- Stellantis dirotterà Oltreoceano 13 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Per gli Stati Uniti significherà 5.000 posti di lavoro in più e aumento del 50% nella produzione di veicoli. Intanto l’Europa è sempre più marginale nei piani del gruppo.
- Che la Cgil avversi il governo è lecito, non lo è abbandonare i lavoratori per ideologia.
Lo speciale contiene due articoli.
Estate del 2024. Alla Casa Bianca c’era ancora Joe Biden e a dirigere il traffico in Stellantis ci pensava Carlos Tavares. In pieno crollo di vendite globali, nelle mani dell’ad portoghese scoppiò la grana americana. L’Uaw (il sindacato dei metalmeccanici Usa), come fosse una Fiom qualsiasi, iniziò a minacciare scioperi e azioni legali. Motivo? La multinazionale franco-italiana non stava rispettando i patti su investimenti, produzione e posti di lavoro. La situazione era diventata pesante anche perché rispetto al disastro europeo, l’America non era un’isola felice ma dava qualche margine di respiro ai bilanci aziendali. E perché a un certo punto si era messo di mezzo pure il Congresso con due lettere indirizzate ai vertici della casa nata dalla fusione tra Fca e Peugeot.
Il senso delle missive era abbastanza esplicito: l’azienda in America sta facendo profitti, l’amministratore delegato si porta a casa poco meno di 40 milioni di euro (parliamo degli incassi di Tavares nel 2023) eppure viene meno alle promesse sugli stabilimenti. Cambi registro o perderà i finanziamenti.
Sarà passato poco più di un anno eppure pare un secolo. A guidare Stellantis non c’è più Tavares, ma un Marchionne boy, Antonio Filosa, e soprattutto alla Casa Bianca il tornando Trump ha preso il posto del soporifero «Sleepy» Joe Biden con la politica dei dazi e del pressing sulle multinazionali perché incrementino le produzioni negli Stati uniti che è diventata la cifra economica del secondo mandato del tycoon. E pure i rapporti tra Stellantis e l’America si sono ribaltati. John Elkann tra fine marzo e inizi aprile è andato a far visita al nuovo inquilino della Casa Bianca dispensando al presidente rassicurazioni sul futuro del gruppo in un mercato che gli garantisce consegne per circa 1,4 milioni di veicoli, un fatturato annuo di circa 63,5 miliardi di euro, e l’impiego di 75.000 dipendenti.
Per il passaggio dalle parole ai fatti abbiamo dovuto attendere qualche mese, non di più. Qualche ora fa, i nuovi vertici della multinazionale franco-italiana hanno reso noto quello che «gli spifferi» del settore facevano intuire da giorni: l’intenzione di Stellantis di investire 13 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni negli Stati Uniti, con l’obiettivo di incrementare le proprie operazioni e aumentare gli impianti produttivi.
Grazie al nuovo piano, Antonio Filosa, che è entrato a far parte del gruppo Fiat nel 1999 e ha guidato Stellantis in Nord e Sud America, sposta radicalmente l’asse della quarta casa di automotive al mondo sul mercato americano.
Lo dicono i numeri. Con questa mossa la produzione di veicoli aumenterà del 50% e verranno creati più di 5.000 posti di lavoro. Il tutto per portare nelle concessionarie cinque nuovi veicoli, tra cui un Dodge Durango a Detroit e un camion di medie dimensioni a Toledo (Ohio). Mentre i nuovi posti di lavoro saranno distribuiti negli stabilimenti in Illinois, Michigan, Indiana e nello stesso Ohio. Del resto, visto l’andazzo della situazione geopolitica la nuova strategia era diventata quasi obbligata con i costi delle tariffe sulle auto prodotte in Canada e Messico che minano la redditività del gruppo.
Insomma, ha stravinto l’effetto dazi di Trump. Mentre l’Europa ne esce con le ossa rotte. «Stellantis», spiega il segretario generale della Fim, Ferdinando Uliano, «deve fare anche negli altri continenti quello che sta facendo negli Usa. Deve investire anche in Europa a partire dall’Italia. Se l’Italia, come l’azienda dice, è una delle tre gambe del gruppo bisogna fare in modo che anche questi viaggi come le altre».
Il problema è che tutti i siti italiani applicano ammortizzatori sociali, che in Italia sono stati bruciati 9.000 posti di lavoro e che nonostante i nuovi modelli, a fine 2025 non si andrà molto oltre i 300.000 veicoli prodotti. Ci sono stabilimenti in crisi nera e c’è una situazione in particolare, quella di Termoli, che rischia di deragliare dopo che la promessa di creare una gigafacotory per le auto elettriche è stata smentita dai fatti.
Un disastro se si pensa che l’obiettivo ripetuto a più riprese è di arrivare all’assemblaggio nel Belpaese di almeno un milione di vetture.
Utopia. Il 20 ottobre Filosa incontrerà i sindacati. E gli toccherà dare qualche rassicurazione. Gli verranno chieste garanzie sulla non chiusura degli stabilimenti e lui le darà, gli verranno chiesti certezze sui nuovi modelli e probabilmente arriveranno e poi si passerà alla necessità di avere investimenti. E lì al massimo potranno esserci delle aperture.
Un film già visto con Tavares che però non si è mai tradotto in realtà. Perché quando si trattato di passare ai fatti, Elkann & C. la fiche da 13 miliardi (poco meno di una Finanziaria di casa nostra) l’hanno messa sugli Stati Uniti mica sull’Europa.
Pensando solamente a fare politica. Landini distrugge l’unità sindacale
Maurizio Landini lascerà sicuramente una eredità pesante a chi verrà dopo di lui. Ormai il segretario Cgil ha intrapreso una strada esclusivamente proiettata sul piano politico in senso stretto, ricorrendo allo strumento dello sciopero generale su questioni prettamente ideologiche. Il risultato ottenuto è stato l’isolamento della sua organizzazione, marcando sempre più la distanza dalle altre organizzazioni sindacali.
Sembrano lontanissimi i tempi nei quali la Cgil e le altre sigle esercitavano una funzione propriamente sindacale, misurandosi sul merito delle questioni che erano oggetto di confronto con i diversi governi. Cisl e Uil hanno continuato ad indossare questo vestito rifuggendo da qualsiasi estremismo e massimalismo, mentre la Cgil con la segreteria Landini è andata in tutt’altra direzione, mostrando sempre più un pregiudizio politico, partitico e ideologico che peraltro non rientra affatto nell'identità storica e nel profilo culturale e sociale della Confederazione di corso d’Italia. Ecco perché, al di là di qualsiasi altra questione, è venuto il momento di dire le cose come stanno: l’attuale segretario Cgil persegue un suo progetto politico e partitico, che esula radicalmente dalle caratteristiche proprie di un grande sindacato confederale. Naturalmente un sindacato può anche non essere d’accordo sulle decisioni che il governo assume, ma quello che appare ai più è che quello della Cgil oggi non è un dissenso sindacale basato sulle questioni di merito degli interessi dei lavoratori, ma una serie di posizioni a priori declinate in tre atteggiamenti: 1 una strutturale criminalizzazione politica dell’attuale coalizione di governo;2 lo smaccato odio politico nei confronti di chi guida l’attuale governo:3 l’adesione acritica a tutto ciò che proviene dal campo largo per contrastare l’esecutivo detestato - qualunque sia l’argomento al centro della protesta - e costruire, al contempo l’alternativa politica e progettuale. Anni di pratica sindacale sembrano essere archiviati e la stessa autonomia sindacale è sacrificata alla contrapposizione politica. Quello che forse Landini non mette in conto però, è che se il suo obiettivo è quello di schierare la Cgil in una missione politica, probabilmente saranno gli stessi lavoratori e iscritti ad interrogarsi sull’utilità del sindacato, sulla effettiva volontà e capacita dello stesso di rappresentare i loro interessi materiali e di ricostruire e basi dell’unità sindacale nel nostro Paese. Ma la cosa che stupisce più di ogni altra è il fatto che in quella organizzazione sindacale non si apra un dibattito interno adeguato. Dopo la vicenda referendaria che ha visto la Cgil sconfitta, non si è sentita volare una mosca, non c’è stato nessun approfondimento di merito e un silenzio assordante ha accompagnato il tema in archivio. Le ragioni plausibili di queste «amnesie» di democrazia interna possono essere due: il «sindacato rosso» è blindato, i livelli di democrazia interna sono ai minimi storici, ed è interdetta ai dirigenti sindacali qualsiasi discussione e confronto (peraltro se così fosse ci sarebbe da discutere molto anche sulla qualità di questi dirigenti); si tratta invece di un atteggiamento opportunista degli stessi dirigenti, che attendono solo la scadenza del mandato di Landini per accompagnarlo alla porta. Il problema però è che questo traguardo non è per domani mattina e il cambio di vocazione della Cgil può accentuarsi nel frattempo e porre il sindacato su una china pericolosa.Per questo, in definitiva, si dovrebbe comprendere che l’azione politica della Cgil a trazione Landini è il principale ostacolo per recuperare quell’unità sindacale, che nella storia democratica e costituzionale del nostro Paese è stato uno dei pilastri della qualità stessa della nostra democrazia, e per riconsegnare il sindacato confederale alla sua tradizionale dimensione.
Secondo la narrazione dominante dei media occidentali, la propaganda effettuata tramite la sistematica produzione di falsità sarebbe una caratteristica dei Paesi privi di libertà di espressione, autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi attribuiti secondo le convenienze). Con qualche sfumatura, in quei Paesi domina la censura: alcune cose si possono fare e dire, altre no.
Ma siamo così sicuri di poter scagliare la prima pietra, a tale proposito? A dispetto delle apparenze, anche nelle cosiddette «democrazie liberali» si persegue il medesimo obiettivo di controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza. Cambia solo il mezzo: niente censura o repressione diretta, ma una tecnica molto sofisticata e subdola, che utilizzando ingenti risorse finanziarie, crea notizie dal nulla, mescola bugie e verità, omette fatti e circostanze, mescola passato e futuro.
È quanto sta avvenendo in Europa nel completo silenzio dei cosiddetti «sinceri democratici», pronti a manifestare per le strade di Budapest ma incapaci di vedere cosa succede a Bruxelles. E quello che succede è davvero preoccupante. Dietro la retorica dei «valori europei», l’Unione europea ha messo in piedi una vera e propria macchina di propaganda istituzionale. Una strategia capillare che, con la generica motivazione degli aiuti alla democrazia e allo sviluppo e ben mascherata sotto il nobile scudo della «promozione dei valori democratici» e della «tutela delle minoranze», cela in realtà una gigantesca operazione di marketing politico. Una macchina attraverso la quale fiumi di denaro confluiscono nelle casse di Ong, uffici studi, think tank, tv e giornali, anche italiani. Utilizzati come veri e propri cavalli di Troia, costoro attuano progetti con l’obiettivo di promuovere l’agenda politica di Bruxelles in tutte le sue parti e su ogni argomento, orientando e manipolando le opinioni pubbliche dei Paesi membri.
Sono divenuti, consapevolmente o meno, semplici megafoni, strumenti che la Commissione europea utilizza per distorcere i dibattiti pubblici su questioni politiche chiave, per veicolare una narrazione unilaterale, per promuovere i propri obiettivi politici con l’intento di orientare l’opinione pubblica dei Paesi membri.
In questa operazione di auto-promozione politica di Bruxelles, un ruolo decisivo spetta al Cerv, un progetto avviato nel 2021 dalla Commissione europea, finanziato con centinaia e centinaia di milioni di euro, spalmati su una miriade di progetti capillari, ramificati tra social media, televisioni e mass media tradizionali. Ma non solo: gli strumenti e i fondi del bilancio europeo vengono utilizzati anche come deterrente per mettere a tacere il dissenso e le critiche verso l’Unione europea.
A fare luce su ciò è il rapporto The Eu’s Propaganda Machine (La macchina della propaganda europea), redatto e pubblicato dal ricercatore e saggista Thomas Fazi in collaborazione con il think tank Mcc di Bruxelles, lo scorso febbraio. Un rapporto significativo che ben illustra quella che viene definita un’azione di «propaganda per procura» e «imperialismo culturale».
Viene quasi da sorridere osservando il continuo tentativo di inculcare nella mente dei cittadini europei il timore per il pericolo derivante della minaccia esterna alla nostra democrazia, quando invece appare abbastanza chiaro che il principale agente che minaccia la democrazia in Europa è proprio la Commissione europea, attraverso la manipolazione dell’informazione. Danno collaterale se vogliamo è anche la strumentalizzazione e l’inquinamento della società civile: Ong e think tank, diventando come «cheerleaders» di Bruxelles, vengono presentate come voci indipendenti ma in realtà sono completamente alle dipendenze della Commissione e rappresentano una rete parallela che bypassa gli Stati nazionali, minando la loro stessa sovranità.
L’azione avviene in diversi modi:
1 distorcendo il dibattito pubblico e indebolendo il pluralismo. In questo caso si finanziano solo operazioni che devono narrare la bontà delle politiche europee, mentre le posizioni critiche restano marginali e prive di mezzi;
2 attraverso una sorta di «censura indiretta», ovvero contrastando la narrazione eurocritica, considerando affidabili solo le notizie pro Bruxelles e bollando tutto il resto come «fake news»;
3 interferendo pesantemente negli affari interni di Stati membri governati da forze eurocritiche. È successo in Polonia, in Ungheria così come recentemente in Romania, cercando di influenzare gli equilibri politici interni. Una strategia che mette in discussione la stessa sovranità popolare e democratica all’interno degli Stati membri;
4 finanziando diverse testate giornalistiche, anche in Italia, assicurandosi costantemente una narrativa favorevole alla Commissione europea nei loro titoli di apertura e nei commenti. Questi giornali si prestano al gioco perdendo la loro autonomia e indipendenza.
Ora non è il caso di evocare «i rischi della dittatura della maggioranza» scomodando Alexis de Tocqueville, si tratta però di richiamare l’attenzione politica per porre un freno a questa forma di sharia laica e poco democratica della Commissione europea. Per impedire davvero che questo modo di procedere arrechi seri danni alla democrazia europea.
Intervenendo all’appuntamento di Cernobbio, il presidente della Repubblica ha richiamato con forza il bisogno dell’Unione europea. Non si può che concordare, ma non di questa Unione europea.
- L’Eliseo prova ad allargare la maggioranza pescando tra i partitini. Le Pen e Bardella chiedono «lo scioglimento ultrarapido» del Parlamento. E i sondaggi li premiano.
- Col suo iperattivismo, il presidente prova (inutilmente) a nascondere la sua debolezza.
Lo speciale contiene due articoli.
Il governo di François Bayrou non è ancora caduto, eppure al di là delle Alpi, il premier e il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, hanno già avviato delle consultazioni. Formalmente, non si tratta di incontri come quelli che si tengono nella fase formativa di un governo, ma poco ci manca.
Il capo dello Stato e quello del governo si sono, per così dire, spartiti i ruoli. Il primo ha ricevuto ieri all’Eliseo i leader dei partiti che sostengono l’esecutivo: il macronista Garbiel Attal (Renaissance), l’ex premier Edouard Philippe (Horizons) e il capo dei Républicains (Lr) nonché ministro dell’Interno, Bruno Retailleau. Secondo «fonti concordanti» citate da Le Figaro, Macron avrebbe messo i capi dei partiti di maggioranza davanti alle loro «responsabilità». Parrebbe anche che il capo dello Stato non abbia escluso un tentativo di allargamento della maggioranza all’Assemblea nazionale. Per farlo dovrebbe riuscire ad ottenere delle aperture da qualche deputato del Partito socialista (Ps) e del gruppo misto Liot (Liberali, indipendenti, Oltremare e Territori). Insomma qualcosa che ricorderebbe tanto quei governi e governicchi italiani, tenuti in piedi da qualche «responsabile» o da leader di partiti che rappresentavano percentuali di voti infinitesimali. Bayrou è contrario a tale ipotesi ma, si sa, quando Macron vuole qualcosa, non guarda in faccia a nessuno. Tanto è vero che, ieri a fine pomeriggio, l’agenzia France Presse ha scritto che l’inquilino dell’Eliseo avrebbe «ingiunto» ai leader della maggioranza «di lavorare con i socialisti» ed altri partiti tranne il Rassemblement national (Rn) e l’estrema sinistra de La France Insoumise.
Tornando agli incontri di ieri, oltre ai leader della maggioranza, il premier ha ricevuto anche quelli delle opposizioni. Ad aprire le danze ci hanno pensato Raphaël Glucksmann, numero uno di Place publique, un cespuglio apparentato al Ps che, all’uscita da palazzo Matignon ha dichiarato: «Non firmeremo alcun assegno in bianco» anche perché «l’annuncio del voto (di fiducia, ndr) dell’8 settembre ha rotto la possibilità» di condurre un negoziato. In mattinata poi, Bayrou ha ricevuto Marine Le Pen e Jordan Bardella del Rn. Alla fine della riunione, Bardella ha dichiarato che «non c’è stato un miracolo» e che «l’incontro non farà cambiare idea all’Rn». Il collega di Le Pen ha sottolineato che, nella proposta di bilancio lacrime e sangue fatta dal premier «non è stata trattata la cattiva spesa pubblica» ovvero «il costo esorbitante dell’immigrazione, l’aumento del contributo della Francia al bilancio dell’Unione europea» e «non è stata condotta la lotta alle frodi fiscali e sociali», ovvero quelle che riguardano i numerosi sussidi pubblici distribuiti a pioggia da anni anche a chi non lavora o non ha mai contribuito alla spesa sociale. Marine Le Pen ha invece ribadito l’auspicio del suo partito: quello di uno scioglimento «ultrarapido» dell’Assemblea nazionale. Nel pomeriggio, Bayrou ha incontrato i vertici Lr. Tra questi, Bruno Retailleau ha dichiarato di voler «evitare il caos», il prossimo 8 settembre.
Lo scenario dello scioglimento è quello auspicato anche dall’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, in una lunga intervista concessa a Le Figaro. Secondo lui «non ci sarà altra soluzione alternativa allo scioglimento» anche se Macron, con «la sua naturale inclinazione a prendere tempo», potrebbe «tentare ancora una volta di trovare un primo ministro» ma «questo non può funzionare». Per Sarkozy, il risultato di nuove elezioni legislative anticipate non sarebbe uguale a quello dell’anno scorso. «Sono convinto che la strategia del “fronte repubblicano” (le alleanze di vari partiti tra il primo e il secondo turno delle elezioni, per escludere l’Rn dai ballottaggi, ndr) non funzionerà una seconda volta» ha detto l’ex capo dello Stato. In ogni caso, se anche le sinistre, la destra moderata dei Républicains, i macronisti e i loro alleati dovessero accordarsi tra i due turni, secondo Sarkozy «i francesi non seguiranno coloro che proporranno» queste intese. Secondo un sondaggio Ifop-Le Figaro, se si andasse al voto Rn otterrebbe al primo turno il 32-33%, le sinistre il 25% e i macronisti il 14-15%, in calo di 4-5 punti percentuali.
Nel dibattito sulla crisi politico-istituzionale francese, provocata dallo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale da Macron, offeso per aver perso le Europee del 2024, è intervenuto anche un altro ex presidente: il socialista François Hollande. Sebbene già alla fine del suo mandato la Francia non se la passasse molto bene, Hollande non perde occasione per discettare sul futuro del Paese e dare consigli. Ieri, ad esempio, l’ex leader socialista si è stupito di come Macron «abbia potuto lasciar prendere a Bayrou una tale iniziativa», quella del voto di fiducia.
E mentre Macron, Bayrou e i loro alleati si dimenano per cercare di evitare un aggravamento della crisi che sta attraversando la Francia, dai mercati, ieri è arrivata una nuova batosta. Per la prima volta dal 2011, ieri mattina, il tasso di interesse sul debito francese a 30 anni ha superato il 4,50%.
Ma intanto si prepara la via d’uscita. Nel mirino la poltrona di Ursula?
Molti osservatori si stanno interrogando in merito alle ragioni della iperattività del presidente francese Macron sulla scena europea e internazionale. Per inquadrare lo scenario, basta ricordare il discorso pronunciato da Charles De Gaulle nel 1966, quando il primo presidente della Quinta Repubblica annunciò il ritiro della Francia dal comando unico integrato della Nato. «La volontà della Francia di disporre di sé stessa», affermò De Gaulle, «è incompatibile con una organizzazione di difesa dove il nostro Paese si ritrova in una posizione subordinata». Da quella data Parigi decise di iniziare un proprio programma di difesa, ivi compreso lo sviluppo dell’opzione nucleare, per affermare la propria sovranità.Sulla stessa falsariga, Macron oggi definisce la Nato come una organizzazione in pieno stato di morte celebrale - peraltro non senza qualche ragione - al di là dell’elettroshock di protagonismo dovuto alla vicenda ucraina. Sicuramente le prese di posizione del presidente Trump che chiede all’Europa di destinare più risorse alle spese militari prefigurano uno scenario futuro in cui i Paesi europei si trovino privi di efficaci strumenti di difesa e sicurezza. Ora, dato che la «grandeur» francese è una caratteristica che periodicamente riaffiora, eccola declinata oggi nell’idea che la Francia possa proporsi come perno di una architettura difensiva europea post americana. Per realizzare questo obiettivo Macron ha l’esigenza di individuare un nemico comune per provare a compattare il fronte europeo. Sono da leggere in questo senso le sue forti prese di posizione che indicano la Russia come minaccia esistenziale, la richiesta ad altri partner europei di inviare truppe in Ucraina e infine lo stesso accordo con Kiev per l’insediamento di imprese militari francesi in Ucraina. Va rilevato che questo sentimento anti russo francese ha trovato un seppur cauto favore in diversi Paesi dell’Europa centro orientale, come dimostra il recente trattato firmato tra Parigi e Varsavia che prevede un piano di cooperazione e di mutua difesa, oltre che la facilitazione del transito di truppe sul territorio polacco. Chi guarda con ottimismo questo progetto pensa che questa potrebbe essere la strada per dare finalmente una dimensione all’Europa togliendola dall’irrilevanza attuale. Chi invece non ripone fiducia nell’attivismo macroniano pensa che ciò serva solo a Parigi per ripristinare il rango internazionale della Francia e che «l’uso» dell’Europa sia strumentale, per dirla ancora con De Gaulle, «a riportare la Francia a prima di Waterloo, cioè quando era una potenza mondiale». Il percorso ovviamente non è privo di ostacoli, sia a livello europeo che interno alla politica francese. Il primo è rappresentato dal fatto che, mentre invoca una autonomia strategica e una difesa comune per l’Europa, Macron incappa in una lampante contraddizione perché tale autonomia presuppone avere un soggetto statuale unico, cosa che oggi l’Ue non è, fornito di una politica estera comune, cosa che oggi l’Europa non ha. Gli ostacoli interni vengono invece dalla una situazione economica e sociale francese davvero grave, tanto che il primo ministro ha proposto un «anno bianco» che peserà sui salari dei dipendenti pubblici e sulle pensioni. Di fronte a questo quadro la Francia è in subbuglio e il 18 settembre è stato previsto uno sciopero generale che probabilmente paralizzerà il Paese. Il debole governo Bayrou cerca di giocare d’anticipo, chiedendo la fiducia in Parlamento il prossimo 8 settembre, ma molti prevedono che la possibile caduta del governo avrà molte conseguenze imprevedibili ma una certa: le pesanti ricadute sul ruolo e l’immagine di Macron. L’impressione infatti è che a questa grandezza francese immaginata da Macron non credano più gli stessi francesi.Da qui una ipotesi che in alcuni ambienti parigini comincia a farsi largo, sostenuta da persone vicine al presidente, che gli consigliano il gesto eclatante delle dimissioni. Macron ha sempre categoricamente smentito questa eventualità, ma è difficile dire oggi cosa potrà succedere. Anche perché qualche osservatore malizioso ha cominciato ad avanzare un’altra ipotesi legata a ciò che potrà succedere in Europa nel 2027. In quell’anno si eleggerà in Germania il nuovo presidente della Repubblica federale, posto oggi occupato dal socialdemocratico Steinmeier. Il cancelliere Merz ha ipotizzato che a quella carica potrebbe essere candidata l’attuale presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.Nel 2027 terminerà anche il mandato di Macron: in politica non sempre uno più uno fa due, ma ipotizzare una sua possibile nomina alla carica lasciata da Ursula, con l’avallo tedesco e polacco, non sembra essere fantascienza.





