Viviamo una fase storica accelerata, complessa, ricca di opportunità ma anche, forse soprattutto, densa di pericoli. Sospesi tra guerra e pace. Viviamo in un mondo profondamente diverso da quello in cui sono nate le Nazioni Unite, quando nel 1945, 51 nazioni, che oggi sono diventate la quasi totalità, decisero di unirsi per fondare un’organizzazione internazionale che avesse come scopo principale quello di evitare la guerra. La domanda che dobbiamo farci, ottant’anni dopo, e guardandoci attorno, è: ci siamo riusciti? La risposta la conoscete tutti, perché è nella cronaca, ed è impietosa. Pace, dialogo, diplomazia sembrano non riuscire più a convincere e a vincere. L’uso della forza prevale in troppe occasioni. E lo scenario che ci troviamo di fronte è quello che Papa Francesco descrisse con rara efficacia: una «terza guerra mondiale» combattuta «a pezzi».
La guerra in Ucraina
Tre anni e mezzo fa, il 24 febbraio 2022, Mosca ha deciso di attaccare Kiev. Penso che non si sia riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella scelta e su un punto che considero fondamentale: la Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l’articolo 2 dello Statuto dell’Onu, violando l’integrità e l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace. Questa ferita profonda inferta al diritto internazionale, come era prevedibile, ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra. Il conflitto in Ucraina ha riacceso, e fatto detonare, diversi altri focolai di crisi. Mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite.
Il Medio Oriente
Non è un caso, che Hamas abbia approfittato dell’indebolirsi di questa architettura per sferrare - il 7 ottobre del 2023 - il suo attacco contro Israele. La ferocia e la brutalità di quell’attacco - la caccia ai civili inermi - hanno spinto Israele ad una reazione, in principio, legittima. Perché ogni Stato e ogni popolo ha il diritto di difendersi. Ma la reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Vale per gli individui, e vale a maggior ragione per gli Stati. E Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese. È su questo limite che lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili. Una scelta che l’Italia ha più volte definito inaccettabile, e che porterà al nostro voto favorevole su alcune delle sanzioni proposte dalla Commissione Europea verso Israele.
Però non ci accodiamo a chi scarica su Israele tutta la responsabilità di quello che accade a Gaza. Perché è Hamas ad aver scatenato la guerra. È Hamas che potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi, liberando subito tutti gli ostaggi. È Hamas che sembra voler prosperare sulla sofferenza del popolo che dice di rappresentare. Israele deve uscire dalla trappola di questa guerra. Lo deve fare per la storia del popolo ebraico, per la sua democrazia, per gli innocenti, per i valori universali del mondo libero di cui fa parte. E per chiudere una guerra servono soluzioni concrete. Perché la pace non si costruisce solo con gli appelli, o con proclami ideologici accolti da chi la pace non la vuole. La pace si costruisce con pazienza, con coraggio, con ragionevolezza. I bambini di Gaza, come quelli che l’Italia sta orgogliosamente accogliendo e curando nei propri ospedali, chiedono risposte che possano migliorare la loro condizione, e su quello siamo impegnati. L’Italia c’è e ci sarà per chiunque sia disposto a lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco permanente, l’esclusione di Hamas da ogni dinamica di governo in Palestina, il graduale ritiro di Israele da Gaza, l’impegno della comunità internazionale nella gestione della fase successiva al cessate il fuoco, fino alla realizzazione della prospettiva dei due Stati. Consideriamo, in questo senso, molto interessanti le proposte che il presidente degli Stati Uniti ha discusso con i paesi arabi in queste ore e siamo pronti ovviamente a dare una mano. Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell’Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato.
L’immigrazione di massa
[…] Dobbiamo riconoscere i nostri limiti. Dobbiamo riconoscere che è necessaria, e urgente, una riforma profonda delle Nazioni Unite. Una riforma non ideologica, ma pragmatica, realista […] Perché siamo di fronte a un cambio d’epoca, e questo impone una revisione profonda di tutti gli strumenti che abbiamo per regolare i rapporti tra le Nazioni e difendere i diritti delle persone, comprese le Convenzioni Internazionali. Penso, ad esempio, alle convenzioni che regolano la migrazione e l’asilo. Sono regole sancite in un’epoca nella quale non esistevano le migrazioni irregolari di massa, e non esistevano i trafficanti di esseri umani. Convenzioni non più attuali in questo contesto che, quando vengono interpretate in modo ideologico e unidirezionale da magistrature politicizzate, finiscono per calpestare il diritto, invece di affermarlo.
Con altri Stati europei abbiamo sollevato questo tema e intendiamo portarlo avanti. Non ovviamente per abbassare il livello delle garanzie, ma per costruire un sistema che sia al passo con i tempi, capace di tutelare i diritti umani fondamentali, insieme però alla sacrosanta prerogativa di ogni nazione di proteggere i propri cittadini e i propri confini, esercitare la propria sovranità, e governare il tema della migrazione, che impatta sulle persone, e particolarmente su quelli più fragili. La comunità internazionale deve unirsi nel contrastare il fenomeno del traffico di esseri umani. Le Nazioni Unite, al pari di altre istituzioni internazionali come l’Unione europea, non possono voltarsi dall’altra parte o finire per tutelare i criminali nel nome di presunti diritti civili. Allo stesso modo, le Nazioni Unite non possono ipocritamente considerare alcuni diritti umani meno meritevoli di essere tutelati rispetto ad altri. Penso tra tutti al valore negato della libertà religiosa e alle decine di milioni di persone in tutto il mondo - in larga parte cristiane - perseguitate, massacrate, in nome della loro fede.
Il Piano Mattei
Serve anche un nuovo modello di cooperazione tra le Nazioni. Ma costruirlo richiede umiltà, consapevolezza, e fiducia nell’interlocutore che si ha di fronte. L’Italia sta cercando di fare la sua parte anche in questo, su tutto con il suo Piano Mattei per l’Africa. Negli ultimi tre anni abbiamo lanciato il nostro Piano di cooperazione con l’Africa ed esteso il suo raggio d’azione a quattordici nazioni. Questa complementarità ci ha consegnato l’onore, lo scorso luglio, di co-organizzare con l’Etiopia il Terzo Vertice delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari, la responsabilità di essere parte attiva dell’imponente progetto infrastrutturale del Corridoio di Lobito tra Angola e Zambia, la possibilità di costruire partenariati pubblico-privati che attraggono investimenti e assicurano risultati concreti.
Come sta accadendo in Algeria, dove recupereremo oltre 36.000 ettari di deserto per metterli a coltura, generando benefici per oltre 600.000 persone. Come sta accadendo con l’apertura dell’AI Hub for Sustainable Development, che coinvolgerà centinaia di start-up africane sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. E come sta accadendo con l’estensione all’Africa orientale del Blue Raman Cable, per collegare l’India alle economie europee, passando per il Medio Oriente e il Mediterraneo. Noi, a differenza di altri attori, non abbiamo secondi fini in Africa. Non ci interessa sfruttare il Continente africano per le ricchissime materie prime che possiede. Ci interessa, invece, che l’Africa prosperi processando le sue risorse, dando lavoro, e una prospettiva, alle sue energie migliori, potendo contare su governi stabili e società dinamiche, e sicure. […]
L’ambientalismo sfrenato
Cari colleghi, trent’anni di globalizzazione fideistica sono finiti, ne sono stati sottovalutati i contraccolpi e oggi siamo davanti a «conseguenze inattese», che inattese non erano, di grave portata per i cittadini, per le famiglie e per le imprese. Non è andato tutto bene, come pure veniva promesso.
E vi do un’altra notizia: le cose potranno andare molto peggio, se non fermeremo la creazione a tavolino di modelli di produzione insostenibili, come i «piani verdi» che in Europa - e nell’intero Occidente - stanno portando alla deindustrializzazione molto prima che alla decarbonizzazione. La riconversione di interi settori produttivi sulla base di teorie che non tengono conto dei bisogni - e delle disponibilità economiche - delle persone, è stato un errore che provoca sofferenze nei ceti sociali più deboli e fa scivolare la classe media verso il basso, imponendo scelte di consumo non razionali.
L’ecologismo insostenibile ha quasi distrutto il settore dell’automobile in Europa, creato problemi negli Stati Uniti, causato perdite di posti di lavoro, appesantito la capacità di competere e depauperato la conoscenza. E ciò che è più paradossale, non ha migliorato lo stato di salute complessivo del nostro pianeta. Non si tratta, ovviamente di negare il cambiamento climatico, ma di affermare la ragione, che significa soprattutto neutralità tecnologica, e gradualismo delle riforme in luogo dell’estremismo ideologico. Rispettare l’ambiente mantenendo l’uomo al centro. Perché ci sono voluti secoli per costruire i nostri sistemi, ma bastano pochi decenni per ritrovarsi nel deserto industriale. Solo che come ho detto moltre volte nel deserto non c’è nulla di verde.
Versi il cambiamento
La scelta che abbiamo nelle nostre mani è semplice: lasciare tutto così com’è, e rifugiarci in ciò che è semplice, o dimostrare ai nostri cittadini che non sprecheremo l’occasione storica - che questo tempo, con le sue molteplici sfide, ci ha consegnato - di costruire un mondo più giusto e più sicuro. Perché, come ha detto San Francesco, il più italiano dei Santi, che ha dato il nome alla città dove questa Organizzazione è nata, «i combattimenti difficili vengono riservati solo a chi ha un coraggio esemplare». Credo sia arrivato il tempo di dimostrare quel coraggio.
Vi ringrazio.
È una Giorgia Meloni che si scaglia contro l’«oligarchia» europea, quella che ieri ha preso la parola in entrambi i rami del Parlamento, per riferire sui contenuti del vertice Ue previsto per questo fine settimana. Un appuntamento importantissimo, poiché dovrà ratificare le nomine per le figure apicali dell’Unione, decise dai negoziatori scelti dai partiti della maggioranza uscente. Come è noto, dalla riunione di martedì è emerso un accordo per il bis di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione, per la nomina dell’ex premier estone Kaja Kallas ad Alto Rappresentante per la politica estera e dell’ex premier portoghese Antonio Costa a presidente del Consiglio Ue. Il fatto, però, è che si tratta di un accordo di potere impostato sugli equilibri vigenti nella legislatura scorsa, i cui indirizzi politici sono stati sostanzialmente bocciati dall’esito delle ultime elezioni europee e, cosa ancor più rilevante, obbediente al desiderio del cancelliere tedesco Olaf Scholz e del presidente francese Emmanuel Macron di tagliare fuori l’Italia dai negoziati.
Per questo, buona parte dell’intervento del nostro premier è stata riservata al metodo usato da Ppe, Pse e Liberali, una logica da «caminetto» che non vuole tenere conto del fatto che il loro consenso complessivo si è assottigliato e la maggioranza per rieleggere Ursula è quantomai «ballerina».
«Se c’è un dato indiscutibile che arriva dalle urne», ha affermato il presidente del Consiglio, «è la bocciatura delle politiche portate avanti dalle forze al governo in molte delle grandi nazioni europee, che sono anche in molti casi le forze che hanno impresso le politiche europee degli ultimi anni. I partiti al governo hanno ottenuto il 16% in Francia, il 32% in Germania, il 34% in Spagna». «Solo in Italia», ha aggiunto, «il 53% degli eletti è espressione delle forze di governo». «Nessun autentico democratico che creda nella sovranità popolare», ha incalzato Meloni, «può in cuor suo ritenere accettabile che in Europa si tentasse di trattare sugli incarichi di vertice ancora prima che si andasse alle urne. E poi ci si stupisce dell’astensionismo». Ecco perché, per il presidente del Consiglio, «l’errore che si sta per compiere con l’imposizione di questa logica dei caminetti, con una maggioranza tra l’altro fragile e destinata probabilmente ad avere difficoltà nel corso della legislatura, è un errore importante non per la sottoscritta oppure per il centrodestra, neanche solo per l’Italia, ma per un’Europa che non sembra comprendere la sfida che ha di fronte o che la comprende ma preferisce in ogni caso dare priorità ad altre cose».
Un’Europa, insomma, che vuole «nascondere la polvere sotto il tappeto, troppo uguale a sé stessa e autoreferenziale, come se nulla fosse accaduto, che non ha adeguato la propria strategia nonostante lo scenario mondiale attorno fosse mutato». Un’Europa che decide «cosa mangiare, quale automobile utilizzare e come ristrutturare la casa», che si è trasformato in un «gigante burocratico incline a scelte ideologiche che hanno allontanato cittadini e istituzioni comunitarie». Il premier, entrando maggiormente nel merito della questione del sostegno parlamentare alle nuove nomine, ha ricordato che l’Ecr è divenuto il terzo gruppo a Strasburgo e «i top jobs sono stati normalmente affidati tenendo in considerazione i gruppi con la dimensione maggiore e, quindi, tenendo in considerazione il responso elettorale, indipendentemente da possibili logiche di maggioranza o opposizione». «Una sorta di “conventio ad excludendum”», ha concluso, «in salsa europea che, a nome del governo italiano, ho apertamente contestato e che non intendo condividere».
Al di fuori dei temi contingenti, importante il richiamo del premier alla fedeltà all'alleanza atlantica e alla collocazione filo occidentale dell'Italia: «Dobbiamo ricordarci», ha detto, «che libertà e sicurezza hanno un costo e che dobbiamo essere capaci di esercitare la deterrenza costruendo un solido pilastro europeo della Nato accanto a quello statunitense. L’Italia si farà interprete di questa visione».
Nel corso del dibattito che ha seguito l’intervento del premier, sia alla Camera che al Senato, hanno preso la parola i leader dell’opposizione, a partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein: «Mi aspetto che nella discussione di domani (oggi, ndr)», ha detto la leader dem, «porti le priorità del Paese e non della sua famiglia politica, perché spesso le due cose non coincidono». «Non si lamenti», ha aggiunto, «se nel Parlamento europeo dove la democrazia conta e i socialisti hanno più deputati di voi ci opponiamo a qualsiasi alleanza con voi e con i vostri alleati che non credono nell’Ue». Giuseppe Conte ha invece insistito sul commissario di peso che dovrà ottenere l’Italia: «L’abbiamo vista cambiare idea un po’ su tutto», ha detto, «nessuno si stupirebbe di una nuova clamorosa incoerenza, e allora conviene andare in Europa con forza e determinazione, vada a prendersi un posto di prestigio che spetta di diritto all’Italia, Paese fondatore. E magari questa volta», ha concluso, «non affidiamolo a un parente o a un sodale di partito ma a una persona competente, applichi il principio di meritocrazia». Al Senato, è stata la volta di Matteo Renzi: «Non mi faccia difendere la sinistra», ha detto rivolgendosi ai banchi del governo, «ma se vuole sapere chi non l’ha chiamata ai caminetti, si giri piano piano verso destra e guardi il ministro Tajani, è Tusk che ha detto “non voglio parlare con Meloni”, ed è iscritto al Ppe».
In sede di replica, Meloni ha voluto rispondere a Schlein: «Sono fiera», ha detto, «che sia finita la stagione dell’Italia che viene schierata dalla parte dove interessa Pd. La schiero anche con l’Europa, perché penso che fare valutazioni e proposte sia l’atteggiamento che debbano tenere coloro che vogliono migliorare il processo di integrazione europea».
Caro direttore, mi permetto di scriverti quando manca davvero poco alla fine di questa lunga giornata. Sono gli ultimi istanti di una campagna elettorale aspra, scorretta, talvolta dolorosa, eppure bellissima. Che La Verità ha documentato con passione e professionalità, giorno dopo giorno. Eppure la stanchezza accumulata nel corso di queste settimane non basta a farmi prendere sonno. Davanti ai miei occhi scorrono le immagini delle grandi manifestazioni di piazza. Il calore degli uomini e delle donne di Fratelli d’Italia accorsi per vivere insieme momenti irripetibili, ma anche il gelo di chi è venuto per scatenare il proprio odio contro chi sostiene semplicemente una soluzione diversa ai problemi di tutti. Nulla di nuovo per quanto mi riguarda. Ci sono cresciuta affrontando pazientemente la violenza di chi voleva impedirmi di parlare. Eppure ogni volta mi sorprendo a sorprendermi. Anche perché sono convinta che mai potrebbe accadere qualcosa di simile a parti invertite.
Comunque, la campagna elettorale è finita, domani si vota. Io mi auguro che sia una grande festa di popolo. E lo sarà se tanti nostri concittadini si recheranno ai seggi, indipendentemente da chi voteranno. Purtroppo la libertà degli italiani di potersi scegliere un programma di cose da fare e delle persone per realizzarlo è stata mortificata più volte nel corso nell’ultimo decennio. Lo so bene. Ma non può essere la scusa per restare a casa e consentire che questa discutibile interpretazione della democrazia si perpetui ancora e ancora. Mai come adesso, siamo artefici del nostro destino. Mai come ora, gli occhi del mondo sono puntati su di noi. Abbiamo un’occasione preziosa: dimostrare che l’Italia è forte e libera. Malgrado i tentativi dall’estero, sempre più disperati, di condizionare il voto di domani. Come ho avuto modo di dire più volte, mi dispiace molto che sia stata proprio la sinistra italiana a invocarne l’intervento; tratteggiando all’estero un’immagine distopica di me e delle nostre idee, con la recondita speranza di influenzare il voto di domani o, peggio ancora, il governo di dopodomani. Questa delegittimazione a priori dell’esito delle elezioni non farà cambiare idea agli italiani, se un po’ ho imparato a conoscerli. Ma potrebbe far male all’Italia e questo lo trovo inaccettabile. Di colpi bassi in questa campagna elettorale ce ne sono arrivati tantissimi. Mi consola solo il fatto che avrebbero potuto essere molti di più, se si fosse votato alla scadenza naturale della legislatura e se tutto il circo della demonizzazione nei miei confronti non avesse avuto così poco tempo per mettersi in moto.
Tra i tentativi andati a vuoto c’è tutta la questione «femminile». Nelle ultime settimane le diverse sinistre in campo, da quella radical chic di Calenda a quella ortodossa di Letta, passando per quella populista di Conte, hanno cominciato ad accusarmi di non essere «davvero donna». Ne è nata una narrazione surreale, in virtù della quale avrei intenzione di cancellare i miei stessi diritti, qualora diventassi premier. E che dire della coperta di Linus che sbuca fuori a ogni convocazione elettorale. Mediamente su quattro domande che mi venivano poste in campagna elettorale, due riguardavano il fascismo, una l’Ungheria e una la Spagna. Che non è proprio ciò che ci si aspetta quando ci si candida alle elezioni italiane e nel 2022. D’altra parte, non mi sono mai sottratta, pur sapendo perfettamente che agli italiani interessa sapere come risolvere i loro problemi di oggi. Non quelli degli amici spagnoli o degli italiani di cento anni fa. Sono tanti e gravi i problemi che ci affliggono. Serviranno scelte coraggiose e ci sarà bisogno di unità. Mi piace pensare che Fratelli d’Italia possa essere il movimento politico che unisce gli italiani e che l’eventuale governo che dovesse nascere dalle urne possa rappresentare un grande messaggio di solidarietà e riscatto nazionale. Ognuno dovrà fare la propria parte. Cominciamo domani. Insieme.





