Che Stellantis stia rivedendo i suoi obiettivi sulla produzione di auto elettriche non lo stupisce. «Quello che mi stupiva era che le case automobilistiche europee fossero d’accordo con il commissario europeo Timmermans», spiega il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, intervistato da Maurizio Belpietro durante il convegno su sostenibilità ambientale e transizione energetica, organizzato ieri a Milano dalla Verità. «Le case automobilistiche pensavano di far pagare ai cittadini il costo della transizione all’elettrico, ma oggi si accorgono che l’obiettivo di non produrre più auto a benzina entro il 2035 è insostenibile».
Si parte da qui, dunque, dal grande abbaglio sull’elettrico, «una tecnologia solida», concede il ministro: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Ma da qui a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre. Una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica», sperando che i consumatori seguano. Per l’auto a batteria, questo non è accaduto. Di qui, in un circolo vizioso, i mancati investimenti sulle infrastrutture: per la costruzione delle colonnine di ricarica «ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Trenitalia e Rfi di partecipare». Tutto inutile. «Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
«È qui l’errore», ribadisce: «Hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei. Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico». Pichetto comunque si dice convinto che l’obiettivo del «tutto elettrico» entro il 2035 verrà alla fine annullato. Il nuovo commissario che si occupa di green, la spagnola Teresa Ribera, «ha una impostazione ideologica, ma sa ascoltare», assicura.
Il problema è che a Bruxelles ora si è aperto un altro fronte: quello della riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. «Al momento manca ancora una minoranza di blocco per impedirla. Per l’Italia si tratterebbe di un obiettivo irraggiungibile. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi invece abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento... Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo».
La parola d’ordine, quindi, è realismo: che si traduce nella convinzione che il gas starà con noi molto a lungo («È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per i prossimi decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione»), ma anche che il carbone continuerà ad avere un ruolo decisivo: «Con questi chiari di luna», dice Pichetto riferendosi alle turbolenze sullo scenario internazionale, e non potendo mettere la mano sul fuoco sulla sicurezza negli anni delle forniture da parte dei Paesi che hanno sostituito la Russia, «le due grandi centrali di Brindisi e di Civitavecchia sono una garanzia di sicurezza nazionale».
E a proposito di sicurezza nazionale, il ministro si sofferma anche sull’idroelettrico, e sull’obiettivo di prorogare le concessioni: «Vogliamo mantenere le centrali in mani nazionali, per evitare che arrivi il grande fondo con operazioni fuori mercato che poi potrebbe imporre le sue condizioni al governo. Lo stesso principio vale per la rete del gas». Non manca, infine, il riferimento al nucleare: «Non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. Il nucleare non sostituisce le fonti rinnovabili ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri».
C’è anche spazio per le ricadute che tutti questi problemi hanno sulle bollette: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche» mette le mani avanti Pichetto. «Stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali». A margine del convegno, il ministro spiega che alcuni di questi interventi «riguardano le aste che stiamo facendo sulle rinnovabili, che speriamo abbiano un prezzo molto basso. Questo serve ad andare a riequilibrare rispetto al prezzo del gas, che è quello che pesa di più in bolletta».
La Corte d’appello di New York ha annullato ieri una condanna a 23 anni di carcere per violenze sessuali nei confronti di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico che ha dato il via suo malgrado al movimento MeToo, collezionando denunce di molestie da parte di più di cento donne. Il settantaduenne fondatore della Miramax non tornerà però in libertà: verrà trasferito dal carcere di New York, dove si trova dal febbraio del 2020, a un penitenziario di Los Angeles, la città dove poco meno di due anni fa era stato condannato, in un altro processo, a 16 anni di carcere per aver stuprato una modella nella camera di un albergo.
L’annullamento della sentenza del 2020, deciso con una maggioranza risicata (quattro contro tre) da un collegio composto in maggioranza da donne, è dovuto un errore commesso nel corso del processo dal giudice James Burke, che decise di consentire al procuratore di chiamare a deporre alcune donne che denunciavano passati atti violenti di Weinstein, che però non facevano parte delle incriminazioni a suo carico.
L’obiettivo di quelle testimonianze era dimostrare quanto fossero radicati nel tempo i comportamenti del produttore. Ma «nel nostro sistema di giustizia l’accusato ha diritto a rispondere solo del crimine per il quale è stato incriminato», ha sancito ieri la Corte d’appello, sottolineando che «il rimedio per questi errori è un nuovo processo». Non basta: il giudice Burke aveva concesso ai magistrati di interrogare Weinstein (qualora quest’ultimo avesse accettato di rispondere) anche a proposito di accuse risalenti a quarant’anni prima, ma non formalizzate (dai litigi con il fratello produttore alle scenate violente contro i camerieri); ciò che avrebbe dissuaso l’accusato dal testimoniare in aula, compromettendo così la sua possibilità di difendersi.
E adesso? Sta al procuratore Alvin L. Bragg (lo stesso che ha incriminato l’ex presidente Donald Trump per i pagamenti alla pornostar Stormy Daniels) decidere se portare di nuovo a processo Weinstein. «Faremo quanto è in nostro potere e restiamo fermamente dalla parte delle vittime delle aggressioni sessuali», filtrava ieri dalla procura. «È una vittoria non solo per il signor Weinstein, ma per tutti gli imputati nello stato di New York i cui diritti fondamentali sono stati ribaditi oggi dalla Corte», ha commentato invece l’avvocato di Weinstein, Arthur Aidala. Di tutt’altro tenore com’è ovvio i commenti dal mondo femminista. Jane Manning, ex magistrato e direttrice del Women’s Equal Justice Project, ha definito «scioccante» la decisione della Corte di New York: «Dimostra quanto occorra ancora fare per mandare avanti i nostri ideali». «Una sentenza ingiusta nei confronti delle vittime, ma noi sappiamo quello che è successo», ha ribadito invece l’attrice Ashley Judd, tra le prime a denunciare le molestie subite da Weinstein.
L’annullamento della condanna per Weinstein ricorda un caso simile, risalente al 2021, quando la Corte della Pennsylvania revocò una condanna per violenza sessuale nei confronti della star dei Robinson Bill Cosby, anche in quel caso per via di un errore commesso nel corso del processo, dove era stata usata contro di lui una sua deposizione resa volontariamente.
Le elezioni europee sono in agenda per giugno, l’anno è appena iniziato, ma a Bruxelles l’establishment è già in allarme. Anzi, lo è da qualche tempo. È vero, i sondaggi non lasciano intravedere la possibilità di ribaltoni all’Europarlamento, eppure i nuovi equilibri che usciranno in seguito al previsto rafforzamento dei gruppi di Identità e democrazia (con dentro la Lega) e dei Conservatori e riformisti (con dentro Fratelli d’Italia) potrebbero mettere a rischio molte poltrone. Una è sicuramente quella del socialista spagnolo Josep Borrell, il «ministro degli Esteri» dell’Unione europea, che non per caso ha espresso tutti i suoi timori sull’esito del voto. «Le elezioni europee potrebbero rivelarsi più pericolose di quelle americane perché temo che i cittadini europei voteranno in base alla paura», ha detto infatti nei giorni scorsi l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, come dava conto ieri La Stampa. Si capisce: se i partiti che attualmente sostengono Ursula von der Leyen non avessero più numeri sufficienti, i conservatori potrebbero entrare in maggioranza. Ma a questo punto i posti della nuova Commissione dovrebbero essere spartiti anche con gli ultimi arrivati.
Negli incubi dei progressisti questo 2024 assomiglia moltissimo al 2016, annus horribilis in cui a giugno arrivò l’impronosticata vittoria del «leave» nel referendum sulla permanenza del Regno Unito nella Ue e a novembre l’altrettanto inaspettata vittoria di Donald Trump contro Hillary Clinton alle elezioni presidenziali americane. Cominciava a spirare il «vento populista» e gli esponenti delle classi dirigenti sotto attacco sfornarono analisi pensose sui limiti delle procedure elettorali, che mettevano sullo stesso piano il voto dei giovani ecologisti ed europeisti e quello dei vecchi impauriti e poco scolarizzati, pronti a farsi abbindolare dalle promesse dei cantori della Brexit e dalle parole d’ordine sul «Make America Great Again». Si cominciò a diffidare apertamente della democrazia, soprattutto in Europa, dove le classi dirigenti da tempo avevano nobilmente «accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo dal processo elettorale» (Mario Monti).
Come nel 2016, quindi, chiusasi l’epoca dei «competenti» al governo, finito il tempo della grande paura del Covid, ritorna la paura delle urne, il timore che gli elettori possano votare nel modo «sbagliato». Nella prospettiva delle classi privilegiate, lo scenario di questo 2024 è quello che con una certa enfasi ha disegnato Gianni Riotta qualche giorno fa sulla Repubblica, parlando delle elezioni che nel mondo chiameranno alle urne un totale di 4 miliardi di persone: un «referendum globale sul pianeta Terra» che «avrà due rivali sulle schede, Democrazia contro Autoritarismo». Campo di battaglia, anche l’Europa, «400 milioni di elettori, selezionando per la decima volta il Parlamento comune, i partiti del centro popolare a fronteggiare la destra populista». Tuttavia, contro questo nemico oggi c’è un’arma in più: i fact-checker. Scrive Riotta: «Ovunque la disinformazione resterà in agguato, corroborata dall’Intelligenza Artificiale: Martina Larkin, capo dell’istituto Project Liberty , assicura: “Ogni leader sarà bersagliato da false notizie” e l’Ue crea dunque la task force dello European Digital Media Observatory contro la guerra ibrida delle bugie online 2024». E poi si sorprendono se molti elettori hanno paura...





