Chi ostacola la stabilizzazione della Tunisia o si oppone ad accordi con Kais Saïed lo fa in nome della tutela dei diritti umani: questa almeno è la versione della sinistra europea e, in parte, di quella americana. Ora, che il presidente tunisino sia un leader controverso e da monitorare, è fuor di dubbio. Resta però da dimostrare che le sinistre delle due sponde dell’Atlantico siano realmente mosse da preoccupazioni per i diritti umani. Cominciamo col dire che una delle ragioni dell’aggravarsi della crisi nel Paese nordafricano risiede nell’atteggiamento passivo di Joe Biden, che non sembra aver finora mosso un dito per favorire lo scongelamento del prestito che il Fmi aveva negoziato con Tunisi. E intanto, a causa delle difficoltà economiche, l’instabilità aumenta. Una situazione che, oltre a provocare ondate migratorie verso le nostre coste, rischia di spingere la Tunisia tra le braccia di Pechino. Possibile che Biden non se ne renda conto?
Ufficialmente la freddezza della sua amministrazione è motivata, almeno in parte, dalla questione dei diritti umani. «Continueremo a sostenere le aspirazioni del popolo tunisino per un futuro democratico e prospero», dichiarò a marzo il segretario di Stato americano, Tony Blinken. Eppure, a ben vedere, il comportamento del presidente è il frutto di una precisa scelta politica. L’attuale Casa Bianca sembra aver rispolverato la discutibile linea dell’amministrazione Obama: strizzare l’occhio all’organizzazione islamista sunnita dei Fratelli musulmani. D’altronde, il principale partito tunisino di opposizione, Ennahda, non è uno schieramento liberaldemocratico ma un movimento che orbita attorno alla Fratellanza e che intrattiene rapporti con Hamas. Nonostante alcune operazioni di maquillage politico, secondo il Counter Extremism Project, Ennahda continua a mantenere collegamenti con i Fratelli musulmani. Quegli stessi Fratelli musulmani che, nel 2011, furono alla base delle cosiddette «primavere arabe», de facto benedette da Barack Obama. Non a caso, nel 2021, l’arrivo alla Casa Bianca di Biden (che di Obama era stato vice) fu salutato con favore da Ali al-Qaradaghi: il segretario generale dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani (una realtà che, secondo il Counter Extremism Project, risulterebbe legata alla Fratellanza). Difficile d’altronde che la stessa Fratellanza non abbia apprezzato la politica anti-saudita promossa da Biden nei primi mesi di presidenza.
Sebbene possa a prima vista apparire paradossale, un altro segnale della vicinanza del presidente americano ai Fratelli musulmani risiede nel tentativo dell’attuale Casa Bianca di ripristinare il controverso accordo sul nucleare con l’Iran: il Jcpoa. Si tratta infatti di un’intesa caldeggiata dal Qatar, che è a sua volta considerato un sostenitore della Fratellanza e che, pur essendo sunnita, intrattiene storicamente buoni rapporti con il regime sciita di Teheran. Non a caso, Doha si sta dando da fare per favorire il rilancio del Jcpoa. A giugno 2022 ospitò colloqui indiretti tra Usa e Iran. Ha inoltre mediato il recente accordo tra Washington e Teheran per lo scambio di alcuni prigionieri: un accordo che, secondo Reuters, il Qatar vuole ora utilizzare come trampolino di lancio per arrivare al ripristino del Jcpoa. A livello generale, si registra un capovolgimento rispetto a Donald Trump, che aveva negoziato gli accordi di Abramo, isolando Teheran e arginando i Fratelli musulmani. La linea soft verso Iran e Fratellanza ha, insomma, portato Biden ad una sostanziale freddezza verso Saïed.
Ma i cortocircuiti riguardano anche la sinistra europea. Il Pse ha sempre sostenuto il Jcpoa: addirittura, nel 2015, l’allora Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Federica Mogherini, contribuì a negoziarlo. Inoltre, i socialisti europei si sono spesso mostrati a favore delle primavere arabe. «Il Pse è stato affascinato dai cambiamenti avvenuti nel mondo arabo nell’ultimo anno e mezzo», disse l’allora segretario generale del Pse, Philip Cordery, a giugno 2012. Lo stesso successore della Mogherini (anche lui in quota Pse), Josep Borrell, è un fautore del rinnovo del Jcpoa. E, guarda caso, ha recentemente criticato il memorandum tra Ue e Tunisi. Contro l’intesa europea con la Tunisia si è espresso anche lo European Network Against Racism: un’organizzazione, supportata dalla Open Society e non del tutto estranea alle intricate galassie della Fratellanza. Almeno fino al 2016, nel suo board sedeva Intissar Kherigi: la figlia del leader di Ennahda, Rashid Ghannushi. Inoltre, il suo ex direttore, Michael Privot, ammise di aver fatto parte in passato dei Fratelli musulmani. Senza infine trascurare che, nel 2012, Ghannushi fu ospite a un convegno della Comunità di Sant’Egidio a Roma: sarà un caso, ma il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, ha mostrato freddezza verso l’accordo tunisino.
Lo ripetiamo: nessuno nega che Saïed sia una figura controversa e da tenere d’occhio. Tuttavia che la sinistra europea critichi l’accordo tunisino parlando di diritti umani, lascia onestamente perplessi. Il Pse è tra i responsabili, insieme a Obama e a Vladimir Putin, del Jcpoa. La Spd intrattiene storici legami con Russia e Cina. Inoltre, quando era al governo, il Pd ha reso l’Italia più vicina a Teheran, Doha e Pechino, mentre adesso fa il tifo per il filocinese Lula. Biden, dal canto suo, è in pieno appeasement con l’Iran e ha allentato le sanzioni al regime venezuelano. Eppure, nonostante i loro giri di valzer con autocrati e islamisti, per le sinistre delle due sponde dell’Atlantico il problema sembra essere solo Saïed.


