- Polemiche per la norma (saltata) che toglieva alle aziende l’obbligo di pagare gli arretrati ai dipendenti che fanno ricorso per i salari troppo bassi. Ma quelle buste paga erano frutto di tanti accordi siglati dalla Cgil.
- Infrastrutture, arrivano 20 miliardi. Il Cipess approva il fabbisogno per il prossimo anno. Intanto il Senato dà il via libera alla manovra. Giorgetti: «Abbiamo fatto interventi che sembravano impossibili».
Lo speciale contiene due articoli.
Altro che Irpef, pensioni e riserve auree della Banca d’Italia: il titolo dell’ultimo giorno di fibrillazione della manovra (il voto al Senato di ieri era scontato) va di diritto ai salari. O meglio alla questione salariale che la sinistra ha provato a montare in tutti i modi facendo leva su quella che per tutti è diventata la norma «Pogliese», dal nome del senatore di Fratelli d’Italia che l’aveva già presentata circa 6 mesi fa nel decreto Ilva e che tra domenica e lunedì è stata inserita nella legge di bilancio (presentata dal senatore Fdi Matteo Gelmetti).
Proviamo a spiegarla. Il provvedimento (che poi è stato ritirato su pressioni del Colle) riguarda le vertenze giudiziarie promosse dai lavoratori che ritengono di non ricevere un trattamento economico conforme all’articolo 36 della Costituzione. La «Carta» sancisce il diritto a «una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro [...] che assicuri un’esistenza libera e dignitosa». Insomma, può succedere che i dipendenti di un’azienda privata che applica un contratto collettivo nazionale ricevano un salario che i giudici ritengono non sufficiente a garantire una vita dignitosa. In questo caso, secondo la norma che era entrata in Finanziaria, il datore di lavoro deve adeguare le buste paga ma non è tenuto a versare gli arretrati per il periodo precedente al deposito del ricorso, sempre che abbia applicato lo standard retributivo previsto dal «contratto nazionale stipulato da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Vuol dire quindi che non sono ricompresi i cosiddetti «contratti pirata», cioè i contratti firmati da sigle poco rappresentative e che spesso e volentieri prevedono buste paga molto al di sotto della media.
Difficile indicare il perimetro potenziale del provvedimento. Ma il caso di scuola riportato alla cronaca è quello del famoso contratto dei vigilantes, che prevede una paga inferiore ai 5 euro all’ora. Intesa firmata (poi è stata a forza rinnovata e migliorata) dai principali sindacati compresa la Cgil.
Paradossale, insomma. La sinistra e la sua sigla di riferimento (ma i ruoli sono tranquillamente intercambiabili) vanno all’attacco dell’esecutivo per una norma che mira a regolamentare un vulnus che loro stesse hanno creato. «Non ci sono più parole per descrivere questa manovra», si era immediatamente indignata la Schlein, «dopo aver aumentato l’età pensionabile per il 96% dei lavoratori, adesso attaccano la magistratura che impone il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione. Ovvero che il salario di chi lavora deve essere equo e dignitoso». «L’emendamento Pogliese», ha continuato il segretario dem, «è un vero e proprio colpo di mano: i datori di lavoro che non hanno corrisposto un salario equo ai lavoratori non saranno obbligati a pagare gli arretrati come molte sentenze dei giudici hanno determinato». E non è stata tenera neanche Maria Grazia Gabrielli, segretaria confederale della Cgil.
«Si tratta», ha scandito la dirigente rossa, «di un nuovo e grave attacco ai diritti dei lavoratori da parte del governo. Con un emendamento alla legge di Bilancio, senza alcun confronto con le organizzazioni sindacali, si tenta di rendere più difficile la tutela dei salari e il recupero dei crediti retributivi. Zero benefici per i lavoratori, solo attacchi».
Forse Schlein e Gabrielli dovrebbero però parlare con Landini prima di prendersela con il governo. O comunque la sinistra dovrebbe far pace con sé stessa se negli anni ha consentito che venissero siglati diversi accordi ben al di sotto dei 9 euro all’ora. La soglia che i democratici hanno più volte indicato come riferimento per il salario minimo orario.
Detto dei vigilantes, va per esempio ricordato che gli operai agricoli e i florovivaisti (meno di 5.000 persone) hanno firmato un po’ di anni fa un’intesa che prevedeva retribuzioni da circa 7 euro. Un po’ meglio era andata agli impiegati dell’industria del vetro e delle lampade (7,1 euro) e ancora meglio agli addetti delle imprese artigiane di pulizia (126.000 unità) che portavano a casa 8,1 euro l’ora. O ai 313.000 lavoratori delle cooperative del settore socio sanitario (8,8 euro) e ai 182.000 dipendenti del tessile abbigliamento che si sono fermati a quota 8,7 euro.
Un po’ di mesi fa un’analisi della Fondazione studi dei consulenti del lavoro aveva evidenziato che sui 63 contratti collettivi più rappresentativi depositati al Cnel (firmati da Cgil, Cisl e Uil), ben 22 avevano una retribuzione oraria sotto i 9 euro lordi. Chiaro che molti di questi contratti sono stati poi rinnovati a cifre superiori, ma è altrettanto evidente che per anni migliaia di lavoratori hanno ricevuto paghe ridotte all’osso e che quindi ci siano e ci saranno ricorsi.
Prima di prendersela con il governo, che probabilmente in modo maldestro ha cercato di mettere una pezza rispetto alla situazione di incertezza giudiziaria nella quale vengono a trovarsi le aziende, sinistra e Cgil in testa dovrebbero prendersela con loro stesse.
Infrastrutture, arrivano 20 miliardi
La manovra ottiene il via libera dall’aula del Senato con il voto di fiducia (110 sì, 66 no e due astenuti), tra la gazzarra dell’opposizione che ha alzato cartelli rossi con su scritto «Voltafaccia Meloni». Pd, M5s e Avs accusano la presidente del Consiglio di essersi smentita sulle accise, le pensioni e gli investimenti in sanità. Tutto secondo la tradizione di ogni manovra, come ha ricordato il presidente di Palazzo Madama, Ignazio La Russa: «Quando ero all’opposizione anche io preparavo i cartelli contro».
Prima dell’approvazione nell’emiciclo di Palazzo Madama, la commissione Bilancio ha stralciato cinque norme a seguito dei dubbi del Quirinale. Escono dal testo l’esonero per i datori di lavoro dal pagamento degli arretrati ai lavoratori sottopagati in caso di condanna ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione e la riduzione da 3 a 1 anno del divieto di svolgere un ruolo dirigenziale nel privato dopo un incarico apicale nella Pubblica amministrazione nello stesso settore. Niente da fare anche per la misura che prevedeva, viceversa, che fosse possibile, per incarichi commissariali, straordinari o temporanei, derogare dal divieto di ricoprire ruoli nella Pubblica amministrazione, dopo aver avuto incarichi in enti di diritto privato o finanziati dall’amministrazione stessa. Stralciato pure l’articolo che prevedeva la riduzione da 10 a 4 anni dell’anzianità per il collocamento di magistrati fuori ruolo e quello sulla revisione della disciplina del personale Covip. Nel maxi emendamento non è presente anche la misura riguardante lo spoil system per le Authority. «Hanno fatto un approfondimento, quindi si è ritenuto di espungere queste disposizioni, anche per la tenuta costituzionale del provvedimento, per non esporci a censure sul piano costituzionale» ha commentato il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo.
La manovra ora passa alla Camera per il via libera definitivo entro la fine dell’anno. Superate le frizioni tra il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, e il collega dell’Economia, Giancarlo Giorgetti che ha ironizzato sui rapporti con il leader della Lega. «Magari Babbo Natale gli porta un po’ di carbone sotto l’albero». E Salvini: «Non c’è stato nessun gelo, a me interessava non danneggiare i lavoratori allungando l’età pensionabile».
La legge di Bilancio vale ora circa 22 miliardi, da 18,7 miliardi del testo iniziale perché «abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi» ha spiegato Giorgetti, sottolineando che sono state accolte le richieste dei sindacati con la tassazione al 5% degli aumenti contrattuali per i lavoratori dipendenti con redditi bassi e la tassazione all’1% dei salari di produttività. Quanto alle sollecitazioni di Confindustria, il ministro rimarca che «andando a vedere le richieste del presidente Orsini prima della manovra, quadrano perfettamente con il tipo di risposte date dal governo. Complessivamente siamo intervenuti su questioni che sembravano impossibili».
Nel frattempo il Cipess (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) ha approvato il piano previsionale dei fabbisogni finanziari per il 2026 e le proiezioni fino al 2028 nonché il piano strategico annuale del Fondo 295 dedicato alla Simest. Il piano per il 2026 vale 20,5 miliardi con il crocieristico, la difesa e le infrastrutture come settori maggiormente coinvolti. Il Cipess ha anche approvato il piano annuale per i limiti di rischio in materia di sostegni finanziario pubblico all’esportazione, quindi per la Sace, per il 2026.
Non molte settimane fa, eravamo a fine ottobre, Ursula von der Leyen, in uno dei suoi rari slanci di visione strategica, aveva annunciato un piano europeo sulle terre rare. Il presidente della Commissione evidenziava che la liberazione dell’industria dell’Unione dalla dipendenza cinese era ormai la priorità delle priorità e che di conseguenza gli sforzi di tutti i Paesi dovevano convergere in quella direzione. Alla buonora. L’allarme sui materiali sensibili per produrre automotive, difesa e tech, è partito da anni. E il fatto che Pechino potesse vantare su circa un terzo delle riserve mondiali e che fosse parecchio avanti nell’estrazione e lavorazione di Neodimio, Samario, Itrio, Scandio e Gadolinio era risaputo. Insomma, è vero che la Von der Leyen si è svegliata, ma lo ha fatto dopo aver rovinato l’industria dell’automotive europea (tedesca, francese e italiana in primis) con il Green deal e quando ormai metterci una pezza è diventata un’impresa disperata.
Proprio per questo la notizia riportata ieri da alcune agenzie internazionali ha ancor più dell’incredibile. Circa un anno e mezzo fa, eravamo nel giugno del 2024, dopo 36 mesi di esplorazione, la compagnia mineraria norvegese Rare Earths Norway aveva annunciato con grande enfasi la scoperta del maggior giacimento Europeo di terre rare. Evviva. Siamo a meno di 200 chilometri di distanza da Oslo, nel complesso di Fen, vicino al villaggio di Ulefoss.
Giusto per dare qualche riferimento. Si stima che dal nuovo maxi-giacimento potranno essere estratti 8,8 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, quattro volte la quantità potenziale del sito svedese di Kiruna, che vantava il precedente primato. Ricca è la presenza di neodimio e praseodimio, indispensabili per la produzione dei magneti usati soprattutto nei veicoli elettrici e nelle turbine eoliche.
Insomma, le prospettive sono talmente interessanti che i norvegesi hanno subito varato un cronoprogramma che prevede un investimento iniziale di poco inferiore al miliardo che dovrebbe portare risultati tangibili già dal 2030.
Chiaro che al momento non ci sono certezze, ma se le anticipazioni dovessero essere confermate, in Norvegia potrebbe nascere la più importante filiera produttiva di materiali critici d’Europa, capace di soddisfare il 10% dell’intero fabbisogno dell’Unione. Una svolta. Più che per Oslo per tutto il Vecchio continente che sui progetti legati alle terre rare è purtroppo ancora ferma all’anno zero.
Insomma, la scoperta di Ulefoss andrebbe protetta e possibilmente rafforzata. E invece al momento risulta bloccata. Motivo? Il lavoro di estrazione va a «toccare» una sorta di foresta dove sono state individuate 78 specie di animali e vegetali a rischio più o meno grave di estinzione. Coleotteri per esempio, ma non solo. Perché gli ambientalisti evidenziano come il territorio sia ricco di olmi di montagna, frassini e diverse tipologie di di funghi e muschio che vanno assolutamente preservati. Così è arrivato il divieto. Nel più classico degli schemi di contrapposizione tra l’esigenza di preservare l’ambiente e quella di spianare la strada al progresso sono partite le campagne antagoniste.
«Dobbiamo sfruttare la risorsa il più rapidamente possibile per aggirare le catene del valore inquinanti che hanno origine in Cina», ha chiarito Martin Molvaer, consulente di Bellona, Ong norvegese focalizzata sull’ambiente e sulla tecnologia, «il punto però è che non dobbiamo farlo così velocemente da distruggere gran parte della natura nel processo: dobbiamo quindi procedere lentamente».
«Accettiamo il fatto che dovremo sacrificare una parte significativa della nostra natura», ha invece spiegato il primo cittadino Linda Thorstensen, «qui molte persone non lavorano, molte ricevono assistenza sociale o pensioni di invalidità. Quindi abbiamo bisogno di posti e nuove opportunità».
Il punto è che diversi accorgimenti ecosostenibili sono stati già presi. Il progetto è stato denominato «miniera invisibile» proprio perché punta a minimizzare l’impatto ambientale: sono per esempio usate tecniche di estrazione e frantumazione sotterranee e una gran parte dei residui minerari viene reiniettati nel sito. Eppure sembra che non basti mai.
Per capire quale sia la strada da prendere è sufficiente pensare a quello che sarebbe successo se lo stesso giacimento fosse stato rinvenuto nel Wyoming o nella provincia cinese Guangdong. Dubitiamo che ci sarebbe stata la stessa attenzione per i coleotteri o il muschio in via d’estinzione e le misure ecosostenibili adottate nel Vecchio continente non sarebbero state neanche prese in considerazione.
Ora, probabilmente Stati Uniti e Pechino esagerano, ma sicuramente l’Europa fa peggio.
Quella che i commenti a caldo definivano «svolta epocale», si è prima trasformata in un passo in avanti «importante» - a strettissimo giro sminuito come «significativo» -, e poi è diventata l’ennesimo pastrocchio della Commissione europea che peggiora la già drammatica situazione dell’automotive nel Vecchio continente. La rapidissima parabola delle modifiche annunciate da Bruxelles sui veicoli elettrici si è compiuta quando i diretti interessati, cioè le case automobilistiche, hanno svelato il bluff.
Ma agli occhi più attenti che ci fosse qualcosa che non quadrava era apparso subito chiaro. Non tutti avevano infatti notato che la Vda, la potentissima associazione tedesca del settore, aveva subito storto il naso. Alla «Verband der Automobil» che è solita imporre rigidi standard di qualità ai fornitori di Bmw, Mercedesm e Volkswagen, in modo da assicurare il mantenimento delle alte performance che hanno contraddistinto storicamente le automobili prodotte in loco, l’accordo era immediatamente risultato poco credibile.
Vero che la Commissione parla di riduzione del 90% delle emissioni nocive entro il 2035 e apre la porta per il restante 10% ai motori ibridi e termici, ma ponendo una serie di paletti e condizioni che rischiano di aumentare i costi, già impazziti, del mercato.
«In un momento cruciale per l’Europa», ha spiegato la numero uno della Vda Hildegard Mülleral Financial Times, «l’intero pacchetto proposto da Bruxelles è disastroso. Quella che sembra una maggiore apertura è in realtà una strada piena di ostacoli che rischia di rivelarsi inefficace nella pratica».
A cosa fa riferimento? Per esempio all’obbligo di usare l’acciaio verde, oppure all’imposizione di materiali made in Europe che secondo diversi analisti faranno lievitare i costi delle auto diesel e benzina. Ma non solo.
Perché, forse un po’ a sorpresa, è Stellantis, la casa italo-francese che si era contraddistinta (all’epoca dell’ex ad Carlos Tavares) per una tenace difesa del Green deal, a mostrare le maggiori perplessità. Secondo la ricostruzione di Bloomberg, infatti, il gruppo proprietario dei marchi Jeep, Fiat e Peugeot, ha una posizione netta: le nuove proposte della Commissione sono «inadeguate», non affrontano le sfide della transizione elettrica per i veicoli commerciali leggeri e non prevedono una flessibilità sufficiente per raggiungere gli obiettivi di emissioni nel 2030.
Una bocciatura senza se e senza ma. Bocciatura che è stata confermata dal mercato, all’indomani della presentazione del piano, i titoli di alcuni dei principali produttori interessati hanno perso quota (vedi Stellantis e Volkswagen) mentre l’indice Stoxx Europe 600 Automobiles & Parts ha lasciato sul terreno fino all’1,3%. E da alcuni dei principali analisti, per esempio Ubs. Secondo gli esperti della banca d’investimento svizzera, infatti, la sedicente svolta europea è una delusione. Da una parte per la tempistica. Gli effetti finanziari dei provvedimenti si avranno tra quattro o cinque anni. E poi per le prospettive. Quello che traspare è che Bruxelles, almeno fino a quando resterà questa maggioranza, non è disponibile a fare altre concessioni di sostanza e che la battaglia contro i produttori cinesi che stanno già invadendo il mercato del Vecchio continente può essere considerata persa.
Del resto le trattative sulla stesura delle nuove norme sembra essere stata piuttosto serrata e alla fine chi chiedeva un rinvio più corposo o un taglio degli obiettivi fino al 50% è rimasto deluso.
Tra questi non rientrano i produttori d’auto francesi che hanno invece accolto con meno scetticismo la linea della Commissione, confermando quella che sembra essere diventata una costante dell’Unione Europea. Parigi e Berlino, i due campioni in crisi economica e politica, prima andavano d’accordo su tutto (anzi facevano asse) e adesso fanno fatica a convergere su quasi tutte le partite che contano nell’Ue. Dai rapporti con gli Stati Uniti di Trump e con la Cina di Xi, fino al Mercosur e all’automotive, appunto.
Speranze? Ora la palla passa al Parlamento Ue. Dove si continuerà a negoziare e le posizioni per ora sotterranee diventeranno ufficiali. Molti Stati sperano di spuntare altre concessioni sul trattamento di favore per i veicoli ibridi plug-in e su alcune paletti che oggettivamente sembrano eccessivi. Ma, ammesso che la loro linea riesca a passare, saremo pur sempre di fronte a palliativi, probabilmente solo di facciata, che non affrontano la sostanza del problema. Fino a quando resteranno obblighi che il mercato rigetta, è impossibile pensare a una svolta dell’industria dell’auto in Europa.





