A voler far caso a certi messaggi ed ai loro ritorni, all’allineamento degli agenti di validazione che li emanano e ai media che li ripetono, sembrerebbe quasi esista una sorta di coordinamento, un’«agenda» nella quale sono scritte le cadenze delle ripetizioni in modo tale che il pubblico non solo non dimentichi ma si consolidi nella propria convinzione che certi principi non sono discutibili e che ciò che è fuori dal menù non si può proprio ordinare. Uno dei messaggi più classici, che viene emanato sia in occasione di eventi che ne evocano la ripetizione, sia più in generale in maniera ciclica come certe prediche dei parroci di una volta, consiste nella conferma dell’idea di immigrazione come necessaria, utile ed inevitabile.
Gli argomenti sono vari e vanno dalla necessità degli immigrati per far fronte al calo demografico - senza però dire che questa sia una «sostituzione etnica» perché è un’espressione proibita - all’apporto fondamentale degli immigrati per sostenere sia il sistema produttivo che quello dei consumi - e qui Marx avrebbe un po' di cose da dire - sia ricordando che l’apporto degli immigrati è fondamentale per la sostenibilità del sistema previdenziale - malgrado i dati Inps mostrino come i contributi degli immigrati ammontino a circa 28 miliardi quando il costo del welfare in Italia sta sui 500 miliardi - sia ricorrendo ad argomenti più simbolici secondo i quali importando persone dotate di una effettiva cultura patriarcale si smantellerebbe il patriarcato degli europei che non c’è più da settant'anni. Questa volta però è successo qualcosa di diverso, qualcosa che capita raramente e che quando capita lo si percepisce nell’aria, come nei giorni di festa: in occasione del messaggio di auguri per il giorno del Ringraziamento, il presidente degli Stati Uniti d’America ha affrontato il tema dell’immigrazionismo esponendo alcuni dati di fatto che ancora oggi, in posti liberali e democratici come la Gran Bretagna o la Germania, porterebbero all’incriminazione se esposti attraverso meme. Trump ha affermato che importare povertà non crea ricchezza e che spostare persone non in grado di integrarsi non crea integrazione. In occasione della vicenda che ha visto un rifugiato afghano uccidere un funzionario dell’Ice e ferirne gravemente un altro, Trump ha dichiarato: «La popolazione straniera ufficiale degli Stati Uniti ammonta a 53 milioni di persone, la maggior parte delle quali vive di assistenza sociale. Un migrante che guadagna 30.000 dollari riceverà circa 50.000 dollari di sussidi annuali per la sua famiglia». Qui si tocca il tema ormai all’ordine del giorno in tutti i sistemi sociali occidentali della sostanziale insostenibilità dell’immigrazionismo per come è stato concepito nei disegni globalisti: se è vero che un immigrato che arriva regolarmente, paga le tasse e poi se ne torna nel suo Paese, lascia un «contributo» ad un sistema sociale di cui poi non usufruirà, questo non è affatto vero per chi si stabilisce qui definitivamente e, soprattutto, per chi usufruisce di ricongiungimento parentale di persone anziane e non produttive. Trump ha poi aggiunto: «Sospenderò definitivamente l’immigrazione da tutti i Paesi del Terzo Mondo per consentire al sistema statunitense di riprendersi completamente, porrò fine a tutti i milioni di ammissioni illegali di Biden e rimuoverò chiunque non sia un patrimonio per gli Stati Uniti o sia incapace di amare il nostro Paese. Denaturalizzerò i migranti che minano la tranquillità interna ed espellerò qualsiasi cittadino straniero che rappresenti un peso pubblico, un rischio per la sicurezza o non sia compatibile con la civiltà occidentale. Questi obiettivi saranno perseguiti con l’obiettivo di ottenere una significativa riduzione delle popolazioni illegali attraverso la reverse migration». Ecco dunque descritto dal Presidente degli Stati Uniti il concetto di «remigrazione» basato su «denaturalizzazione» - una misura prevista negli Usa dal 1906 - ed inversione dei flussi di spostamento delle persone per come il globalismo li ha teorizzati da sempre nella loro accezione necessaria. A questa dichiarazione storica si è aggiunta, proprio ieri, quella del primo ministro giapponese, Sanae Takaichi la quale, in maniera molto giapponese, molto incidentale, molto consequenziale, ha dichiarato come sia «preferibile lasciare che la popolazione giapponese diminuisca piuttosto che aprire le frontiere e affidarsi a manodopera straniera poco qualificata». In circostanze diverse e con uno stile diverso, si riafferma lo stesso concetto sostenuto da Trump e basato sulla semplice constatazione della realtà dei fatti: il costo dell’immigrazione globalista è molto alto e non può essere presentato come inevitabile e necessario. Ora, astraiamoci per un momento dagli argomenti esposti e concentriamoci su quello che è forse l’aspetto più storico di queste due dichiarazioni: un altro mondo è possibile, un’altra visione delle cose è legittima, tutto ciò che avviene nella Storia non è preordinato e necessario sulla base di presupposti deterministici ma può essere messo in discussione sulla base di valori e idee diversi da quelli che hanno fallito. In pratica si sta dicendo: «Yes we can».
Ci sono una serie di meccanismi mentali che ci rendono ciechi di fronte a cose evidenti, sordi in presenza di suoni simili e praticamente insensibili alle cose che possono mettere in crisi le convinzioni politiche più radicate. Ecco dunque che, pressoché negli stessi giorni, sui media sono comparse due storie così vicine nei significati ma così lontane nel modo di presentarle: a proposito della vicenda che vide la morte di Cecilia De Astis, investita a Milano da un’auto sulla quale erano presenti quattro minorenni di etnia rom, è emerso che i genitori della più giovane dei bambini, quella di undici anni, risultino irreperibili come esito finale di quella che il Tribunale dei minori ha definito una condizione «senza punti di riferimento genitoriali». Dopo l’incidente la bambina è stata affidata a una nonna ma è stato recentemente riportato che la minore sarebbe in fuga proprio con la nonna e che il possibile motivo delle fughe dei vari parenti potrebbe essere l’intenzione di sottrarsi al risarcimento in capo ad essi, stante la non imputabilità dell'undicenne.
Numerose sono state le reazioni politiche al fatto, in particolare da sinistra si è indicato nella proverbiale «mancanza di integrazione» sia l’incidente che le successive fughe. A ulteriore elegante corollario il Comune di Milano ha pensato bene di rigettare la proposta di conferire l’Ambrogino d’oro a Cecilia De Astis in memoriam, malgrado il suo forte impegno nel sociale, e ciò con la surreale scusa di non voler alimentare «polemiche politiche». Negli stessi giorni a Palmoli, in provincia di Chieti, è emerso il caso di una famiglia formata da padre britannico e madre australiana che ha scelto di vivere, con i tre figli, in un casolare isolato nei boschi adottando uno stile di vita «a impatto zero» - come possiamo notare certi greenpass non sempre funzionano - senza allacciamenti alla rete idrica ed elettrica, utilizzando un impianto fotovoltaico e prendendo l’acqua da un pozzo. Ai bambini non viene fatta frequentare la scuola pubblica ma ricevono istruzione parentale affiancata da un insegnante e sostengono esami annuali perfettamente in linea con ciò che prevedono le norme italiane. E mentre nel caso di degrado famigliare che ha portato quattro ragazzini a rubare un’auto a un turista ed ammazzare una persona gli alti appelli politici si basano sulla «mancata integrazione» la cui colpa va imputata in primis e come sempre «alla società», nel caso della famiglia di Palmoli la Procura e i servizi sociali sono intervenuti dopo che la situazione è diventata di dominio pubblico, preoccupati «per le condizioni di vita e l’isolamento dei minori», sino a giungere alla richiesta di sospensione della potestà genitoriale e di allontanamento dei figli malgrado i sopralluoghi e le valutazioni iniziali abbiano evidenziato come i bambini siano in buona salute, curati, e mostrino un forte legame affettivo con i genitori.
Da una parte, quindi, abbiamo un caso di evidente degrado basato su fatti usuali per le comunità che vivono ai margini della società ma descritte inevitabilmente come vittime che si trovano in condizioni contrarie alla propria volontà a causa delle «mancanze della politica», nonostante le amministrazioni locali siano di sinistra e senza considerare che sotto i governi di sinistra non si siano mai registrati «risvegli civili» ad opera di quelle particolari comunità. Dall’altra parte abbiamo una famiglia che decide liberamente di vivere in condizioni sensibilmente più «civilizzate» di quelle scelte da Carl Gustav Jung per la sua casa di Bollingen, che viene dipinta da certi media e da certa politica come un caso umanitario, come una «famiglia di selvaggi» secondo il riflesso condizionato settecentesco così acutamente ritratto da Werner Herzog nei film «L’enigma di Kaspar Hauser» e «Grizzly Man» e secondo l’ormai anacronistico pregiudizio secondo il quale solo dentro lo società c’è la salvezza e solo sotto il controllo dello Stato c’è la salute. Il perché di tale contraddizione è presto detto: nel caso dei rom che abbandonano la figlia lo schema politico di sinistra può riconoscere le «vittime» nei rom stessi e i «cattivi» nei fascisti - cioè in chi fa comodo definire tale perché dice che rubare un’auto e investire una persona è un crimine frutto di scelte antisociali; nel caso della famiglia di Palmoli non si riesce ad adattare lo schema vittimistico, e il successivo riversamento della colpa sugli avversari politici, in quanto la famiglia ha deciso liberamente di fare quella vita e di svincolarsi dai canoni sacri del conformismo e del consumismo degli ecologisti che vogliono salvare il pianeta comprando tantissime cose, e si procede quindi con la messa sotto accusa da parte dello Stato. E lo Stato pensato da chi vorrebbe le lezioni di gender alle elementari e il voto obbligatorio non può accettare che la «povertà» e «l’emarginazione» non conducano automaticamente all’inevitabile sbocco antisociale: significherebbe dover ammettere che chi commette crimini lo fa per scelta e non perché costretto dalla società; significherebbe ammettere che la loro visione del mondo si fonda su un errore.
Se è vero che «i fascisti» sono tutti quelli che la sinistra definisce tali indipendentemente dalla loro adesione o meno agli ideali del fascismo, allora anche «i ricchi» sono tutti coloro che la sinistra indica come tali, in maniera puramente circostanziale e situazionista, in base all’opportunità politica del momento.
La surreale discussione sui «ricchi» privilegiati dalla Legge di bilancio, che altri non sarebbero se non quelli che guadagnano 2.500 euro al mese, non si limita a mostrarsi come una delle tante battaglie propagandistiche che la politica deve fare per segnalare la sua esistenza in vita ma è indice di una forma mentis estremamente interessante. Perché se è vero che definire «il fascista» in base al giudizio soggettivo che l’osservatore dà ai comportamenti dell’osservato - per arrivare ad associare un comportamento, una tendenza e financo un’espressione del volto a qualcosa di «fascista» - stabilire la categoria di «ricco» indipendentemente dal denaro che quella persona possiede significa, ancora una volta, rifiutare il principio di oggettività del dato del reale con tutto ciò che tale scelta implica.
Mai e poi mai Luchino Visconti si sarebbe azzardato a negare di essere ricco o, molto peggio, a definire «ricco» il suo segretario particolare: il regista, dichiaratamente comunista, membro dell’aristocrazia milanese apparteneva ancora al mondo delle cose «per quelle che sono» e quando qualcuno gli faceva notare che era una contraddizione il fatto di definirsi allo stesso tempo comunista, aristocratico e ricco, rispondeva in maniera hegelianamente corretta gettando la contraddizione sul momento storico e non sulla sua visione delle cose: «Per me comunismo non significa che anch’io diventi povero come tutti i poveri ma che tutti i poveri diventino ricchi come me». Oggi, al termine della parabola postmoderna inaugurata dal Sessantotto, non è più così e sia i «poveri» che i «ricchi» non sono più definiti dalla sinistra in base al denaro da essi posseduto ma in base al ruolo politico da essi svolto.
Più in generale possiamo dire che il «ricco» è il nemico politico - un po’ meno di «fascista» ma un po’ più di «borghese»; è quello, cioè, che non vota per la sinistra, mentre il «povero» è colui che appartiene ad una delle nuove categorie ideologiche elaborate in questi ultimi anni sulla base di green, woke e gender indipendentemente da quanti soldi quella persona effettivamente abbia, da che famiglia provenga o da che lavoro faccia. Ecco perché i capi del movimento Black Lives Matter rimangono sia «poveri» che «oppressi» anche dopo che sono diventati ricchi grazie alle donazioni ed ecco perché Bernie Sanders ospite di Joe Rogan dice che trova inconcepibile che Elon Musk abbia sostenuto la campagna elettorale di Trump con 270 milioni mentre ritiene una necessità sistemica che la campagna elettorale di Kamala Harris abbia potuto contare su più di un miliardo e mezzo di dollari.
Ma rifiutarsi di definire qualcosa in base a criteri oggettivi - come ad esempio per il sesso delle persone - non è un’azione priva di conseguenze. Karl Marx definiva «i ricchi» come la borghesia capitalista che sfruttava il proletariato attraverso il sistema del plusvalore. La sua analisi si concentrava sul rapporto tra classi economiche, dove la ricchezza derivava dal controllo dei mezzi di produzione piuttosto che dal «lavoro produttivo», era oggettivamente misurabile e forniva una posizione di dominio all’interno della struttura economica. La sinistra postsessantottina ha abbandonato l’analisi marxista basata sulla classe economica per abbracciare teorie strutturaliste che privilegiano l’identità su base razziale, di genere, sessuale, di discendenza storica, sempre all’interno dell’orizzonte fondamentale della «vittima». Mentre per Marx «i poveri» erano il proletariato, oppresso ma in grado di organizzarsi per fare la rivoluzione, oggi «le vittime» sono funzionali al mantenimento del ruolo politico delle élite di sinistra le quali si definiscono in base alla contrapposizione con i «ricchi» indipendentemente dal loro possesso di ricchezza. Questo cambiamento è avvenuto perché l’obsolescenza del marxismo economico nelle società occidentali opulente ha richiesto nuove modalità di orientamento del conflitto sociale senza una vera finalità rivoluzionaria. Ecco perché il «potere imperialista delle multinazionali» è malvagio tranne che per George Soros, Bill Gates, Mark Zuckerberg, le aziende farmaceutiche, le aziende necessarie alla «transizione green» e il complesso militare-industriale quando c’è da riarmarsi contro «i cattivi» (o i fascisti). Questo spostamento concettuale ha permesso alla sinistra di mantenere una retorica rivoluzionaria mentre si allineava con gli interessi dell’élite capitalistica globale che beneficia da sempre della frammentazione sociale e del controllo delle masse attraverso il conflitto identitario .Tuttavia così facendo la sinistra si è condannata ad una ormai irreversibile lontananza dalle masse popolari, quei veri «poveri» che infatti non la votano più.





