È la sinistra di oggi, intesa non come declinazioni partitiche ma come approccio pre-politico, a meritarsi quegli strali: perché è quel mondo che sta tentando di scaricare, in Italia e in Europa, una messe regolatoria in ambito socio-educativo-affettivo da suonare solo apparentemente paradossale negli eredi del ’68. Christopher Lasch, infatti, già nel 1979 aveva colto sottotraccia una tendenza che si sarebbe rivelata potentissima in certo progressismo: «La socializzazione della produzione», spiegava nel formidabile La cultura del narcisismo, «si rivelò il preludio della socializzazione della riproduzione stessa - la delega delle funzioni educative a genitori sostitutivi responsabili non davanti alla famiglia ma davanti allo Stato, all’industria privata o al proprio codice di etica professionale. Nell’avvicinare le masse alla cultura, l’industria pubblicitaria, i mass media, il servizio sanitario, l’assistenza sociale e le altre agenzie dell’istruzione di massa assunsero gran parte delle funzioni che appartenevano alla famiglia e assoggettarono le rimanenti alla direzione della scienza e della tecnologia moderne. È in questa prospettiva che va vista l’appropriazione da parte della scuola di molti dei compiti educativi che in passato spettavano alla famiglia, compreso l’addestramento manuale, le faccende domestiche, le norme di buona educazione e l’educazione sessuale».
Siamo all’oggi, con la proliferazione di norme sull’educazione affettiva, sulle varie forme di unione, contro i discorsi d’odio, fino al contestato ddl «bipartisan» sul «consenso», oggetto di una discussione che i fautori delle famose prerogative del Parlamento liquidano come cinico temporeggiamento sulla pelle delle donne. C’è molto di una religione senza metafisica in questa frenesia contemporanea del voler proteggere gli individui da sé stessi, nel codificare comportamenti, affetti, reati, consumi, in ambiti talmente delicati da rendere spesso comici tali tentativi, non producessero effetti molto meno divertenti sul piano del diritto e del buon senso. A ben vedere, non è una questione che riguardi solo i partiti della sinistra: proprio per questo appare fondamentale definire, lungo queste coordinate, un’offerta politica che sappia fare i conti con queste istanze e almeno identifichi alcune contraddizioni enormi. Come mai il progressismo, che nasce in rottura di convenzioni e tradizioni, si specializza in normativizzazione esasperata? Può una politica di alveo conservatore consegnare alla magistratura, in piena campagna referendaria contro le cosiddette «toghe politicizzate», uno strumento normativo prima e processuale poi che inverta l’onere della prova in modo da trasformare più o meno chiunque in potenziale indagato? Più in generale, può sposare una concezione della libertà (di espressione, di educazione dei figli, dei rapporti tra persone, attorno alla morte) come gentile concessione dello Stato?
Un altro grande pensatore, Byung Chul-Han, di recente ha scritto che «la crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con una tecnica di potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta. La libera scelta viene annullata in favore di una libera selezione tra le offerte». È questo «menu» cui tende molta proliferazione normativa, forma sottile e totale di potere. La stessa che fa risaltare per contrasto l’idea di libertà che arriva dalla Chiesa: nella recente «Una caro» la Congregazione per la dottrina della fede esprime una concezione del sesso (tra coniugi) molto più laica e umana di tanta sinistra. In attesa un Pannella che lo faccia notare.
Come non averci pensato prima? Alle «tre strade senza uscita» per dare soldi all’Ucraina elencate da Giuseppe Liturri pochi giorni fa su questo giornale se ne aggiunge una quarta, ancor più surreale, resa nota dalla Stampa di ieri. Ursula von der Leyen avrebbe proposto di utilizzare «a fondo perduto» per Kiev le giacenze del famigerato Mes, il Meccanismo europeo di stabilità la cui riforma è di fatto bloccata dalla mancata ratifica parlamentare del nostro Paese.
Secondo l’articolo di Marco Bresolin, infatti, per far fronte alle promesse fatte a Ucraina (e Usa, di fatto), la Commissione avrebbe proposto agli Stati di usare proprio il Mes. Come? Il modo studiato - che pure La Stampa definisce un «azzardo» - serve a impiegare con un giro complicato i soldi dei Paesi dell’eurozona per adempiere gli impegni presi dalla Von der Leyen: agli Stati viene proposto di aprire una linea di credito del Mes per poi trasferire i denari appunto «a fondo perduto» a Zelensky o a chi per lui. La sola idea che un’ipotesi simile sia presa sul serio e messa nero su bianco fa capire il cul de sac in cui la Commissione si è infilata. Nelle condizioni politiche attuali, che hanno visto la proposta di bilancio Ue presentata dalla leader della Commissione contestata frontalmente dal suo partito, cioè il Ppe, immaginare che sia facile chiedere più soldi agli Stati è utopico. Nessuno infatti, a partire dai Paesi più grandi, ha la minima intenzione di tornare dagli elettori aumentando le tasse (o tagliando le spese) per l’Ucraina. Come noto, l’Ue non ha «risorse proprie», e siccome l’ideona di confiscare gli asset russi presenta una serie di controindicazioni lunga chilometri, ecco il ritorno del Mes.
Piccolo passo indietro: los tesso Mes nasce dopo la crisi Lehman, quando le istituzioni comunitarie si dotano (maggio 2010) di uno strumento - tecnicamente una società di diritto lussemburghese - chiamato Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), che emette obbligazioni destinate a finanziare il deficit di Stati in difficoltà (all’epoca, Portogallo e Irlanda e Grecia). Un anno dopo, il Fondo confluisce nel Mes (Meccanismo europeo di stabilità), la cui finalità è identica ma che, a differenza del primo, non emette titoli ma riceve capitale versato dai singoli Stati. Ogni Stato contribuisce in modo proporzionale: l’Italia, che ha il 17,7% delle quote calcolate in base al Pil, ha sottoscritto 125 miliardi di capitale e ne ha versato più del 10%, ovvero quasi 15 miliardi.
L’ipotesi che un fondo creato per intervenire con pesanti condizioni (citofonare Atene) a soccorso di membri dell’eurozona non in condizione di approvvigionarsi sui mercati possa essere usato per prestare soldi a Stati solidi, per poi versarli a un Paese extra Ue, richiederebbe una modifica dello statuto del Mes, e dunque di colpo addio a un lustro di polemiche sull’Italia che «blocca la riforma», di cui non ci sarebbe più alcun bisogno, a voler percorrere la «via Ucraina» al salva Stati, dopo lo scarsissimo successo del «Mes sanitario» in piena pandemia.
La sparata - perché al momento tale sembra - della Von der Leyen fa il paio con la «Schengen militare» avanzata ieri: si tratta del piano Ue perché mezzi e soldati possano muoversi velocemente all’interno dei confini. Oggi, con regolamento e comunicazione presentati ufficialmente, ne sapremo di più. Ma il nocciolo è una gestione duale delle linee di comunicazione strategiche: in caso di crisi il nuovo sistema di accordi potrebbe essere attivato rapidamente per dare «priorità assoluta» ai trasporti militari su reti stradali, ferroviarie e aeroportuali. Dai 70 anni di pace e libertà di circolazione delle persone alla libertà di circolazione delle armi a scapito del treno per le vacanze, è un attimo.
Tutto ciò ha se non altro il merito di riaprire il dibattito sul significato del Mes: uno strumento inerte dal 2016 (come prestiti erogati, per i rimborsi greci si dovrebbe attendere il 2060) in cui giacciono risorse ingenti, ma contemporaneamente insufficienti in caso di crisi di banche cosiddette «sistemiche», visto che la riforma puntava proprio a rendere utilizzabile il Mes come «backstop», cioè salvataggio, per istituti di credito in crisi. Il recente emendamento patrocinato da Claudio Borghi, leghista e relatore della Legge di Bilancio al Senato, tocca in effetti un punto delicato: che fare col Fondo? L’idea del senatore del Carroccio è radicale: vendere le quote portando a casa cinque miliardi l’anno per tre anni, e usarli per tagliare tasse o aumentare la spesa sanitaria. La proposta, provocatoria fin che si vuole, è un’arma a doppio taglio. Liquidare le quote di un prestito costringerebbe a una verifica potenzialmente esplosiva: qualcuno le vuole? Cioè: quei prestiti sono ritenuti rimborsabili? Se sì, l’Italia potrebbe incassare bene rinunciandovi. In caso contrario, la credibilità dei gestori e dell’Ue sarebbe azzerata.
Presa dall’altro lato, insomma, la proposta Von der Leyen ha tutta l’aria della disperazione ed è lecito chiedersi, a fronte della palese incapacità di allineare gli obiettivi della Commissione e le rappresentanze politiche degli Stati, se sia il Mes a dover salvare l’Ucraina, o viceversa.
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Professore, nel suo intervento al convegno di Torino ha delineato una rappresentazione non pacificata del rapporto tra il costituzionalismo degli Stati e lo spazio del cosiddetto diritto europeo. Rifacendosi alla lettura di Joseph Weiler, lei nota come il diritto comunitario si sia di fatto sviluppato per via giurisprudenziale più che politica. Si potrebbe quindi dire che il vero federalismo si è realizzato con le Corti, mentre l’assetto «politico» dell’Ue è rimasto di fatto intergovernativo? È questo il vero «deficit democratico» dell’Ue, prima ancora che le deboli prerogative del Parlamento Ue?
«Nella fase fondativa della Comunità, la Corte di giustizia ha introdotto tanto il principio degli effetti diretti delle disposizioni del diritto comunitario, sufficientemente precise e incondizionate, quanto quello del suo primato rispetto al diritto nazionale. Pertanto, i privati possono agire davanti ai giudici nazionali per far valere il diritto comunitario e, in caso di conflitto tra esso e la legge nazionale, i giudici applicano il primo e disapplicano la seconda. Tutto ciò evita di affidare al recepimento da parte dello Stato l’operatività del diritto dell’Unione, con l’obiettivo di ostacolare i comportamenti opportunistici da parte del singolo Stato, che altrimenti potrebbe applicare le regole che gli convengono e non le altre, pregiudicando l’eguaglianza e la solidarietà tra gli Stati membri. Il risvolto della medaglia è che i popoli europei si trovano sottoposti a un diritto che proviene da un altro ordinamento, e che prevale sulla legge approvata dai loro Parlamenti».
Come si concilia questa dinamica con il principio democratico?
«La risposta inizialmente stava nella circostanza che gli Stati avevano approvato il diritto comunitario, grazie alla regola dell’unanimità in Consiglio, dove sono rappresentati i loro governi. Ma, con l’allargamento dell’Europa a nuovi Paesi e con l’accrescimento delle sue competenze, si è progressivamente introdotta la maggioranza qualificata come regola decisionale, mantenendo l’unanimità solo in campi ben circoscritti. Inoltre, il diritto europeo va interpretato e le istituzioni sovranazionali sovente hanno dato interpretazioni evolutive, ampliando notevolmente l’ambito delle competenze dell’Unione. Il problema della legittimazione si è così riproposto, e per affrontarlo si è rafforzato il ruolo del Parlamento europeo, eletto direttamente dai cittadini europei. Con il trattato di Lisbona, esso è diventato il “co-legislatore” necessario, insieme al Consiglio, salvo eccezioni. Ma questa strategia si è rivelata insufficiente, come è dimostrato dallo sviluppo di partiti populisti antieuropei che, in nome del principio democratico, rivendicano una maggiore autonomia rispetto a Bruxelles».
Ma in quali soggetti va cercata la forza motrice della creazione di questo spazio giuridico privo di un vero «potere costituente»? Accademia, Corti stesse, burocrazie Ue? Si tratta di soggetti con accountability rispetto agli effetti politici delle loro scelte?
«L’integrazione europea è necessaria. Lo era dopo la seconda guerra mondiale per assicurare la pace tra Stati che avevano passato gran parte della loro storia a farsi la guerra e per promuovere il benessere economico. Lo è ancora più oggi, quando gli Stati sono troppo piccoli per affrontare le sfide epocali che hanno davanti. Ma l’Europa non galleggia nel vuoto; piuttosto ha bisogno di forze materiali e ideali a cui appoggiarsi. Vi è nella dinamica dell’integrazione una tensione ineliminabile: da una parte c’è bisogno dell’Europa per non precipitare nella “democrazia dell’impotenza”; dall’altra, occorre assicurarne la legittimazione democratica. La legittimazione tecnica ha mostrato la corda, perché le questioni da affrontare - si pensi al problema delle migrazioni - sono sempre di più intrise di politicità. Anche estendere all’Unione il modello usato per gli Stati e quindi rafforzare il ruolo del Parlamento europeo non è sufficiente perché, non esistendo un popolo europeo e una sfera pubblica europea, l’elezione diretta non ha la stessa carica legittimante che ha nell’ambito nazionale. Quando gli italiani hanno votato per il rinnovo del Parlamento europeo avevano in mente Meloni, Schlein, Tajani, Salvini, Conte, Renzi e così via, ma non pensavano a Ursula von der Leyen e alla formazione della Commissione europea. La politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. Per questa ragione, occorre rafforzare le connessioni dell’Unione con le democrazie nazionali e assicurare spazi adeguati di autonomia a queste ultime, quando non ci sono esigenze funzionali che giustificano lo spostamento di competenze a livello europeo».
Negli ultimi anni si è molto parlato dello «Stato di diritto», la cui mancata attuazione - penso ai casi di Polonia e Ungheria - può essere sanzionata. Domanda banale: l’interpretazione dei «valori» alla sua base, descritti dall’articolo 2 del Tfue, come può essere univocamente definita quando, per esempio, essa riguarda temi etici su cui evidentemente i Paesi membri esprimono sensibilità o ordinamenti divergenti?
«Lo Stato di diritto è uno dei valori su cui si fonda l’Europa. Esso non è imposto dall’esterno, ma appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Garantisce le nostre libertà perché, esigendo che qualsiasi restrizione delle stesse debba essere prevista in via generale dalla legge e applicata da giudici indipendenti, costituisce un baluardo contro l’arbitrio. Inoltre, permette il calcolo economico razionale che sta alla base degli investimenti e dei comportamenti di mercato delle imprese. Infine, è necessario per l’integrazione europea, perché questa si realizza in gran parte attraverso il diritto, e perciò richiede il rispetto del principio di legalità e la garanzia che ad applicarlo siano giudici indipendenti. Altra cosa è se si intende estendere il catalogo dei diritti, senza una precisa base testuale, regolando a livello europeo questioni eticamente controverse nelle società nazionali. Simili sviluppi sono pericolosi perché possono essere percepiti da parti consistenti di tali società come l’imposizione di una scelta etica non condivisa, indebolendo la legittimazione dell’Unione».
Lei da due anni precisi è giudice della Corte costituzionale. Ritiene che, rispetto ad altri organi equivalenti in Europa, il sistema italiano si sia mostrato nel suo complesso più «arrendevole» nel porsi la questione dell’attrito tra diritto comunitario e nazionale? Ad esempio, la Slovacchia ha sancito la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario, mentre noi diamo per assodato il contrario. Perché?
«La Corte costituzionale si è sempre comportata con saggezza. Dopo un lungo “cammino comunitario”, con la sentenza Granital del 1984, ha riconosciuto i principi del primato e dell’effetto diretto. Con quella sentenza, però, si era tagliata fuori dal controllo sulla compatibilità comunitaria della legge, lasciato ai giudici comuni, e quindi anche dal dialogo con la Corte di giustizia, che si realizza attraverso il rinvio pregiudiziale con cui il giudice chiede a quest’ultima l’interpretazione del diritto dell’Unione, per poi verificare se il diritto nazionale sia o meno con esso compatibile. Oggi, invece, la Corte costituzionale ritiene di poter verificare se una legge contrasta con il diritto comunitario, allorché un giudice decida di sottoporle una questione di costituzionalità di una legge che, violando il diritto dell’Unione, viola al contempo la Costituzione, la quale impone il rispetto degli obblighi comunitari. La Corte, in tal caso, può effettuare il rinvio pregiudiziale proponendo, però, alla Corte di giustizia un’interpretazione del diritto dell’Unione che lo armonizzi con le esigenze costituzionali nazionali. La collaborazione leale tra le Corti dovrebbe stare alla base della formazione di uno spazio costituzionale comune all’Unione e agli Stati membri».
Sempre nel suo intervento, lei sembra proporre una lettura piuttosto antitetica a quella comune sul cosiddetto «populismo»: le forze anti-Ue vedrebbero crescere i loro consensi a causa della mancata considerazione della «voce» dei popoli nello spazio giuridico europeo, sempre più cogente per la vita degli Stati membri. Tali dinamiche elettorali sarebbero quindi più conseguenza che causa di una crisi di legittimazione dell’Ue: è così? E allora, che compito spetta alla politica?
«L’Unione deve restare connessa alle democrazie nazionali e quindi deve prendere sul serio i problemi che i popoli europei percepiscono come urgenti, anche quando urtano il “pensiero dominante”. Con un’eccezione: non possono trovare spazio quei comportamenti che contraddicono i principi della democrazia, dello Stato di diritto, della libertà, del pluralismo, su cui gli Stati membri hanno liberamente deciso di fondare l’integrazione dei loro ordinamenti».
Cosa implica, concretamente, la considerazione per cui l’Unione non può realizzarsi senza, né contro, le democrazie nazionali? Lei propone un «costituzionalismo collaborativo», ma chi sono i soggetti di tale collaborazione? E, in caso di conflitto, a chi spetta l’ultima parola?
«La politica democratica si svolge soprattutto nelle comunità nazionali. Perciò l’Unione deve dare massimo risalto al rapporto con le stesse. La sua legittimazione non può fare a meno del metodo intergovernativo e del ruolo del Consiglio europeo, dove si trovano i capi di Stato o di governo, e del Consiglio, formato dai ministri degli Stati membri. Bisogna valorizzare sia il principio di sussidiarietà e il controllo del suo rispetto, affidato ai Parlamenti nazionali, sia i “procedimenti euronazionali”, come quelli usati per il Pnrr, in cui il singolo governo stipula una specie di contratto con la Commissione, sia la cooperazione tra i Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo. Questo è un “costituzionalismo collaborativo”, le cui parti devono essere disponibili all’ascolto e all’apprendimento reciproco. In caso di conflitto insanabile l’ultima parola spetta, però, a chi ha giuridicamente la competenza».
Rispetto ai problemi individuati nel suo già citato contributo , ritiene che l’ulteriore allargamento di ambiti su cui non prevedere il voto all’unanimità in sede di Consiglio Ue sia una soluzione o un loro potenziale inasprimento?
«Non sembrano esserci le condizioni per eliminare del tutto la regola dell’unanimità. Ma si possono formare coalizioni di Stati che hanno l’effettiva volontà di realizzare, in campi specifici, una maggiore integrazione. I trattati già prevedono il meccanismo delle “cooperazioni rafforzate”».




