2023-09-22
Sull’incendio tunisino soffiano Biden e Iran
Se gli Usa lo volessero, il Fmi potrebbe sbloccare i soldi necessari al Paese. Ma il ritardo fa gioco ai Fratelli musulmani, vicini a Teheran e ostili a Kais Saïed. Un gioco politico, rivestito da battaglia per i diritti umani, che serve ai nuovi equilibri di Washington ma inguaia l’Italia.Chi ostacola la stabilizzazione della Tunisia o si oppone ad accordi con Kais Saïed lo fa in nome della tutela dei diritti umani: questa almeno è la versione della sinistra europea e, in parte, di quella americana. Ora, che il presidente tunisino sia un leader controverso e da monitorare, è fuor di dubbio. Resta però da dimostrare che le sinistre delle due sponde dell’Atlantico siano realmente mosse da preoccupazioni per i diritti umani. Cominciamo col dire che una delle ragioni dell’aggravarsi della crisi nel Paese nordafricano risiede nell’atteggiamento passivo di Joe Biden, che non sembra aver finora mosso un dito per favorire lo scongelamento del prestito che il Fmi aveva negoziato con Tunisi. E intanto, a causa delle difficoltà economiche, l’instabilità aumenta. Una situazione che, oltre a provocare ondate migratorie verso le nostre coste, rischia di spingere la Tunisia tra le braccia di Pechino. Possibile che Biden non se ne renda conto? Ufficialmente la freddezza della sua amministrazione è motivata, almeno in parte, dalla questione dei diritti umani. «Continueremo a sostenere le aspirazioni del popolo tunisino per un futuro democratico e prospero», dichiarò a marzo il segretario di Stato americano, Tony Blinken. Eppure, a ben vedere, il comportamento del presidente è il frutto di una precisa scelta politica. L’attuale Casa Bianca sembra aver rispolverato la discutibile linea dell’amministrazione Obama: strizzare l’occhio all’organizzazione islamista sunnita dei Fratelli musulmani. D’altronde, il principale partito tunisino di opposizione, Ennahda, non è uno schieramento liberaldemocratico ma un movimento che orbita attorno alla Fratellanza e che intrattiene rapporti con Hamas. Nonostante alcune operazioni di maquillage politico, secondo il Counter Extremism Project, Ennahda continua a mantenere collegamenti con i Fratelli musulmani. Quegli stessi Fratelli musulmani che, nel 2011, furono alla base delle cosiddette «primavere arabe», de facto benedette da Barack Obama. Non a caso, nel 2021, l’arrivo alla Casa Bianca di Biden (che di Obama era stato vice) fu salutato con favore da Ali al-Qaradaghi: il segretario generale dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani (una realtà che, secondo il Counter Extremism Project, risulterebbe legata alla Fratellanza). Difficile d’altronde che la stessa Fratellanza non abbia apprezzato la politica anti-saudita promossa da Biden nei primi mesi di presidenza. Sebbene possa a prima vista apparire paradossale, un altro segnale della vicinanza del presidente americano ai Fratelli musulmani risiede nel tentativo dell’attuale Casa Bianca di ripristinare il controverso accordo sul nucleare con l’Iran: il Jcpoa. Si tratta infatti di un’intesa caldeggiata dal Qatar, che è a sua volta considerato un sostenitore della Fratellanza e che, pur essendo sunnita, intrattiene storicamente buoni rapporti con il regime sciita di Teheran. Non a caso, Doha si sta dando da fare per favorire il rilancio del Jcpoa. A giugno 2022 ospitò colloqui indiretti tra Usa e Iran. Ha inoltre mediato il recente accordo tra Washington e Teheran per lo scambio di alcuni prigionieri: un accordo che, secondo Reuters, il Qatar vuole ora utilizzare come trampolino di lancio per arrivare al ripristino del Jcpoa. A livello generale, si registra un capovolgimento rispetto a Donald Trump, che aveva negoziato gli accordi di Abramo, isolando Teheran e arginando i Fratelli musulmani. La linea soft verso Iran e Fratellanza ha, insomma, portato Biden ad una sostanziale freddezza verso Saïed. Ma i cortocircuiti riguardano anche la sinistra europea. Il Pse ha sempre sostenuto il Jcpoa: addirittura, nel 2015, l’allora Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Federica Mogherini, contribuì a negoziarlo. Inoltre, i socialisti europei si sono spesso mostrati a favore delle primavere arabe. «Il Pse è stato affascinato dai cambiamenti avvenuti nel mondo arabo nell’ultimo anno e mezzo», disse l’allora segretario generale del Pse, Philip Cordery, a giugno 2012. Lo stesso successore della Mogherini (anche lui in quota Pse), Josep Borrell, è un fautore del rinnovo del Jcpoa. E, guarda caso, ha recentemente criticato il memorandum tra Ue e Tunisi. Contro l’intesa europea con la Tunisia si è espresso anche lo European Network Against Racism: un’organizzazione, supportata dalla Open Society e non del tutto estranea alle intricate galassie della Fratellanza. Almeno fino al 2016, nel suo board sedeva Intissar Kherigi: la figlia del leader di Ennahda, Rashid Ghannushi. Inoltre, il suo ex direttore, Michael Privot, ammise di aver fatto parte in passato dei Fratelli musulmani. Senza infine trascurare che, nel 2012, Ghannushi fu ospite a un convegno della Comunità di Sant’Egidio a Roma: sarà un caso, ma il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, ha mostrato freddezza verso l’accordo tunisino. Lo ripetiamo: nessuno nega che Saïed sia una figura controversa e da tenere d’occhio. Tuttavia che la sinistra europea critichi l’accordo tunisino parlando di diritti umani, lascia onestamente perplessi. Il Pse è tra i responsabili, insieme a Obama e a Vladimir Putin, del Jcpoa. La Spd intrattiene storici legami con Russia e Cina. Inoltre, quando era al governo, il Pd ha reso l’Italia più vicina a Teheran, Doha e Pechino, mentre adesso fa il tifo per il filocinese Lula. Biden, dal canto suo, è in pieno appeasement con l’Iran e ha allentato le sanzioni al regime venezuelano. Eppure, nonostante i loro giri di valzer con autocrati e islamisti, per le sinistre delle due sponde dell’Atlantico il problema sembra essere solo Saïed.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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