
Le grandi querce hanno radici profonde. E stanno a cuore a papa Leone XIV, sollecito a richiamarne la centralità anche due giorni fa al Quirinale, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non è un caso che il Santo Padre abbia scelto il palcoscenico istituzionale più rappresentativo per ricordare - in una stagione dominata dal massimalismo e dal nichilismo in politica -, il rapporto fra Vaticano e Italia, «il felice connubio che ha le sue radici nella storia di questa penisola e nella lunga tradizione religiosa e culturale di questo Paese, disseminato da chiese e campanili, scrigni d’arte e di devozione, testimonianza della creatività innata degli italiani e della loro fede genuina e solida».
Il riferimento alle pievi, alle cappelle, alle vie crucis, all’arte sacra è sfuggito a molti commentatori. Ma ha un valore doppio se agganciato al capitolo del discorso papale dedicato ai migranti. Accanto al capo dello Stato e alla premier Giorgia Meloni, Leone ha ringraziato l’Italia «per l’assistenza che offre con grande generosità ai migranti, che sempre più bussano alle sue porte, come pure il suo impegno nella lotta contro il traffico di esseri umani. Sfide di fronte alle quali il Paese non si è mai tirato indietro». Al tempo stesso ha richiamato con la forza della sua dolcezza «all’importanza di una costruttiva integrazione di chi arriva, nei valori e nelle tradizioni della società italiana, perché il dono reciproco che si realizza in questo incontro di popoli sia veramente per l’arricchimento e il bene di tutti».
Due passaggi sono decisivi.
1 Il Papa non ha paura di suscitare gastriti a sinistra parlando apertamente di traffico di esseri umani.
2 E ancor meno ne ha quando sottolinea che, per essere un arricchimento, l’integrazione passa obbligatoriamente dal rispetto dei valori, delle tradizioni, dell’identità di una storia che anche a quei campanili, a quelle pievi, a quelle chiese si rifà con devozione. Insomma, l’orizzonte cattolico non può essere oscurato, messo in disparte nascondendone i simboli (dalla croce al presepe) per compiacere il laicismo globalista e per non urtare la suscettibilità di chi bussa alle nostre porte accompagnato da altre religioni.
La prolusione quirinalizia rinforza un convincimento non nuovo. Quando Leone invita al rispetto dei migranti si riferisce al valore assoluto dei diritti umani; lo ha fatto supportando i vescovi americani contro gli eccessi trumpiani, lo ha rifatto a Castel Gandolfo con il parallelismo pro life-aborto. Ma il Papa non nega le problematiche dell’integrazione come vorrebbe farci credere qualche chierichetto cattodem. E ha ben presente l’importanza di ribadire i valori secolari della società che accoglie. Un distinguo decisivo più volte reso pubblico, a partire dalla consapevolezza (come annunciò anni fa in un’omelia a Chicago) che l’immigrazione di massa rimane un problema.
In tutto ciò si coglie ancora una volta l’essenza del Sistema Prevost. La barca papale si allontana sempre più dalla rotta terzomondista tracciata da Jorge Bergoglio, dal gesuitismo che strizza l’occhio alla teologia della liberazione ed è favorevole al grande abbraccio senza misurarne le conseguenze. La barca papale non ha nulla a che vedere con una Ong. Solca i mari della tradizione, ma lo fa senza scossoni. Parafrasando Aldo Moro, il Papa sembra applicare la strategia delle «divergenze parallele». E mentre Mattarella e Meloni ascoltano, lui chiarisce ancora meglio ciò che ha nel cuore: «È prezioso per ciascuno amare e comunicare la propria storia e cultura, perché più si riconosce e si ama serenamente ciò che si è, più è facile incontrare e integrare l’altro senza paura e a cuore aperto».
Parole forti che contrastano con la dittatura del relativismo e si avvicinano a quelle di Joseph Ratzinger nel famoso discorso «Pro eligendo Romano Pontifice» di 20 anni fa. Come fece allora Benedetto XVI, l’altro ieri Leone ha ribadito con preoccupazione la tendenza attuale a non apprezzare abbastanza quello che i nostri padri ci hanno trasmesso, «modelli e valori maturati nei secoli che segnano la nostra identità culturale, addirittura a volte pretendendo di cancellarne la rilevanza storica e umana». Un vade retro alla cancel culture, alla melassa che tutto uniforma, al neocolonialismo delle mode globali. Nella consapevolezza che non dobbiamo «lasciarci affascinare da modelli massificanti e fluidi, che promuovono solo una parvenza di libertà, per rendere invece le persone dipendenti da forme di controllo come le mode del momento, le strategie di commercio o altro».
Tornare alle radici, tornare a calpestare le orme dei padri, tornare a Cold Mountain. Il passato bussola del futuro. Leone è convinto che per guardare all’oggi e al domani con consapevolezza e senso della prospettiva, sia indispensabile «avere a cuore la memoria di chi ci ha preceduto e far tesoro delle tradizioni che ci hanno portato ad essere ciò che siamo». Quella memoria che può farci riscoprire «la ricchezza immensa ma spesso umile e nascosta» del nostro Paese.
I modelli massificanti e fluidi scivolano sotto le porte delle sacrestie.
Ma le pietre angolari non si spostano.






