2025-08-15
«Donald fa politica con l’economia» L’accusa di Prodi è un complimento
Romano Prodi (Imagoeconomica)
L’ex premier attacca il presidente Usa: si serve della leva dei dazi per costringere gli altri Paesi a seguirlo su immigrazione, lavoro e sicurezza. Cioè l’esatto opposto della Ue, che ricatta gli Stati usando i fondi. Romano Prodi non è amico di Donald Trump, ma ha tutta l’aria di avergli tributato un riconoscimento notevole. Ieri, sul Messaggero, il due volte ex presidente del Consiglio italiano ha dato la sua chiave di lettura delle mosse del capo della Casa Bianca. A differenza di molti osservatori, il fondatore dell’Ulivo non cede alla comoda narrativa del pazzo al potere: «Di bizzarria e di imprevedibilità ne abbiamo vista tanta, ma emerge un disegno sempre più chiaro». Ovvero: aumentare il potere «economico e politico degli Stati Uniti»: un progetto «meticolosamente preparato con anni di lavoro», dunque tutt’altro che estemporaneo come la stragrande maggioranza dei media invece racconta.Ma la parte più interessante, anche dal punto di vista quasi filosofico, arriva dopo: «La più importante innovazione di questo disegno è l’impressionante uso della sistematica subordinazione degli strumenti economici a quelli politici». Prodi, si suppone «da sinistra», scrive esattamente questo: Trump, si suppone «da destra», usa l’economia come funzione della politica, assegnando la primazia alla seconda. Per esempio, prosegue l’ex presidente della Commissione Ue, gli Usa impiegano la leva dei dazi per fermare migranti e Fentanyl provenienti dal Messico, o con l’India per dissuaderla dall’acquisto di gas russo (peraltro la stessa identica logica delle sanzioni Ue, con la differenza che magari questa potrebbe persino funzionare). L’aspetto ontologico del rapporto tra categorie del politico e dell’economico è affare un po’ troppo spesso per queste colonne. Tuttavia desta un certo stupore l’apparente reprimenda per questo «strano» uso del fattore economico come leva per ottenere effetti politici, come se fosse naturale procedere in direzione inversa. E in effetti è esattamente ciò che Prodi e, più in generale, l’Unione europea (e allargando anche la Cina) hanno sempre fatto. L’intera costruzione comunitaria negli ultimi 20 anni si è basata, in modo conclamato, sulla minaccia di catastrofi economiche (molto spesso con controfattuali fantastici) sventolate per condizionare scelte politiche altrimenti impossibili, dall’ingresso nell’euro al Mes passando per il Fiscal compact. In particolare la divisa unica, moneta senza Stato, è l’emblema perfetto di ragioni economiche non solo anteposte alla politica, ma che avrebbero finito per determinare conseguenze politiche proprio grazie alle scelte «sottratte» alle Banche centrali e alle sovranità nazionali. Come ebbe a dire Mario Draghi concludendo, nel 2019, il suo mandato alla guida della Banca centrale europea, «L’euro è un progetto fortemente politico, un passo fondamentale verso l’obiettivo di una maggiore integrazione politica, che ha trovato la sua giustificazione economica nella situazione precaria delle economie europee nella metà degli anni Ottanta».E a rendere se non giustificabile quantomeno perfettamente comprensibile l’atteggiamento di Trump sui dazi c’è infatti proprio l’euro, che il Tesoro Usa considera un’arma impropria di manipolazione valutaria da vari lustri in mano alla Germania. Il «marco svalutato» che ha permesso a Berlino e alla sua industria di conquistare quote di export che hanno determinato squilibri macroeconomici globali, poi, come va inquadrato nel bilanciamento tra politica ed economia proposto dal Professore? Minaccia? Ricatto? E invadere, come ha fatto per decenni la Cina, il mercato occidentale di prodotti a basso costo grazie a una manodopera, diciamo così, economica, cavalcando la globalizzazione in una gara deflazionistica che ha fatto dell’Asia la fabbrica del mondo creando esattamente gli squilibri che l’America cerca ora di risanare, come e quanto ha spostato le cause e gli effetti tra agenti economici e decisori politici?Ancora: la mastodontica operazione che va sotto il nome di Green deal, una delle più grandi alterazioni di mercato operata dal legislatore sovranazionale che ha tentato - con risultati discutibili - di finanziare comunitariamente la conversione dell’auto tedesca all’elettrico, come va giudicata? Politica che cambia l’economia? Diktat economico che sconvolge la politica imponendo costi sociali (deindustrializzazione) a molti Paesi tra cui l’Italia?Sarebbe interessante l’interpretazione di Romano Prodi su queste dinamiche. Anche e soprattutto perché sono stati i principali fautori dell’integrazione europea, da Altiero Spinelli in giù, a ripetere per anni che i vincoli economici, specie quelli dolorosi, sarebbero stati la necessaria medicina per il salto di qualità politico e riformatore che quegli zucconi di elettori non erano in grado di deglutire consapevolmente per il loro bene. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti», spiegava Mario Monti poco più di dieci anni fa. Chi subordinava chi, tra politica ed economia, in quel caso? La domanda si potrebbe utilmente allargare al Patto di stabilità, alla logica del Pnrr, al sommo ricatto del cosiddetto Stato di diritto con cui la Commissione può arbitrariamente sottrarre fondi a Paesi «disobbedienti». «L’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per queste crisi», scriveva Jean Monnet. Ora che questa somma non dà un totale gradevole, dire che Trump usa i dazi come minaccia rischia quasi di sembrare un incoraggiamento.
Ecco #DimmiLaVerità del 16 ottobre 2025. Ospite il deputato della Lega Davide Bergamini. L'argomento del giorno è: "La follia europea dei tagli all'agricoltura e le azioni messe in campo per scongiurarli".