Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Appare, peraltro, pacifico, in difetto di contraria previsione, che un tale consenso può anche validamente manifestarsi in modo tacito o «per facta concludentia», mediante non opposizione all’altrui iniziativa. Su ciò si è detto d’accordo, in un articolo a sua firma comparso su Il Dubbio del 18 novembre scorso, anche il professor Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale all’università di Palermo, pur annoverabile tra coloro che hanno espresso adesione, in linea di massima, alla nuova formulazione del reato. Non è dato, quindi, comprendere come il tacito consenso possa essere ritenuto inesistente o invalido quando la non opposizione, con la quale esso si sia manifestato, non sia riconducibile ad alcuna forma di violenza, minaccia, inganno ad opera del partner e questi non abbia neppure abusato della sua autorità o di condizioni di inferiorità fisica o psichica della presunta persona offesa. Né si comprende, in assenza di comportamenti di tal genere, come possa attribuirsi un qualsivoglia rilievo ad un dissenso espresso solo a parole, al quale si accompagni una totale, passiva adesione alle altrui richieste di prestazioni sessuali.
Ma il problema è stato bellamente ignorato da chi, come, ad esempio, il magistrato di Cassazione Paola Di Nicola Travaglini, esperta in materia di reati sessuali, in un’intervista rilasciata a Repubblica del 14 novembre scorso, ha preferito mettere in luce quella che, a suo dire, sarebbe la «svolta storica» segnata dalla nuova legge. Svolta che, nell’essenziale, sarebbe costituita dal fatto che, finalmente, non sarebbe più «la vittima a dover testimoniare la propria resistenza all’aggressore per dimostrare di essere stata violentata» ma sarebbe «l’imputato a dover dare la prova di avere avuto il consenso della vittima». Si tratta di un’affermazione che - per dirla ipocritamente con un eufemismo in uso tra i frequentatori dei palazzi di giustizia - lascia «alquanto perplessi». La nuova legge, infatti, per quanto mal fatta, non incide sul fondamentale principio che, in materia penale, è l’accusa, rappresentata dal pubblico ministero, a dover dare la prova della sussistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato. E la prova, nel caso della violenza sessuale, deve avere per oggetto non solo l’avvenuta realizzazione (o tentata realizzazione) di un atto sessuale tra due o più soggetti, ma anche - non essendo quell’atto, di per sé, ovviamente, un reato - l’assenza del consenso da parte di uno dei «partners». Assenza che da altra fonte non può desumersi che non sia quella della stessa vittima del vero o presunto reato, la quale dovrà, quindi, necessariamente chiarire anche se e come il dissenso fosse stato manifestato tanto da renderlo chiaramente percepibile alla controparte. Solo sulla base di tali acquisizioni l’imputato potrà poi essere invitato a fornire la sua versione dei fatti e potrà, eventualmente, addurre a sua difesa che il dissenso o non c’era o non era percepibile. Ed è da aggiungere, in proposito, che quand’anche di ciò egli non potesse fornire la prova, basterebbe soltanto la riscontrata verisimiglianza del suo assunto ad imporre, a rigore, una pronuncia assolutoria, sulla base del noto principio dell’«in dubio pro reo», anch’esso non derogato né derogabile dalla nuova legge. Nessun dubbio, quindi, che, sotto il profilo in discorso, non sia ravvisabile alcuna sostanziale novità rispetto al passato. Il che vale anche a smentire un’altra affermazione contenuta nell’intervista di cui si è detto, secondo cui «se il No non è chiaro, se è un “forse” bisogna sempre presumere il dissenso della donna» e, pertanto, la sussistenza del reato, giacché «il dissenso va sempre presunto». Ragionamento, questo, che sembra fondarsi su di un implicito quanto bizzarro presupposto: quello, cioè, che l’atto sessuale costituisca di per sé stesso un reato commesso dall’uomo in danno della donna, per cui quest’ultima sia da ritenere, fino a prova contraria, non consenziente, così come è da ritenere, fino a prova contraria, non consenziente chi sia stato vittima, ad esempio, di un furto o di una rapina. Ed è, questo, un atteggiamento mentale che appare ricalcato su quello del più fanatico e rabbioso femminismo, per il quale l’uomo, inteso come «maschio», è, per sua natura, sempre e comunque uno stupratore di femmine, quali che siano le modalità del suo approccio verso l’altro sesso, e merita, quindi, di essere in ogni caso punito, facendosi salva soltanto l’ipotesi che la donna voglia talvolta usarlo per suo piacere ovvero gli conceda, per malinteso e improvvido spirito di condiscendenza, di sfogare su di lei i suoi bestiali istinti. Sia consentito dire che lascia un tantino preoccupati il constatare che un siffatto atteggiamento mostri di aver fatto capolino anche tra chi è preposto all’amministrazione della giustizia.
Grazie all’accordo «bipartisan» Meloni-Schlein è stato approvato in commissione giustizia della Camera, il 12 novembre scorso, il progetto di legge a firma dell’onorevole Laura Boldrini e altri, recante quello che, dopo la probabile approvazione definitiva in Aula, dovrebbe diventare il nuovo testo dell’articolo 609 bis del codice penale, in cui è previsto il reato di violenza sessuale. Esso si differenzia dal precedente essenzialmente per il fatto che viene a essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito nella vigente formulazione della norma), ma anche quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione
Ciò dà luogo a problemi interpretativi di non scarso rilievo. Appare, infatti, assai difficile immaginare come possa considerarsi dissenziente o non validamente consenziente, e pertanto vittima di reato, un soggetto che non sia stato sopposto ad alcuna violenza, minaccia, inganno e non si trovi in condizione di soggezione all’altrui autorità o in condizioni di inferiorità fisica o psichica.
Due appaiono, quindi, le possibili ipotesi interpretative. La prima è che l’introduzione della nuova previsione di reato sia del tutto inutile e, pertanto, destinata, in pratica, alla disapplicazione, non potendosi parlare di mancato o invalido consenso quando non sussista alcuna delle condizioni ora menzionate. La seconda è che, volendosi ricercare un’autonoma sfera di applicabilità della nuova previsione, essa vada individuata immaginando che l’atto sessuale venga posto in essere a fronte di una puramente labiale manifestazione di dissenso, non seguita da alcuna forma di resistenza, se non, addirittura, a fronte di un atteggiamento che sia, fin dall’inizio, soltanto di muta passività. Ipotesi, queste, nelle quali, finora, sarebbe stato da ravvisarsi un tacito consenso con esclusione, quindi, della configurabilità del reato. In sostanza, verrebbe, in tal modo, ad assumere carattere di reato ogni atto sessuale che non fosse preceduto da un consenso formale ed espresso prestato dal partner.
È molto probabile che tale seconda interpretazione sia proprio quella che, secondo gli autori del progetto di legge in questione, dovrebbe essere adottata, in adesione a quanto si afferma essere previsto dalla Convenzione di Istambul contro tutte le forme di violenza nei confronti delle donne, stipulata l’11 maggio 2011 e resa esecutiva in Italia con legge n. 77 del 2013. Il che, però, non sembra esatto. Se è vero, infatti, che tale Convenzione, all’articolo 36, prevede che debba costituire violenza sessuale ogni atto sessuale «non consensuale», è altrettanto vero che non viene poi chiarito in che cosa debba consistere la non consensualità, per cui è più che ragionevole pensare che essa si fondi sull’implicito presupposto che vi sia stata una qualche forma di costrizione o di illecito condizionamento tale da escludere o rendere invalido il consenso. Presupposto che è appunto quello esplicitato già nell’attuale formulazione dell’articolo 609 bis del codice penale. Già essa è, quindi, da ritenersi perfettamente attuativa della Convenzione, senza alcun bisogno dell’aggiunta che, con il progetto di legge in discorso, si vorrebbe introdurre e che, se interpretata nel modo anzidetto, darebbe luogo alla paradossale conseguenza per cui, escludendosi la validità del consenso tacito, sarebbero quasi sempre a rischio di illiceità i normali rapporti sessuali, ivi compresi quelli tra coniugi o tra soggetti stabilmente conviventi.
Ma i paradossi non finiscono qui. La previsione, infatti, che il consenso, oltre che «libero» debba anche essere «attuale» importerebbe, secondo i primi commenti, che esso debba permanere per tutto il corso del rapporto sessuale. Ne deriva che commetterebbe reato anche il soggetto che non interrompesse immediatamente il rapporto al manifestarsi del sopravvenuto dissenso del partner. Il che, per la verità, si trova già affermato, sulla base della norma ancora vigente, in talune pronunce della Corte di cassazione. In esse, però, si dà per implicito presupposto quello che la prosecuzione del rapporto sia comunque effettuata in uno dei modi espressamente previsti perché il reato possa dirsi configurato: vale a dire mediante costrizione fisica o psichica ovvero mediante abuso di autorità o delle condizioni di inferiorità della persona offesa.
Stando alla nuova formulazione, invece, la prosecuzione del rapporto in presenza di sopravvenuto dissenso verrebbe a costituire reato anche in mancanza di alcuna delle suddette condizioni. Il che appare contrario al più elementare buon senso, tanto più in quanto non sarebbe neppure richiesto che a sostegno del sopravvenuto dissenso venisse addotta una qualsivoglia motivazione.
Chi volesse, quindi, nella vigenza di quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato, intraprendere la perigliosa via di un rapporto sessuale dovrebbe, per mettersi relativamente al sicuro, fare in modo che esso si svolgesse in presenza di testimoni (se possibile, meglio ancora, di un notaio) o fosse video e audio registrato dall’inizio alla fine, sì da poter documentare, a fronte di eventuali denunce, la presenza e la costante permanenza del consenso del partner. Infatti, anche un preventivo atto di consenso scritto non costituirebbe garanzia sufficiente, dal momento che anch’esso potrebbe essere, in corso d’opera, revocato verbalmente o «per facta concludentia».
E prova di una tale revoca potrebbe essere anche la pura e semplice affermazione del partner, attesa la regola che, in materia penale, può costituire prova a carico dell’imputato anche la sola dichiarazione resa, in veste di testimone di sé stessa, dalla vera o presunta persona offesa.
Può essere, tuttavia, divertente osservare, a questo punto, che, a stretto rigore, anche la donna potrebbe rischiare di essere incriminata per violenza sessuale. La norma, infatti, tanto nell’attuale quanto nell’eventuale, futura formulazione, prevede che il reato possa essere commesso da «chiunque» e, quindi, anche da una donna. E tale ipotesi potrebbe, ad esempio, verificarsi qualora l’uomo, volendo evitare di rendere incinta la donna, manifestasse, nel corso del rapporto, l’intento di praticare il «coitus interruptus» e la donna, in qualche modo, glielo impedisse, facendo sì che il rapporto proseguisse fino al suo totale compimento.
Chissà cosa direbbero, in tal caso, la onorevole Boldrini e gli altri che, con lei, hanno sostenuto la nuova legge.
A fronte di fatti come quello della donna recentemente accoltellata a Milano, senza motivo alcuno, da uno squilibrato mentale già resosi autore, in passato, di fatti analoghi e ciononostante a piede libero, è logico che ci si chieda che cosa non funzioni nel sistema che, teoricamente, dovrebbe garantire che soggetti di già riconosciuta pericolosità siano messi in condizione di non nuocere ulteriormente. La risposta è che quel sistema, originariamente rispondente a una certa logica e suscettibile, quindi, di produrre un certo grado di sicurezza, è stato progressivamente, di fatto, smantellato a colpi di interventi legislativi e di pronunce della Corte costituzionale.
Per rendersene conto è necessario anzitutto ricordare che nell’ordinamento italiano sono previste, per chi commette reati, oltre alle pene anche le misure di sicurezza personali, che sono (limitandoci alle principali): l’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro, per i soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza; il ricovero in manicomio giudiziario o in casa di cura e custodia per i soggetti dichiarati, rispettivamente, totalmente o parzialmente infermi di mente; la libertà vigilata nei casi previsti specificamente dalla legge o, comunque, in ogni caso in cui vi sia stata condanna alla reclusione per un tempo superiore a un anno. Tali misure sono applicabili a coloro che, oltre ad aver commesso un reato, siano da considerare socialmente pericolosi, essendovi la probabilità che ne commettano altri. La loro finalità è, quindi, a differenza di quella delle pene, essenzialmente preventiva e ciò spiega il fatto che la loro durata sia determinata solo nella misura minima, potendo le stesse essere rinnovate, di volta in volta, per analoga durata finché non si ritenga che la pericolosità sociale sia cessata.
Un primo colpo al sistema fu quello assestato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 110/1974, che, per quanto ancora d’interesse, dichiarò incostituzionale l’articolo 207 del Codice penale, nella parte in cui non consentiva che la misura di sicurezza potesse essere revocata dal magistrato di sorveglianza anche prima che fosse trascorso il tempo minimo della sua durata, stabilito dalla legge, qualora, a giudizio dello stesso magistrato, la pericolosità sociale potesse dirsi cessata. In tal modo, alla previsione di legge, pur lasciata formalmente in vigore, veniva a sostituirsi, di fatto, la discrezionalità del singolo magistrato.
Un secondo e un terzo colpo furono quelli assestati ancora dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 139/1982 e 249/1983, con le quali fu stabilito che il ricovero in manicomio giudiziario e l’assegnazione a una casa di cura e custodia, pur disposti dal giudice della cognizione con sentenza divenuta esecutiva, non protessero aver luogo se non previo accertamento della persistente pericolosità sociale da parte del giudice dell’esecuzione. Il che, non essendo previsto un termine entro il quale tale accertamento debba essere effettuato, ha comportato che l’esecuzione della sentenza possa essere, di fatto, procrastinata a tempo indeterminato.
Ma un ulteriore e più grave colpo fu inferto con la legge n. 663/1986 (la cosiddetta legge Gozzini) a quello che poteva ritenersi il cardine del sistema, costituito dall’articolo 204 del Codice penale, in cui era stabilito, in sintesi, che dovesse presumersi socialmente pericoloso il soggetto nei confronti del quale la legge prevedeva come obbligatoria l’applicazione, a determinate condizioni, di una misura di sicurezza. Nonostante che la detta norma fosse stata dichiarata pienamente legittima dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 19/1966 e 68/1967, essa fu abrogata dall’articolo 31 della citata legge n. 663/1986 che la sostituì con la previsione che ogni misura di sicurezza fosse applicabile soltanto «previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa»; accertamento da farsi, quindi, a opera del giudice, per ogni singolo caso. Ciò ha comportato che si possa dichiarare qualcuno delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero ordinarne il ricovero in manicomio giudiziario per aver commesso, a causa della totale infermità di mente, un grave reato e, al tempo stesso, si possa ritenere improbabile che egli commetta ulteriori reati ed escludere, quindi, che sia socialmente pericoloso. Il che appare quanto di più contraddittorio e assurdo si possa immaginare.
Tornò poi di scena la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 253/2003, dichiarò incostituzionale la norma che prevedeva come obbligatorio, nei casi da essa indicati, il ricovero in manicomio giudiziario (divenuto, nel frattempo, «ospedale psichiatrico giudiziario»), nella parte in cui non consentiva al giudice di sostituire la detta misura con altra, non meglio identificata, tra quelle previste dalla legge, «idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente a far fronte alla sua pericolosità sociale».
Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati successivamente soppressi e sostituiti, a partire dal 2011, con le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), la cui assoluta insufficienza rispetto alle esigenze minime della sicurezza sociale è stata adeguatamente messa in luce, su questo giornale, dal direttore Maurizio Belpietro nell’articolo comparso il 5 novembre scorso.
Come se non bastasse, è infine intervenuta la legge n. 81/2014 che, nel convertire il decreto legge n. 52/2014, ha stabilito, all’articolo 1, comma 1 quater, che i rinnovi delle misure di sicurezza per la ritenuta permanenza della pericolosità non possono andare oltre la durata della pena massima stabilita dalla legge per il reato commesso. Il che, pur se apparentemente ragionevole, è, in realtà, del tutto contrario alla logica propria delle misure di sicurezza, perché importa che le stesse debbano comunque cessare pur quando, in ipotesi, sia ancora presente e conclamata la pericolosità sociale del soggetto.
Stando così le cose, non vi è certo da stupirsi che il sistema non funzioni e che, quindi, accadano fatti come quello di Milano e come molti altri più o meno analoghi, quali ricordati nel citato articolo del direttore. E un rimedio potrà trovarsi solo a condizione che sia l’opinione pubblica, superando la tentazione dello scetticismo e/o della rassegnazione, a pretendere con forza che lo Stato adempia al primo e fondamentale dei suoi doveri: quello, cioè, di garantire nella massima misura possibile la sicurezza dei cittadini, a fronte della quale ogni altra esigenza deve ritenersi soccombente perché, quando manca la sicurezza, manca la condizione primaria della civile convivenza.
di Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione





