2022-02-18
Giustizia in crisi per il potere dei pm, non per le «porte girevoli» in politica
Il provvedimento del governo contro il ritorno in servizio delle toghe viola almeno 3 articoli della Costituzione. La riforma del 1988 ha consegnato ai pubblici ministeri la chiave per sfruttare a fini promozionali le inchieste.Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Potrà anche apparire giustificata la diffusa opinione che, come previsto nel disegno di legge governativo sulla riforma (l’ennesima) della giustizia, si dovrebbe precludere ai magistrati eletti a cariche politiche o che abbiano svolto, per un certo tempo, incarichi di natura politica, la possibilità di tornare ad esercitare funzioni giudiziarie, una volta che il mandato o l’incarico politico siano cessati. Vi è però da dire che un tale provvedimento potrebbe dar luogo a non pochi dubbi di incostituzionalità per contrasto, anzitutto, con l’art. 51, III comma, della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che chiunque sia stato chiamato a funzioni pubbliche elettive ha il diritto «di conservare il suo posto di lavoro». E per «posto di lavoro» non può che intendersi quello occupato al momento dell’elezione, salvo che ciò sia divenuto impossibile perché, ad esempio, il posto sia stato soppresso o l’impresa presso la quale l’interessato lavorava abbia cessato la sua attività. Appare quindi arduo sostenere che, nel caso del magistrato che, al momento dell’elezione, esercitava funzioni giudiziarie, gli si possa legittimamente negare, a mandato esaurito, il diritto di tornare ad esercitare, essendovene sempre la possibilità, quelle stesse funzioni, destinandolo invece (come pare sia previsto nel disegno di legge) a funzioni tutt’affatto diverse, quali potrebbero essere quelle di natura amministrativa presso il ministero della Giustizia o altra pubblica amministrazione. Ulteriore contrasto potrebbe poi essere quello con gli artt. 3, I comma (principio di uguaglianza), e 98, III comma, della Costituzione. Quest’ultimo, infatti, nel prevedere la possibilità che, per legge, possa essere limitato il diritto di iscrizione ai partiti politici da parte non solo dei magistrati, ma anche dei militari di carriera in servizio attivo, dei funzionari ed agenti di polizia e dei rappresentanti diplomatici e consolari all’estero, si basa chiaramente sul presupposto che tutti siano da ritenere, per così dire, «a rischio» di strumentalizzazione delle loro funzioni per finalità di ordine politico, e si debba quindi salvaguardare, per quanto possibile, non solo la sostanza, ma anche l’apparenza della loro più assoluta equidistanza. Di qui la evidente difficoltà di considerare legittimo il divieto per i soli magistrati, e non anche per tutti gli altri, di tornare ad esercitare le loro precedenti funzioni. Ma, a questo punto, ci si potrebbe chiedere se non varrebbe comunque la pena di varare un provvedimento che, pur a rischio di incostituzionalità, fosse però effettivamente idoneo a ripristinare un adeguato livello di credibilità della magistratura, da tempo gravemente compromesso (specie quello della magistratura penale) per varie cause, tra le quali, in primo luogo, quella costituita dalla non rara strumentalizzazione delle funzioni giudiziarie. La risposta, però, non sembra possa essere positiva. Occorre infatti considerare che tra i fini di quella strumentalizzazione non sempre vi è quello di realizzare il desiderio del magistrato di intraprendere una carriera politica ma vi è, anzi, il più delle volte, soltanto quello di acquisire notorietà e prestigio da spendere per la progressione in carriera nell’ambito della stessa magistratura o per l’accesso ad organismi ad essa collegati, quali, ad esempio, il Consiglio superiore della magistratura o la Corte costituzionale; e ciò mediante un uso assai disinvolto ed avventuroso, specialmente da parte dei magistrati del pubblico ministero, dei poteri dei quali essi sono investiti, avendo come obiettivo più quello di una forte esposizione mediatica che quello (pur sbandierato), di una affermazione della legalità e della giustizia. Basti pensare ai sempre più numerosi casi, emergenti dalle quotidiane cronache giudiziarie, di processi avviati con grande clamore mediatico (oltre che con notevole dispendio di danaro pubblico) a carico di esponenti politici o di managers di grandi imprese e poi conclusisi, dopo lunghi anni, con pressoché generali assoluzioni. Stando così le cose, se veramente si volesse affrontare il problema alla radice (quanto meno per attenuarlo, se non per risolverlo), occorrerebbe rendersi conto che quella radice non va individuata soltanto nell’esistenza delle cosiddette «porte girevoli» che consentono al magistrato di entrare in politica e rientrare poi in magistratura. Essa, infatti, si ritrova anche e soprattutto nell’abnorme ed incontrollato margine di discrezionalità, inevitabilmente connotato anche da colorazioni politiche, di cui dispongono, a partire dall’entrata in vigore (nel 1988) del vigente codice di procedura penale, i magistrati del pubblico ministero nel ricercare, di loro iniziativa, le ipotetiche «notizie di reato», per poi scegliere, tra esse, quelle più «succulente», sulla base delle quali instaurare i procedimenti penali suscettibili di dar luogo a maggiore visibilità. Ben diversa era, in precedenza, la funzione del pubblico ministero, quale risultava nel sistema del codice di procedura penale in vigore fino al 1988 ed al quale si erano chiaramente ispirati anche i padri costituenti nel dettare le norme sull’ordinamento e le funzioni della magistratura. In quel sistema, infatti, gli uffici del pubblico ministero erano essenzialmente preposti non alla ricerca ma alla sola ricezione delle notizie di reato (comprese quelle che potevano provenire da un qualsiasi privato cittadino), per valutarne quindi, in primo luogo, la credibilità e la fondatezza giuridica e poi passare, in caso positivo, al reperimento delle prove ed infine, a seconda del risultato, alle conseguenti determinazioni circa l’esercizio o meno dell’azione penale. Questo dovrebbe essere, quindi, il modello da riprodurre. A ciò occorrerebbe poi aggiungersi il ripristino dell’immunità parlamentare, quale delineata nella originaria formulazione dell’art. 68 della Costituzione e simile a quella ancor oggi vigente in molti Paesi democratici, secondo cui anche per la sola instaurazione di un procedimento penale a carico di un parlamentare era necessaria l’autorizzazione a procedere della camera di appartenenza. Vero è che tale formulazione aveva dato luogo (e potrebbe ancora dar luogo) a notevoli abusi in favore dei parlamentari accusati di delitti, a volte anche gravi. Altrettanto vero, però, è che la sua soppressione è stata causa di altri e numerosi abusi, da ritenere più gravi dei primi, in quanto commessi in danno di persone poi risultate innocenti e, non di rado, anche con grave pregiudizio di interessi economici collettivi. Ed in tali condizioni, quindi, non dovrebbero esserci dubbi su quale sia la scelta giusta da compiere.