Le 2.452 tonnellate sono detenute dalla Banca d’Italia, che però ovviamente non le possiede: le gestisce per conto del popolo. La Bce ora si oppone al fatto che ciò venga specificato nel testo della manovra. Che attende l’ultima formulazione del Mef.
La Bce entra a gamba tesa sul tema delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia. Non bastava la fredda nota a ridosso della presentazione dell’emendamento di Fratelli d’Italia alla manovra. Nonostante la riformulazione del testo in una chiave più «diplomatica», che avrebbe dovuto soddisfare le perplessità di Francoforte, ecco che martedì sera la Banca centrale europea ha inviato un parere al ministero dell’Economia in cui chiede in modo esplicito di chiarire la finalità dell’emendamento. Come dire: non ci fidiamo, che state tramando? Fateci sapere.
Ma anche: quell’oro ci interessa eccome e non può uscire dal nostro perimetro di influenza. La nota della Bce è incisiva: «Non è chiaro quale sia la concreta finalità della proposta di disposizione. Per questo motivo, e in assenza di spiegazioni in merito, le Autorità italiane sono invitate a riconsiderarla, anche al fine di preservare l’esercizio indipendente dei compiti fondamentali connessi al Sebc della Banca d’Italia ai sensi del Trattato». Eppure l’emendamento di Fdi - primo firmatario il capogruppo in Senato, Lucio Malan - nella versione riformulata è sufficientemente cauto. Stabilisce che «le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano», togliendo la frase «incriminata» ovvero che «appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano» indicata nell’emendamento originario.
Ma questo non è bastato. Ieri, il presidente dell’istituto centrale, Christine Lagarde, è intervenuta pesantemente sul tema. Cogliendo l’occasione di un’audizione al Parlamento europeo, a chi le ha chiesto un parere sulle misure allo studio in Italia circa le riserve auree, ha risposto: «È la Banca d’Italia che ha la piena autorità sulle riserve d’oro». E aggiunge: «Non è una questione di poco conto perché l’Italia è il terzo maggiore detentore di oro tra le Banche centrali». Poi chiama in causa i Trattati: «Dicono, molto chiaramente, che le riserve e la loro gestione appartengono alla Banca centrale di ogni Stato. E la Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi banca centrale nazionale, quindi ha il dovere di detenere e gestire tali riserve». E insiste che «dal 2019 il parere della Bce è lo stesso».
Che cosa c’è dietro questo polverone? Il sospetto è che la Bce, possedendo un ammontare di riserve auree pari a 507 tonnellate, inferiore a quelle di Italia (2.452), Germania, Francia e Stati Uniti, vuole in qualche modo avere influenza su quanto detenuto dagli istituti centrali dei Paesi membri. Dalla creazione dell’euro, le banche nazionali sono rimaste proprietarie delle loro riserve, ma la Bce ha voce in capitolo nella loro gestione in quanto ciò deriva dal suo mandato. Questo fa capire la levata di scudi di Francoforte. Va poi ricordato che le banche centrali possono mettere a disposizione dello Stato le riserve, come ha fatto la Francia una quindicina di anni fa.
Per uscire da questo cul de sac, il governo starebbe lavorando a una nuova riformulazione dell’emendamento. «La soluzione migliore sarebbe di riproporre esattamente il mio testo del 2019 perché ha già il parere positivo della Bce», afferma il relatore della legge di Bilancio, Claudio Borghi (Lega), che allude alla proposta di legge da lui presentata sul tema nel 2019 e approvata da Francoforte, di cui era stato sentito il parere. Il senatore esclude che questo passaggio possa allungare i tempi dell’approvazione della legge di Bilancio, con il rischio di andare in esercizio provvisorio, come qualcuno a sinistra ha paventato.
«L’emendamento di Fdi non mette in alcun modo in discussione l’autonomia di Bankitalia e sorprende tanto allarmismo», incalza Francesco Filini di Fratelli d’Italia.
Intanto la maggioranza fissa ben salde le sue «bandierine» per la manovra, in attesa delle ultime riformulazioni e di dare il via al voto degli emendamenti dalla prossima settimana in commissione Bilancio al Senato. Ieri, con l’inammissibilità di 21 nuove proposte di modifica, è stata depennata la proroga di Opzione donna sostenuta da Fdi. Non sono passate le ipotesi di estendere i beneficiari delle detassazioni contrattuali e delle decontribuzioni per le assunzioni stabili al Sud (entrambre di Fdi). Stop anche al progetto della Lega di una flat tax per i giovani, mentre torna in pista la nuova formulazione dell’emendamento della Lega per la vendita della quota italiana del fondo salva Stati Ue, il Mes. Tra i cavalli di battaglia della Lega anche il blocco all’aumento dell’età pensionabile. I leghisti chiedono anche più fondi per la sicurezza nelle strade. In bilico il Piano Casa. In cima alle richieste di Forza Italia, lo stop all’aumento dell’Irap, non solo per le banche ma per tutte le imprese, e lo stop alla tassa sui dividendi e sugli affitti brevi.
Al lavoro anche la sinistra, che annuncia di essere pronta a fare le barricate se i Lep (i Livelli essenziali di prestazione) saranno inseriti nella manovra. «Se vogliono un duro ostruzionismo siamo qui», afferma il capogruppo pd al Senato, Francesco Boccia, minacciando l’esercizio provvisorio: «Non è neanche preoccupante, tanto la manovra è nulla». Quello che nel 2024 suggeriva Marcello Degni, il consigliere della Corte dei Conti che si lagnava per l’occasione persa di far «sbavare di rabbia» il governo mandando il Paese in esercizio provvisorio attraverso l’ostruzionismo. Al Nazareno hanno imparato la lezione.
Mario Draghi torna a sferzare l’Europa. Da quando non indossa più i panni del premier, non perde occasione per mettere in evidenza le fragilità di un’istituzione che da Palazzo Chigi magnificava in modo incondizionato. Al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini aveva parlato di una Ue «marginale e spettatrice» che «ha perso l’illusione di essere protagonista della scena internazionale» e delle necessità di «riformare la sua organizzazione politica». Ieri, con toni non meno polemici, intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano, si è rivolto ai giovani parlando di nuove tecnologie. Sulle quali, attacca l’ex premier, l’Europa è indietro. La prospettiva è «un futuro di stagnazione se non sarà colmato il divario che ci separa da altri Paesi, nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale».
Draghi indica ancora una volta la strada da seguire. «Le economie avanzate non possono basarsi solo sul lavoro e il capitale per la prosperità, ma le tecnologie devono diventare più centrali». E per tecnologie Draghi intende essenzialmente l’Intelligenza artificiale. La posta in gioco, e qui si ricollega a quella «marginalità» indicata al Meeting di Rimini, è di non rimanere indietro e schiacciati, tra le due potenze competitor, Stati Uniti e Cina.
L’analisi di Draghi è impietosa: «Negli ultimi 20 anni», ricorda, «siamo passati dall’essere un continente che accoglieva le nuove tecnologie, riducendo il divario con gli Stati Uniti, a uno che ha progressivamente eretto barriere all’innovazione e alla sua adozione. Nella prima fase della rivoluzione digitale, la crescita della produttività europea è scesa a circa la metà del ritmo statunitense. Ora questo schema si ripete con l’intelligenza artificiale».
Andando nello specifico, dice che «lo scorso anno gli Usa hanno prodotto 40 grandi modelli fondamentali, la Cina 15, la Ue solo 3». Questo divario che si ritrova in numerosi campi dell’innovazione tecnologica va colmato.
La causa di questa arretratezza è ormai nota: l’iper regolamentazione, la mancanza di flessibilità e di velocità decisionale. «L’Europa si è inceppata sulle regole per l’Intelligenza artificiale», accusa. «Una politica efficace richiede adattabilità, di rivedere le ipotesi, di adeguare rapidamente le regole. Abbiamo trattato valutazioni iniziali e provvisorie come se fossero dottrina consolidata inserendole in leggi difficili da modificare. Alcune delle regole ostacolano la fase successiva all’innovazione, soprattutto per le imprese giovani che non dispongono di risorse». Questo spiega la fuga dei cervelli. «Gli europei che vogliono muoversi rapidamente vanno all’estero per costruire e crescere. Due terzi delle startup europee», ha detto Draghi, «si espandono negli Stati Uniti già nella fase di pre-avviamento; cinque anni fa erano un terzo».
Il limite dell’Europa, dice Draghi, è «di aver spesso adottato un approccio improntato alla cautela radicato nel principio di precauzione. Occorre agilità e saper riconoscere quando la regolamentazione è stata resa obsoleta dagli sviluppi della tecnologia e modificarla rapidamente».
Ai giovani, Draghi non dice di non partire. «C’è un debito di gratitudine verso chi ha investito in voi ma ripagare questo debito», avverte, «non significa che dobbiate rimanere in Italia o in Europa. La tecnologia è globale e il talento va dove ha le migliori opportunità, ma non rinunciate a costruire qui. Pretendete di avere le stesse condizioni che permettono ai vostri coetanei di avere successo in altre parti del mondo».
Fratelli d’Italia non molla sul tema delle riserve auree della Banca d’Italia e riformula l’emendamento alla manovra che era stato bocciato. Un fascicolo che rimette insieme i segnalati dai gruppi, infatti, contiene il riferimento al fatto che «le riserve appartengono allo Stato». Il nuovo emendamento prevede una interpretazione autentica dell'articolo riguardante la gestione delle riserve auree del testo unico delle norme di legge in materia valutaria che, si legge, «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d'Italia appartengono al Popolo Italiano». Sparisce il riferimento al trasferimento della proprietà allo Stato.
Il senatore della Lega e rettore della legge di Bilancio, Claudio Borghi, aveva già detto a La Verità che qualora FdI avesse ritirato l’emendamento, lui avrebbe riproposto la sua proposta di legge del 2019 che, aveva sottolineato, «è stata esaminata anche dalla Bce che non ha avuto alcuna osservazione contraria». Dichiarazioni puntuali che lasciano cadere le critiche di non aver consultato la Banca centrale europea e che questa sarebbe fredda sulla proposta.
Un pressing del leghista che deve aver sortito il suo effetto tant’è che FdI ha riformulato il testo inserendolo tra le proposte segnalate, cioè prioritarie. «Di modifica in modifica il fondamentale emendamento si sta avvicinando alla giusta formula», ha commentato Borghi.
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto che il lavoro sulla manovra è «alla volata finale. Se riusciamo a quadrare il cerchio, si aprono spiragli per dare un sostegno all’educazione dei figli, ad esempio con un intervento sulle scuole paritarie. Un’altra soluzione è un finanziamento alle scuole per acquistare i testi da dare in prestito agli studenti». Giorgetti ha ribadito che «la strada seguita in questi tre anni è di una riduzione della pressione fiscale, partendo negli anni scorsi, dal taglio, mai avvenuto in precedenza, del costo del lavoro e permettendo ai redditi inferiori di recuperare il potere d'acquisto. Una volta soddisfatto questo requisito, siamo passati al ceto cosiddetto medio».
A favore delle famiglie con Isee entro 30.000 euro e figli che frequentano scuole paritarie di primo grado o il biennio di secondo grado, Forza Italia e Noi Moderati hanno presentato emendamenti che prevedono un contributo fino a 1.500 euro per studente a partire dal 2026. C’è poi il «buono scuola» cumulabile con i contributi regionali fino a un massimo di 5.000 euro per famiglia. La proposta si affianca a una richiesta di maggiorazione di 20 milioni agli stanziamenti per le scuole non statali, già oggetto di dibattito nella maggioranza.
Tra gli emendamento segnalati da FdI, spunta la stretta sull’apertura di una partita Iva per chi ha debiti con l’Erario di oltre 50.000 euro. In questo caso si può chiedere una partita Iva solo «previo rilascio di apposta garanzia corrispondente all’importo».
Non dovrebbero esserci cambiamenti per la cedolare secca sugli affitti turistici. Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha detto che «sarà mantenuta l’aliquota del 21% per la prima casa e del 26% per la seconda. Per più immobili, siamo nell’ambito del reddito d’impresa».
In settimana il governo e la maggioranza saranno impegnati sulle coperture, dopo aver trovato la quadra su alcune misure chiave, e tenendo conto che i saldi della legge di bilancio dovranno rimanere invariati come continua a ripetere il ministro Giorgetti che anche ieri ha ricordato come sia a portata di mano l’obiettivo di far scendere il deficit al 3% del pil anticipando di un anno l’uscita dalla procedura d’infrazione e che «è stato riportato il bilancio in avanzo primario che significa che ora l’Italia fa deficit solo per gli interessi che paga sul debito».
Ma questo rende molto risicati gli spazi per l’inserimento degli emendamenti con nuove spese. Per finanziare le proposte di modifica presentate dalla maggioranza in Commissione Bilancio serve circa 1 miliardo, pertanto solo alcune richieste saranno soddisfatte. Si lavora a un ritocco al rialzo dell’Irap per banche ed assicurazioni, uno 0,5% aggiuntivo con una franchigia a 90.000 euro per tutelare gli istituti di credito e le imprese più piccole. Una modifica che consentirebbe di raccogliere altri 200-300 milioni. Si starebbe vagliando anche la possibilità di una sanatoria per le assicurazioni sull’adeguamento dell’imposta per danni al conducente. Verifiche in corso anche per eliminare l’aumento del 2% dell’Irap per le holding non finanziarie. Tutte ipotesi che sono state discusse nel corso di una serie di incontri, nei giorni scorsi, a Palazzo Chigi con i rappresentanti di Abi, Ania e Confindustria. Il voto degli emendamenti in Commissione a Palazzo Madama dovrebbe partire dopo l’8 dicembre, con la possibilità dunque che l’approdo del testo in Aula slitti di qualche giorno rispetto alla data ipotizzata del 15.





