Calci e pugni da 20 della Fiom: in ospedale 2 sindacalisti Uil. Nessuna condanna di Landini
«Erano una ventina e una buona parte di loro indossava la felpa della Fiom. Ci hanno rincorso per circa un chilometro colpendoci con calci e pugni anche in testa. Alla fine io e il mio collega (il segretario organizzativo Claudio Cabras ndr) abbiamo avuto la peggio mentre gli altri tre amici sindacalisti se la sono cavata». Risponde così, con una voce mista tra lo spavento e l’incredulità, il segretario generale della Uilm Luigi Pinasco. Lo contattiamo verso ora di pranzo, quando il caso Genova sta deflagrando. È ancora al Pronto Soccorso, sarà dimesso nel pomeriggio con dieci giorni di prognosi, mentre per Cabras proseguono gli accertamenti perché si temono complicazioni alla gamba. Al primo sono toccate le botte sul capo, al secondo i calci sul resto del corpo. Dieci minuti di puro terrore che Pinasco non sa spiegarsi.
«Guardi, i rapporti sul territorio non sono idilliaci da un po’ e sicuramente la divisione sullo sciopero dei metalmeccanici di giovedì non li ha rasserenati, ma da qui a ipotizzare un episodio di violenza come questo ce ne passa. Eravamo arrivati in assemblea per discutere anche animatamente su come proseguire nella protesta per l’ex Ilva e ci avevano avvertito dall’interno che ad alcuni dei nostri era stato chiesto di levarsi la felpa della Uil. Una chiara provocazione, ma non avremmo mai immaginato che la situazione potesse degenerare fino a questo punto».
E invece la situazione è degenerata eccome. Immediata la presa di posizione Pierpaolo Bombardieri. «Quello della Fiom», sottolinea il numero uno della Uil, «è un attacco squadristico, avanti di questo passo si rischia di rasentare il terrorismo. Esprimo la mia vicinanza e solidarietà ai delegati della Uilm che sono stati aggrediti a Genova. Ci possono essere posizione diverse, ma le aggressioni non sono mai giustificabili. La stessa ferma condanna ce l’aspettiamo dalla Cgil e dalla Fiom». E invece. Nulla o poco più. Perché il segretario della Cgil, Maurizio Landini, che proprio dalla Fiom arriva, minimizza: «Non c’è stato nessun atto di terrorismo come è stato dichiarato, anzi, ci andrei piano con questi termini perché siamo nell’azienda ex Ilva che era l’azienda di Guido Rossa, ucciso dalle brigate rosse e iscritto alla Fiom». Quindi? Cosa sarebbe successo? «C’è stata, certo, una tensione sindacale perché siamo in una vertenza delicata che ha visto proclamazioni di scioperi della Fiom, della Fim e di Usb, non della Uilm», continua Landini come fosse una colpa, «il punto oggi è la lotta che i lavoratori hanno messo in campo per chiedere che venga ritirato il piano che rischia di portare alla chiusura». Considerando che si tratta di un leader che si dice convintamente contro il riarmo e che non ha perso occasione per partecipare a cortei e manifestazione per la pace, siamo davvero lontani da minimo sindacale. E parlare di «tensioni» davanti a calci e pugni al capo suona di tanto di presa in giro.
Tant’è che nel pomeriggio la Uil convocherà una conferenza stampa per mettere i puntini sulle i. «Davanti ai cancelli dell’ex Ilva a Genova Cornigliano, stamani (ieri mattina ndr) è successo un fatto di una gravità estrema», denuncia il segretario ligure Riccardo Serri, «un attacco squadrista a cinque sindacalisti della Uilm da parte di un gruppo di quindici-venti persone con le felpe della Fiom...». Gli aggressori? «Si tratta», continua, «di militanti di Lotta Comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom. I nostri», spiega, «sono stati inseguiti e presi a calci e pugni in testa e nel corpo buttandoli a terra, una violenza gravissima che dev’essere condannata, ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno un segno di solidarietà da parte della Cgil, anzi abbiamo visto le dichiarazioni di Landini e De Palma (Fiom ndr) che non condannano ma sostengono che i nostri iscritti non dovevano presentarsi all’ingresso dell’ex Ilva. C’è una responsabilità fisica perché c’è chi li ha picchiati, ma c’è anche una responsabilità morale di chi continua a non condannare l’aggressione. Se non c’è una condanna vuol dire che c’è una strategia dietro come noi pensiamo, una strategia di essere i primi, di predominare, di fare solo confusione, una strategia della violenza che non paga mai».
Parole pesantissime (il coordinatore regionale Uilm Antonio Apa ha annunciato denuncia nelle prossime ore) dietro alle quali si nasconde anche un rapporto assai ondivago tra i due sindacati. Prima a livello aziendale e territoriale e poi sul piano nazionale. Non è un mistero che a Genova la gestione della Fiom sia fuori controllo. Con i militanti di Lotta Comunista che fanno il bello e il cattivo tempo. Così come bisogna tener presente che la Uilm nel sito di Taranto dell’ex Ilva è ampiamente il primo sindacato. Uno smacco che la Cgil fa fatica a digerire.
E pensare che fino a qualche mese fa Landini e Bombardieri erano una sorta di coppia di fatto. Scioperavano insieme, battagliavano uniti contro il rinnovo del contratto degli statali e non perdevano occasione per attaccare il governo. Poi il segretario della Uil è rinsavito e i due hanno annunciato una pausa di riflessione. Che fatti alla mano somiglia più a una versione triste della «guerra dei Roses».
Già 16.000 candidati per lavorare al Ponte, ma l’opera è ferma per lo stop dei giudici
«Vorrei mettere per un attimo le polemiche da parte e soffermarmi su una dato che più di ogni altro evidenzia l’impatto e “il peso” del Ponte sullo Stretto per il Paese. Il 27 ottobre, quindi circa un mese fa, Eurolink-Webuild, il contraente generale, ha aperto le selezioni per assumere personale legato alla realizzazione dell’opera. In pochissime settimane sono arrivate 16.000 candidature. Parliamo di operai specializzati, assistenti di cantiere e ingegneri con esperienza e alle prime armi, ma anche di buyer, ispettori e responsabili It. Non più posti di lavoro potenziali, ma persone in carne e ossa che se la costruzione dell’opera fosse avviata starebbero già lavorando. Per questo continuiamo ad adoperarci con più forza di prima per dare risposte adeguate alle domande che ci sono state rivolte, in piena collaborazione con l’Europa, la Corte dei Conti e le authority coinvolte». Così Pietro Ciucci, amministratore delegato di Stretto di Messina Spa, la società pubblica che deve realizzare l’opera, rivela alla Verità i numeri sulla corsa al lavoro che coinvolge migliaia di giovani del Sud Italia e non solo.
Sono giornate frenetiche perché sul Ponte è caduta la tegola dello stop dei magistrati contabili che nelle motivazioni al mancato via libera parlano soprattutto di contrasto rispetto ad alcune direttive europee. Ciucci non ha nessuna intenzione di replicare alle contestazioni ma a proposito di Ue ci tiene a precisare che «il Consiglio europeo ha confermato il Ponte sullo Stretto di Messina quale opera fondamentale del corridoio “Scandinavo-mediterraneo” ribadendone il ruolo strategico ai fini del completamento del principale asse Sud-Nord a livello europeo. Ad oggi su questo corridoio insistono solo tre discontinuità: il tunnel del Fehmarn Belt tra Germania e Danimarca che dovrebbe essere completato nel 2029; il Tunnel del Brennero tra Austria e Italia che sarà completato nel 2032 e il Ponte sullo Stretto di Messina».
Sul quale a oggi nonostante l’ottimismo dei diretti interessati restano punti di domanda. «Unire le due coste dello Stretto è un desiderio millenario e nonostante le difficoltà che sempre intervengono in progetti complessi come il Ponte siamo impegnati nel realizzarlo nel massimo rispetto di tempi, costi e della qualità», sottolinea il manager ex Anas e Autostrade.
E a proposito di polemiche. Il Mit evidenzia che non c’è stata nessuna commissariamento nella gestione del dossier che secondo quanto riportava Il Fatto Quotidiano sarebbe stato affidato al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, con il dipartimento Affari giuridici di Palazzo Chigi. «Il Ponte sullo Stretto di Messina», spiegano dal ministero alla Verità, «richiede le competenze di diverse amministrazioni e naturalmente della presidenza del consiglio. Quindi non c’è stato alcun commissariamento o dimezzamento del ruolo del Mit per l’iter approvativo. Al contrario abbiamo deciso, nel pieno rispetto dei diversi ruoli, un rafforzamento delle autorità coinvolte per consolidare il dialogo già attivo con l’Europa».
Non solo. Perché viene chiarito che l’unione di intenti e di sforzi è necessario per ottenere il placet della Corte dei Conti. Come? Su molti aspetti evidenziati dai magistrati contabili i tecnici del ministero sono solertemente al lavoro. In riferimento alla violazione della direttiva Ue Habitat (sulle aree protette), per esempio. Il Mit evidenzia che «l’Unione si era già espressa lo scorso ottobre, per tramite della commissaria Ue all’Ambiente Jessika Roswall, dichiarando la conformità del progetto alla direttiva e alle norme ambientali comunitarie». La contestazione poi si estende alla direttiva europea sugli appalti: secondo la Corte il rapporto contrattuale originario del progetto del Ponte ha subito mutamenti «sostanziali» tali da richiedere una nuova procedura. E sul punto il ministero chiarisce che le ragioni di ministero e contraente «saranno ulteriormente argomentati per spiegare il mancato superamento della soglia del 50% del contratto aggiornato».
«Il Ponte si farà», rassicurava anche ieri in audizione il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, rispondendo alle critiche di Angelo Bonelli (Avs) e Sergio Costa (M5s) che chiedevano conto della legittimità della delibera Cipess bocciata dalla Corte. Rivelando poi che in caso di blocco dei lavori, la penale a carico dello Stato sarà del 4% dell’importo non eseguito, esattamente la metà rispetto all’8% previsto dal codice degli appalti. «Capriccio personale? Al contrario», ha spiegato il leader della Lega, «è un’opera che serve all’Italia, perché porterà sviluppo, lavoro e meno inquinamento».
Perché Stellantis dovrebbe spendere tempo e risorse per sviluppare modelli full electric, quando ha a disposizione le vetture a batteria di Leapmotor che per costi e tecnologia sono le «migliori» in circolazione? La domanda circola da tempo negli ambienti più vicini alle cose della casa automobilistica italo-francese ed è diventata ancor più pertinente dopo il susseguirsi dei dati poco lusinghieri per le e-car in Italia.
Se si escludono gli incentivi (a novembre la quota di mercato è balzata al 12,2% rispetto al 5% del mese di ottobre e al 5,2% di novembre 2024) i numeri delle elettriche sul nostro territorio fanno segnare crescite irrisorie. Percentuali che non si avvicinano neanche lontanamente a quelle messe in preventivo negli sgangherati piani industriali impostati dal presidente John Elkann (all’epoca grande sostenitore delle e-car) e dall’ex amministratore delegato Carlos Tavares. La coppia poi scoppiata che aveva intrapreso con eccesso di ottimismo il lungo viaggio verso la transizione ecologica dell’automotive.
Oggi i conti non tornano ed è normale che la tentazione sia quella di recuperare margini di guadagno usando la partnership strategica con una delle case cinesi emergenti, Leapmotor, per produrre vetture a basso costo sulle quali «appiccicare» altri marchi del gruppo. Si era parlato di Opel certo, ma nelle ultime settimane si sono sovrapposte voci tra Europa e Cina che vedono l’altro grande indiziato nel marchio Fiat.
Per ora non ci sono conferme ufficiali, ma unendo i puntini si possono fare dei ragionamenti. Da tempo, Antonio Filosa, il successore di Tavares alla guida della casa italo-francese, ha chiarito che il gruppo nato a Hangzhou avrà a disposizione degli spazi autonomi in uno degli stabilimenti spagnoli di Stellantis per costruire le proprie auto. Tutti gli indizi portano a Saragozza. Qui la joint venture con i cinesi troverebbe il supporto del governo iberico che sostiene l’iniziativa attraverso i programmi strategici per la transizione ecologica, i cosiddetti Perte che mobilitano i milioni dei fondi europei. Ma non solo. Perché Leapmotor godrebbe anche di un costo dell’energia decisamente più basso rispetto alla media europea e alle spese che dovrebbe affrontare in Italia. E avrebbe a pochi passi la nuova gigafactory nata dalla collaborazione della stessa Stellantis con un altro colosso cinese del settore: Catl. Giagafactory, sia detto per inciso, che prenderà il posto di quella pensata in Italia, a Termoli. Suona come una beffa. E in effetti lo è.
Quali modelli verrebbero prodotti sul territorio spagnolo? L’attenzione si è immediatamente spostata verso la B10. A metà ottobre il quotidiano francese Les Echos aveva parlato di un progetto Stellantis per proporre sul mercato un nuovo Suv a marchio Opel partendo dalla Leapmotor B10. Vantaggi? Da una parte la casa asiatica riuscirebbe a evitare dazi presenti o a venire che finirebbero per erodere il vantaggio competitivo delle vetture prodotte in Cina. E dall’altro l’alleato europeo potrebbe mettere sul mercato veicoli elettrici con una tecnologia sempre più innovativa a un costo decisamente inferiore rispetto alla media. Per la B10 si è parlato di un prezzo al di sotto dei 30.000.
La convenienza è evidente, al punto che sono subito rimbalzate voci su altri marchi Stellantis coinvolti. Fiat in primis. Le ultime indiscrezioni portano alla nuova compatta elettrica, la Lafa 5 che in Europa prenderà il nome di B05.
Prezzo? In Cina, a seconda dei diversi allestimenti si parte dai 12.000 e si arriva fino ai 15.000 euro. Gli addetti ai lavori parlano di una vetture con standard qualitativi molto elevati, ricarica rapida, design all’avanguardia e grande manegevolezza. Insomma, se un’auto del genere sbarca in Italia con il marchio Fiat per i competitor saranno dolori. E non solo. Perché sarebbero dolori anche per tutti le piccole e medie imprese che riforniscono l’automotive di casa nostra e che vivono ancora nella speranza che le promesse degli Elkann di tenere l’Italia centrale vengano mantenute.
Del resto che Fiat avesse l’esigenza di colmare un vuoto tra le citycar elettriche e i segmenti di alta gamma era abbastanza noto. L’auspicio è che decidesse di farlo puntando su produzioni a Mirafiori, Melfi Cassino o Pomigliano che garantissero una boccata d’ossigeno a lavoratori e fornitori locali. Se invece ci si affida a un gruppo cinese che userà l’indotto spagnolo l’Italia non potrà che andare a sbattere.





