2025-10-16
La spunta Trump: Elkann investe negli Usa
Stellantis dirotterà Oltreoceano 13 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Per gli Stati Uniti significherà 5.000 posti di lavoro in più e aumento del 50% nella produzione di veicoli. Intanto l’Europa è sempre più marginale nei piani del gruppo.Che la Cgil avversi il governo è lecito, non lo è abbandonare i lavoratori per ideologia.Lo speciale contiene due articoli.Estate del 2024. Alla Casa Bianca c’era ancora Joe Biden e a dirigere il traffico in Stellantis ci pensava Carlos Tavares. In pieno crollo di vendite globali, nelle mani dell’ad portoghese scoppiò la grana americana. L’Uaw (il sindacato dei metalmeccanici Usa), come fosse una Fiom qualsiasi, iniziò a minacciare scioperi e azioni legali. Motivo? La multinazionale franco-italiana non stava rispettando i patti su investimenti, produzione e posti di lavoro. La situazione era diventata pesante anche perché rispetto al disastro europeo, l’America non era un’isola felice ma dava qualche margine di respiro ai bilanci aziendali. E perché a un certo punto si era messo di mezzo pure il Congresso con due lettere indirizzate ai vertici della casa nata dalla fusione tra Fca e Peugeot. Il senso delle missive era abbastanza esplicito: l’azienda in America sta facendo profitti, l’amministratore delegato si porta a casa poco meno di 40 milioni di euro (parliamo degli incassi di Tavares nel 2023) eppure viene meno alle promesse sugli stabilimenti. Cambi registro o perderà i finanziamenti. Sarà passato poco più di un anno eppure pare un secolo. A guidare Stellantis non c’è più Tavares, ma un Marchionne boy, Antonio Filosa, e soprattutto alla Casa Bianca il tornando Trump ha preso il posto del soporifero «Sleepy» Joe Biden con la politica dei dazi e del pressing sulle multinazionali perché incrementino le produzioni negli Stati uniti che è diventata la cifra economica del secondo mandato del tycoon. E pure i rapporti tra Stellantis e l’America si sono ribaltati. John Elkann tra fine marzo e inizi aprile è andato a far visita al nuovo inquilino della Casa Bianca dispensando al presidente rassicurazioni sul futuro del gruppo in un mercato che gli garantisce consegne per circa 1,4 milioni di veicoli, un fatturato annuo di circa 63,5 miliardi di euro, e l’impiego di 75.000 dipendenti.Per il passaggio dalle parole ai fatti abbiamo dovuto attendere qualche mese, non di più. Qualche ora fa, i nuovi vertici della multinazionale franco-italiana hanno reso noto quello che «gli spifferi» del settore facevano intuire da giorni: l’intenzione di Stellantis di investire 13 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni negli Stati Uniti, con l’obiettivo di incrementare le proprie operazioni e aumentare gli impianti produttivi.Grazie al nuovo piano, Antonio Filosa, che è entrato a far parte del gruppo Fiat nel 1999 e ha guidato Stellantis in Nord e Sud America, sposta radicalmente l’asse della quarta casa di automotive al mondo sul mercato americano. Lo dicono i numeri. Con questa mossa la produzione di veicoli aumenterà del 50% e verranno creati più di 5.000 posti di lavoro. Il tutto per portare nelle concessionarie cinque nuovi veicoli, tra cui un Dodge Durango a Detroit e un camion di medie dimensioni a Toledo (Ohio). Mentre i nuovi posti di lavoro saranno distribuiti negli stabilimenti in Illinois, Michigan, Indiana e nello stesso Ohio. Del resto, visto l’andazzo della situazione geopolitica la nuova strategia era diventata quasi obbligata con i costi delle tariffe sulle auto prodotte in Canada e Messico che minano la redditività del gruppo. Insomma, ha stravinto l’effetto dazi di Trump. Mentre l’Europa ne esce con le ossa rotte. «Stellantis», spiega il segretario generale della Fim, Ferdinando Uliano, «deve fare anche negli altri continenti quello che sta facendo negli Usa. Deve investire anche in Europa a partire dall’Italia. Se l’Italia, come l’azienda dice, è una delle tre gambe del gruppo bisogna fare in modo che anche questi viaggi come le altre». Il problema è che tutti i siti italiani applicano ammortizzatori sociali, che in Italia sono stati bruciati 9.000 posti di lavoro e che nonostante i nuovi modelli, a fine 2025 non si andrà molto oltre i 300.000 veicoli prodotti. Ci sono stabilimenti in crisi nera e c’è una situazione in particolare, quella di Termoli, che rischia di deragliare dopo che la promessa di creare una gigafacotory per le auto elettriche è stata smentita dai fatti. Un disastro se si pensa che l’obiettivo ripetuto a più riprese è di arrivare all’assemblaggio nel Belpaese di almeno un milione di vetture. Utopia. Il 20 ottobre Filosa incontrerà i sindacati. E gli toccherà dare qualche rassicurazione. Gli verranno chieste garanzie sulla non chiusura degli stabilimenti e lui le darà, gli verranno chiesti certezze sui nuovi modelli e probabilmente arriveranno e poi si passerà alla necessità di avere investimenti. E lì al massimo potranno esserci delle aperture. Un film già visto con Tavares che però non si è mai tradotto in realtà. Perché quando si trattato di passare ai fatti, Elkann & C. la fiche da 13 miliardi (poco meno di una Finanziaria di casa nostra) l’hanno messa sugli Stati Uniti mica sull’Europa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-elkann-investe-negli-usa-2674203499.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pensando-solamente-a-fare-politica-landini-distrugge-lunita-sindacale" data-post-id="2674203499" data-published-at="1760586871" data-use-pagination="False"> Pensando solamente a fare politica. Landini distrugge l’unità sindacale Maurizio Landini lascerà sicuramente una eredità pesante a chi verrà dopo di lui. Ormai il segretario Cgil ha intrapreso una strada esclusivamente proiettata sul piano politico in senso stretto, ricorrendo allo strumento dello sciopero generale su questioni prettamente ideologiche. Il risultato ottenuto è stato l’isolamento della sua organizzazione, marcando sempre più la distanza dalle altre organizzazioni sindacali.Sembrano lontanissimi i tempi nei quali la Cgil e le altre sigle esercitavano una funzione propriamente sindacale, misurandosi sul merito delle questioni che erano oggetto di confronto con i diversi governi. Cisl e Uil hanno continuato ad indossare questo vestito rifuggendo da qualsiasi estremismo e massimalismo, mentre la Cgil con la segreteria Landini è andata in tutt’altra direzione, mostrando sempre più un pregiudizio politico, partitico e ideologico che peraltro non rientra affatto nell'identità storica e nel profilo culturale e sociale della Confederazione di corso d’Italia. Ecco perché, al di là di qualsiasi altra questione, è venuto il momento di dire le cose come stanno: l’attuale segretario Cgil persegue un suo progetto politico e partitico, che esula radicalmente dalle caratteristiche proprie di un grande sindacato confederale. Naturalmente un sindacato può anche non essere d’accordo sulle decisioni che il governo assume, ma quello che appare ai più è che quello della Cgil oggi non è un dissenso sindacale basato sulle questioni di merito degli interessi dei lavoratori, ma una serie di posizioni a priori declinate in tre atteggiamenti: 1 una strutturale criminalizzazione politica dell’attuale coalizione di governo;2 lo smaccato odio politico nei confronti di chi guida l’attuale governo:3 l’adesione acritica a tutto ciò che proviene dal campo largo per contrastare l’esecutivo detestato - qualunque sia l’argomento al centro della protesta - e costruire, al contempo l’alternativa politica e progettuale. Anni di pratica sindacale sembrano essere archiviati e la stessa autonomia sindacale è sacrificata alla contrapposizione politica. Quello che forse Landini non mette in conto però, è che se il suo obiettivo è quello di schierare la Cgil in una missione politica, probabilmente saranno gli stessi lavoratori e iscritti ad interrogarsi sull’utilità del sindacato, sulla effettiva volontà e capacita dello stesso di rappresentare i loro interessi materiali e di ricostruire e basi dell’unità sindacale nel nostro Paese. Ma la cosa che stupisce più di ogni altra è il fatto che in quella organizzazione sindacale non si apra un dibattito interno adeguato. Dopo la vicenda referendaria che ha visto la Cgil sconfitta, non si è sentita volare una mosca, non c’è stato nessun approfondimento di merito e un silenzio assordante ha accompagnato il tema in archivio. Le ragioni plausibili di queste «amnesie» di democrazia interna possono essere due: il «sindacato rosso» è blindato, i livelli di democrazia interna sono ai minimi storici, ed è interdetta ai dirigenti sindacali qualsiasi discussione e confronto (peraltro se così fosse ci sarebbe da discutere molto anche sulla qualità di questi dirigenti); si tratta invece di un atteggiamento opportunista degli stessi dirigenti, che attendono solo la scadenza del mandato di Landini per accompagnarlo alla porta. Il problema però è che questo traguardo non è per domani mattina e il cambio di vocazione della Cgil può accentuarsi nel frattempo e porre il sindacato su una china pericolosa.Per questo, in definitiva, si dovrebbe comprendere che l’azione politica della Cgil a trazione Landini è il principale ostacolo per recuperare quell’unità sindacale, che nella storia democratica e costituzionale del nostro Paese è stato uno dei pilastri della qualità stessa della nostra democrazia, e per riconsegnare il sindacato confederale alla sua tradizionale dimensione.
Il cpr di Shengjin in Albania (Getty Images)
L'ad di Eni Claudio Descalzi (Ansa)