’Idf ha condannato «fermamente» gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania, definendoli opera di una «minoranza criminale» e promettendo di «agire» per porre fine al fenomeno. Le tensioni in Cisgiordania irritano del resto i sauditi e rischiano così di complicare il rilancio degli Accordi di Abramo.







